È una contrada dove le capre debbono esserci state sempre, dai tempi dei tempi, se è vero che due dei paesi che sono in quelle parti portano ancora nomi che con la parola "capra" hanno strettamente a che fare. È una contrada civile, d'antica illustre civiltà, che ha il suo perno in una montagna le cui pendici non sono molto lontane da una città famosa, ma che conserva ancora, per fortuna, alunché di rustico e primitivo.
Le automobili che, provenienti dal nord, transitano su quella montagna per arrivare alla città famosa, incontrano ancora - ma sempre più raro - qualche gruppetto di capre nere, con quelle barbette al vento, con quel tipico passo di mandria fra prudente e smemorato che va dietro a un pastore, per lo più vecchio, con una verga in mano, una borraccia militaresca dietro le spalle. Le automobili vorrebbero fermarsi, le signore specialmente sarebbero curiose di veder meglio quello spettacolo insolito; e le signore straniere mandano alle volte gridi di meraviglia, ma la disattenzione di chi guida o la fretta d'arrivar in città li trascina via tutti, senza guardare, come in una folata di vento distratto.
Conosco uno di questi greggi di capre. Il pastore è vecchio, combatté nella prima guerra mondiale. Da quella guerra, insieme con una ferita a una gamba, portò via un tascapane, e una borraccia; gli piacevano. E, insieme con quella borraccia (il tascapane si è rotto, anche se fu sostituito per due volte da altri tascapani, portati da un nipote durante la seconda guerra mondiale), il pastore, oramai vecchio, porta con sé una coperta, a tracolla. I cosciali d'inverno non se li fa fare di pelle di capra; per una superstizione. Li vuole di pelle di pecora: quasi bianchi, screziati di giallo.
Conosco anche quella superstizione, queste piccole manie, ho discorso più di una volta col pastore che vien chiamato, come tutti i pastori, con un soprannome: Caiello.
Ma questo non importa. Quel che importa sapere è che quest'anno, dopo forse mille anni, da tempo immemorabile, è venuta sulla montagna e in tutta la contrada tanta neve come mai era venuta. E anche tanto gelo. Incominciò il due febbraio verso mezzogiorno, quando in mezzo a una pioggerella fredda prese a baluginare qualche fiocco di neve. Poi nel pomeriggio ci fu calma. E verso sera venne una nevicata lieve, innocua, quasi primaverile. S'era attaccata più che altro alla crosta degli alberi e, nelle prime ore della notte, quasi accarezzata dall'alito di un vento tiepido, s'andava lentamente sciogliendo. Il pastore Caiello era uscito dalla sua capanna: gli mancavano due caprette. Dovevano essersi fermate poco più giù, in uno stazzo antico; e non aveva preoccupazioni. Le avrebbe certo ritrovate, anche se era di notte. Gli piaceva invece quella nevicata leggera e quel vento tiepido che presto l'avrebbe spazzata via.
Fu in quell'attimo, mentre aveva già ritrovato le due caprette, tutte fradice d'umidore, che l'aria cambiò. All'improvviso: un'aria gelida, polare, da levar la pelle; senza vento. Un'aria che, introdottasi all'improvviso in quell'umidore che si andava sciogliendo, lo fermò, lo rattrappì, lo inchiodò, come per una trama di mille aghi sottili, nella corteccia degli alberi. Così conficcato, il gelo penetrò a fondo nella midolla degli alberi, la ferì a morte.
Il pastore Caiello pensò in quel momento alle gambe delle due caprette che, inzuppate d'umidore, si erano anch'esse rattrappite, mentre risalivano verso la capanna, ma pensò di più ai tre olivi che aveva giù, ai piedi della montagna. Soltanto tre olivi; ma alti, belli, fronzuti, comprati a soldo a soldo con i sacrifici di tutta la sua vita, in un pezzo di terra poco più grande di un fazzoletto. E adesso i tre olivi stavano morendo.
Lieve, verso l'alba, dopo una notte in cui il pastore Caiello non prese sonno, ricominciò a nevicare; e non finiva più. Ricominciò verso l'alba, dopo tutti quei delitti perpetrati contro le piante e le erbe, la grande nevicata: lieve, innocente, come se nulla fosse accaduto. Adesso al pastore Caiello non piaceva più la neve, era pieno di rabbia. Sapeva che tutti i germogli, anche delle erbe e degli arbusti più resistenti al freddo, anche lassù sulla montagna, per i morsi di quel gelo, venuto all'improvviso dopo l'umidore, erano morti; e che se voleva salvarsi e salvare le sue bestie, doveva far presto. Più volte era disceso dalla montagna, ma adesso era un affare serio.
