Chi oggi, partendo da Campobasso con un'auto di media cilindrata, volesse recarsi a Capracotta, la nostra ridente, frequentata stazione climatica estiva e invernale, potrebbe giungervi in meno di novanta minuti. La strada, ottimamente bitumata e con curve ben tracciate, grazie anche a viadotti e gallerie, non fa avvertire al viaggiatore il sensibile sbalzo d'altitudine che lo porta a 1.421 metri. Della vecchia "provinciale 70", restano solo le bellezze del mutevole paesaggio montagnoso ed il suggestivo attraversamento del bosco di Staffoli.
Ma settant'anni fa non era così. Tortuosa, con ripide salite ed il fondo di solo pietrisco, quella via sottoponeva le rudimentali auto del tempo e i malcapitati viaggiatori a sforzi tali da scoraggiare i meno intrepidi, in particolar modo nella lunga stagione invernale quando le nevicate, allora così abbondanti da superare i due metri, paralizzavano la vita di quei luoghi. Per giorni e giorni, nel "paese dei carbonai", non si poteva uscire dalle case sepolte dalla neve, il cui interno era illuminato da lampade ad olio dato che l'energia elettrica mancava, a volte, anche per mesi. Il riscaldamento, poi, era affidato al camino, almeno fino a quando la bufera, facendo traboccare il fumo, non costringeva gli abitanti a rifugiarsi nelle stalle per evitare il soffocamento.
In una di queste modeste dimore abitava Pasquale Paglione.
Uomo mite per natura, vi aveva messo su famiglia, allevato due figli ma la mancanza di lavoro lo aveva costretto ad emigrare in America dove rimase nove anni. Era lì allo scoppio della Prima guerra mondiale e prestando fede alle voci, false peraltro, secondo le quali agli italiani che non si fossero iscritti nei quadri dell'esercito non sarebbe stato mai più consentito il rientro in patria, ingenuamente si affrettò ad arruolarsi e di conseguenza partecipò alle operazioni di guerra per tutti e quattro gli anni della durata del conflitto.
Tornato finalmente a casa, si ritrovò con moglie, tre figli a carico ed un quarto in arrivo e senz'altra possibilità di lavoro che la pastorizia. L'accettò. Col solo rammarico di dover trascorrere la maggior parte dell'anno lontano dalla famiglia per via della transumanza, il trasferimento stagionale delle greggi. Per il resto, pur nella povertà, viveva tranquillo. I figli crescevano buoni e consapevoli: il primo imparava già il mestiere di bastaio - lavoro allora richiesto -, il secondo e il terzo frequentavano le elementari.
Quest'ultimo, Giovanni Leo, aveva due passioni: lo sci e il disegno. In disegno a scuola era un vero portento, ma la maestra purtroppo non apprezzava quelle sue qualità. Fu un giovane talento, invece, un certo Ottorino Conti, chiamato a sostituire la maestra in permesso per malattia, a rilevarne le doti native e la spiccata inclinazione artistica. Conosciuta l'assoluta indigenza nella quale versava la famiglia, non potendo rinnegare la sua intuizione e rischiare di tradire una promessa dell'arte, si risolse a scrivere una lettera al direttore dell'Accademia del Disegno di Napoli spiegandogli il caso. Quel a lettera doveva essere davvero convincente e il dirigente dell'ateneo napoletano rispose subito offrendo al ragazzo l'ammissione gratuita all'Accademia. Restava però, purtroppo e irrisolvibile, il problema del sostentamento.
Gli anni intanto passavano e Leo, finito che ebbe le scuole elementari, doveva decidersi ad imparare un mestiere. Fu così che, anche se di malavoglia, si unì al fratello maggiore che, come abbiamo già detto, lavorava in una bottega di bastaio. Ma quel lavoro non gli piaceva, lo rattristava, lo sentiva più faticoso di quanto realmente fosse. E intanto sognava. Sognava di poter disegnare e dipingere, di poter un giorno creare opere simili a quelle che guardava estasiato sulle poche e modeste riproduzioni d'arte che gli capitavano tra le mani, sulle quali restava in contemplazione per ore prima di tentare di riprodurle a matita su fogli di carta che poi conservava gelosamente.
Aveva poco più di quindici anni quando, avendo saputo di un bravo pittore che viveva a Termoli - del quale non ricorda più il nome - fu subito preso dalla smania di andarlo a trovare. Fu tanto fermo in questa sua decisione che i fratelli più grandi non se la sentirono di rifiutargli il loro aiuto.
Si recò così a Termoli, conobbe il pittore e ottenne di poter restare con lui.
Ma al piacere iniziale di veder avviata la realizzazione del suo sogno, ben presto subentrò la delusione. Il pittore era mediocre. I suoi lavori erano ben lontani da quelli tante volte ammirati sulle illustrazioni e tanto intensamente da averli sempre impressi nella mente. Questi non avevano forza, non suscitavano emozioni. Che insegnamento avrebbe potuto averne?
Ciò nonostante decise di rimanere: era meglio che niente e poi... qualcosa poteva sempre accadere. Ed infatti, dopo qualche tempo, qualcosa accadde.
Un giorno gli capitò tra le mani la pagina di un giornale molisano che riportava la fotografia di un affresco eseguito da un giovane pittore campobassano, Amedeo Trivisonno, nella Cattedrale della sua città.
Il ragazzo ebbe un sussulto. Quello era il tipo di pittura che gli appariva nei sogni: quella forza nelle figure, quelle espressioni nei volti, quei cieli, quell'insieme carico di tensioni. E poi un affresco in una chiesa lo vedeva già come una importante lezione sui valori dello spirito in nome dell'arte, un libro aperto a rappresentare la divulgazione di un'idea. Quello era un vero artista, perché la costruzione di un'opera come la sua poteva scaturire solo da immaginazione, osservazione e fervida preghiera, oltre che da maestria nel disegno e nella pittura.
Michele Praitano
Fonte: M. Venturoli e M. Praitano, G. Leo Paglione, Palladino, Campobasso 1999.