Aveva nevicato, fitto fitto, tutta la mattina; già due palmi di neve. Dopo mezzogiorno incominciò la tormenta; le assi della capanna, dove Caiello aveva passato quasi tutta la vita, incominciarono a scricchiolare; fuori il "mondo" era già così buio di foschia nevosa e di vento che quasi più non ci si vedeva. Quando la mandria delle capre comparve sulla strada grande, dove passano le automobili, fu come se tutte le barbe delle capre e del caprone e anche delle caprette giovani fossero intirizzite e le zampe rattrappite tra gelo e neve: così dure, queste, a venir fuori dall'involucro della neve alta, così rigide nel far scivolare e battere gli unghioni dei piedi sul ghiaccio...
Il pastore Caiello non sapeva più a che santo rivolgersi. Andava qua e là, gli scarponi entro la neve, a incoraggiar con la verga - leggera ora come una piuma - questa o quella delle sue bestie; ma non c'era nulla da fare. Il passo, già di solito mezzo prudente e mezzo smemorato della mandria, sembrava adesso stregato non si sa da quale incanto; le barbe delle capre, appena un vuoto si formava nella tormenta, stavan tutte rivolte da una parte, quasi incantate, come se, caduto all'improvviso, quasi per miracolo, l'impeto del vento e della neve, in quel vuoto dovesse comparire un suono strano, una specie di campano d'argento o la barba di un santo miracoloso. Perfino il caprone che, con le sue corna abbassate, aveva fatto fin allora da battistrada nella tormenta, stava immobile, come estatico, imbacuccato di neve e di gelo. E maledetto anche il modo come son fatte le capre, proprio la pelle delle capre: che, con quegli intrighi di peli, con quei fili, or morbidi ora aspri di lana, par fatta apposta per afferrare il gelo, per tenere stretti i fiocchi della neve e i nodi del ghiaccio.
Il pastore Caiello non sapeva a che santo rivolgersi. Ma più di tutto erano una disperazione i piccoli nati, i capretti che eran venuti al mondo poche settimane o pochi giorni prima. Tirar su la zampetta a uno, mezzo affogato nella neve; sollevare il musino a un atro che, ostinato, anche nel pieno della tormenta, a poppare dal petto della madre, s'era poi accasciato, come tramortito, sulla strada, con le labbra ancor piene di latte; soffiare sugli occhiucci del più piccolo, un esserino sottile sottile, dal pelo nero come la pece, però morbido e lucente come ebano, le cui zampette posteriori il pastore aveva messo dentro la tasca sdrucita della sua giacca ma che col musino doveva stare appoggiato fra gomito e avambraccio del suo protettore... questa sì è una passione vera, far da mamma e da guardiano.
Quando finalmente, a notte inoltrata, arrivarono a una casa che sta proprio sulla strada maestra e si aprì una luce, tutte le capre e anche il caprone e i capretti rimasero con le teste alzate, gli occhi spalancati in mezzo ai peli annodati di ghiaccio, le barbette immobili, incantate, come se, in mezzo alla tormenta, nel buio della notte, la piccola nave ondulante della mandria nera in marcia fosse stata presa all'improvviso nella striscia splendente e luminosa di un faro. Stettero immobili, tutte le facce voltate da una parte; e il pastore capì che erano arrivati.
Era questa la casa d'un prete che al pastore Caiello era stato sempre amico. Parente di parenti; e anche la sorella del prete, la "zia", gli aveva sempre fatto la faccia amica, specie quando per Pasqua, quasi per abitudine, il pastore portava un capretto e per l'Ascensione il latto "caiato".
Ma quella sera, allorché il pastore comparve con tutto l'armento, i visi non furono amici. Il prete aveva scoperto proprio in quelle sere di neve, leggendo entro un vecchio libro di poesie latine, che le capre, specie il caprone, mandano un odore immondo, e la "zia", diventata negli ultimi anni sempre più bisbetica, inorridì all'idea di avere chi sa per quanto tempo come ospiti il pastore e la sua mandria, anche se sapeva che, non lotana dalla casa dove abitavano, avevano in proprietà una stalla vuota. Ci fu una breve discussione, quasi un alterco; il pastore ebbe un lampo d'ira negli occhi. Poi pensò che i due in fondo non avevano torto se al primo comparire, in quella notte d'inferno, gli avevano fatto la faccia scura.
Per fortuna c'era nella casa rustica un ragazzo, il nipote del prete, che aveva il cuore buono. Fu lui che rabbonì lo zio e la zia, fu lui che, in mezzo alla neve, accompagnò Caiello e le sue bestie nella stalla, si assicurò che la porta di questa reggesse bene agli urti del vento e - poiché era anche ghiotto - si fece dare, prima di tornare in casa, una tazza di latte.
Con furbizia di contadino, il pastore Caiello pensò di sfruttare la ghiottoneria del ragazzo e insieme il suo amore per le bestie. Era un ragazzo chiuso, con la fronte bassa, i capelli tutti ispidi come i peli di un istrice, ma un poco fantastico. Gli piacevano le bestie, soprattutto le capre. E nelle ore in cui non aveva nulla da fare – poiché le scuole per il maltempo, continuando a nevicare, eran chiuse – correva verso la stalla. E lì, seduto su una trave, vicino alla mangiatoia, mentre la neve continuava a cadere, il ragazzo dai capelli irsuti si faceva venire vicino le capre, specie quelle più snelle e graziose; forzava con le mani le zampette di questa o di quella bestiola a mettersi sui suoi ginocchi e lentamente ne accarezzava la testa. Come gli piaceva, quando la capra, a un rumore improvviso nato in mezzo al silenzio della neve, subito voltava la testa come incantata, con quel musino allungato, quasi a intento a capire...
"S'è innamorato delle capre", diceva tra sé il pastore Caiello, e lo lasciava stare.
Al ragazzo piaceva soprattutto una capretta snella e gentile, dagli occhi incredibilmente dolci, con le due piccole corna, che spuntavano tenere fra i peli della fronte. E come rideva contento il ragazzo, quando, le zampette della bestiola sui suoi ginocci, le faceva il solletico con le dita sotto il mento e quella volgendo rapida gli occhi, a un minimo rumore del vento dalla parte della finestra, rimaneva come trasognata; ma poi, quasi ritornando in se stessa, dava una lieve zuccata a lui, con la sua spalla, come se fossero tutti e due d'accordo a non aver paura del vento, a continuare il gioco. Rideva felice, e qualche volta, se una spera di sole, interrompendo la nevicata, entrava nella stalla, si metteva a ruzzare con le capre come se fosse anche lui un capretto... Il pastore lasciava fare.
Furono giorni difficili, meno che per il ragazzo. La neve crebbe fino a un metro, un metro e mezzo, arrivò quasi all'altezza dell'ultimo cardine della porta della stalla. Bisognava spazzare via la neve, bisognava andare ogni giorno nel paese vicino, a procurare il mangime; bisognava cuocere parte del mangime entro una conca di rame in un camino posticcio, scavato in una parete della stalla. E quando le capre si ammalarono, fu necessario andare in paese in cerca del veterinario e poi delle medicine. A tutte queste cose si prestò il ragazzo e, nelle ore in cui di solito andava a scuola, si prestò perfino, con grave scandalo della zia, a vendere il latte.
Adesso che le scuole si sono riaperte, anche le capre son tornate lentamente sulle pendici della montagna. Il pastore Caiello fa, nella sua mente, i conti della battaglia combattuta. Tre delle capre più vecchie morte; tre capretti, e non soltanto uno, offerti come sacrificio per l'ospitalità, lunga e noiosa, che i padroni della casa hanno concesso. Ma il nerbo dell'armento è intatto; giovani e vecchi tutti in gamba su per la salita.
Peccato che gli olivi siano definitivamente perduti. Il pastore Caiello è stato a visitarli col cuore trepidante, in uno degli ultimi giorni della dimora nella stalla. Li ha visti come "stregati": i fili nudi, di quella che un tempo era stata la chioma delle foglie, abbassati, umiliati quasi fossero rami di salici piangenti. E morti: proprio scheletri bianchi come fantasmi. Questa è una ferita che gli rimarrà nel cuore.
Per il resto tutto si accomoderà. Vero è che la primavera quest'anno è ancora come addormentata; ma i germogli dei rovi, su, nella montagna, proprio quelli che parevan morti peggio degli olivi, ecco che incominciano a rispuntare. Le spine, pensa il pastore, nella vita sono più dure a morire che i fiori e i frutti. Anche gli arbusti di carpino e di quercia presto rimetteranno fuori le loro puntine vive, così gradite alla lingua raposa delle capre; e tutto sarà in fondo come prima. Come sempre, come mille anni fa.
Solamente ci saranno di nuovo le automobili che, transitando sulla montagna, incontrano ancora - ma sempre più raro - qualche gruppetto di capre nere, con quelle barbette al vento, con quel tipico passo di mandria fra prudente e smemorato che va dietro a un pastore. Le automobili vorrebbero fermarsi, le signore specialmente sarebbero curiose di veder meglio quello spettacolo insolito, ma la disattenzione di chi guida o la fretta d'arrivare in città li trascina via tutti, senza guardare, come in una folata di vento distratto.
Bonaventura Tecchi
Effettivamente sono numerose le località, il cui nome ha a che fare con la parola "capra", da Capranica e Caprarola, due paesi della provincia di Viterbo (probabilmente quelli ai quali allude lo scrittore di Bagnoregio) alla famosa isola di Caprera, legata per sempre al ricordo di Garibaldi; dalla meravigliosa Capri, nel golfo di Napoli, a Caprara, nelle isole Tremiti; da Capracotta (Campobasso) a Capranica Prenestina (Roma); da Capraia, nell'arcipelago toscano, a Caprona e a Caprile. E l'elenco è tutt'altro che finito.
Fonte: B. Tecchi, Storie di bestie, a cura di F. Mazzoleni, Bompiani, Milano 1965.