In questo stato d'animo corse a mostrare il giornale al maestro, il quale, vedendolo così eccitato, tentò di convincerlo di aver preso un abbaglio, che quello era un lavoro da poco. Ma Leo ormai aveva deciso: sarebbe arrivato a Trivisonno, a qualunque costo.
Era la fine dell'autunno e, siccome di solito nei mesi invernali non c'era lavoro, disse al pittore che desiderava tornare a casa per qualche tempo, ma quegli, intuendo che se fosse partito non l'avrebbe più rivisto, gli negò il consenso.
Senza scoraggiarsi Leo, al verde com'era per non avere mai ricevuto una paga, si fece prestare cinque lire da un arrotino amico di famiglia che risiedeva a Termoli, e il giorno dopo era a Campobasso, ospite del fratello bastaio che, sposato, viveva ormai nel capoluogo.
Appena ambientato nel nuovo asilo, si recò nella Cattedrale per vedere dal vero l'affresco che tanto lo aveva affascinato: un'"Ultima cena".
Imponente! La figura del Cristo irradiato di luce divina, al centro della scena; intorno una moltitudine di figure, tutto un mondo di discepoli, personaggi biblici; sulla sinistra, verso il basso, il re-sacerdote Melchisedec nell'atto di offrire il pane e il vino al Signore; sulla destra, Malachia rivolto sdegnoso ad un gruppo di sacerdoti, e, in alto, la figura dell'Eterno Padre in estatica beatitudine, lo inebriarono, lo mandarono in visibilio.
Il giovane guardava il tutto rapito, e dai mutevoli atteggiamenti manifestava emozioni, stupore, interrogativi, quasi avesse stabilito con quei personaggi un muto appassionato colloquio.
Staccato lo sguardo dall'affresco, dopo un tempo difficile da calcolare, guardando attorno, vide un altro affresco che entrando non aveva potuto notare posto com'era sulla porta d'ingresso.
Rappresentava "La moltiplicazione dei pani e dei pesci": un tema grandioso.
Genialmente concepito dal giovane artista, sebbene interrotto dal vuoto della porta, l'affresco non perdeva nulla della sua grandiosità: il Cristo in atto di dispensare il cibo, i discepoli e tutti gli altri personaggi raffigurati sembravano veri, vivi e palpitanti. Nel tempo venne a sapere che, volendo il pittore lasciare su questo dipinto un'impronta del suo tempo, aveva dato ai vari personaggi le proprie sembianze, quelle dei suoi familiari e di alcuni amici campobassani.
Leo, tentando di immaginare l'ispirazione dell'artista, non era più spettatore ma attore. Era il mistero della luce dell'arte a suscitare in lui quelle sensazioni sospese tra realtà e sogno, tra verità e immaginazione.
Fu un acuto dolore al collo a farlo tornare alla realtà. Uscì dalla chiesa stordito e con una certezza: avrebbe incontrato Trivisonno e lo avrebbe avuto come masetro.
Intanto i giorni passavano ed egli, per non essere di peso al fratello che l'ospitava, lavorava con lui e però sempre pensando ed aspettando il momento opportuno per farsi conoscere dal Trivisonno.
Un giorno, da voci circolanti nella città, venne a sapere che le autorità ecclesiastiche, soddisfatte dei lavori eseguiti dal Trivisonno nella Cattedrale, avevano deciso di affidare a lui il compito di completarne la veste pittorica, anche perché erano rimasti colpiti dal suo grande amore per l'arte ispirata a motivi religiosi.
La parete da affrescare questa volta sarebbe stata quella della cappella del Rosario.
Vennero montate le impalcature, sistemati i diffusori di luci ed il pittore, aiutato dal muratore che gli avrebbe preparato l'arriccio e l'intonaco, dette inizio al lavoro.
Il giovane Paglione, che da giorni aspettava impaziente, entrato con i fedeli nella Cattedrale, giunto vicino all'impalcatura, furtivamente si infilò otto le tavole e, attraverso qualche spiraglio, cominciò a sbirciare l'artista intento al lavoro. Finché rimase immobile, la sua presenza non venne notata, ma spostandosi per vedere meglio, provocò un rumore che richiamò l'attenzione del pittore, il quale, avvedendosi della sua presenza, gli intimò ruvidamente di allontanarsi. Leo scappò via impaurito, deluso, sconfitto... ma non vinto! Tanto che il giorno dopo tornò ancora e così fece nei giorni successivi prendendosi tranquillamente sgridate e mugugni, finché il pittore, visto che il ragazzo guardava e osservava in assoluto silenzio, ne accettò la presenza. Era il primo passo, la prima conquista.
E infatti, qualche giorno dopo, mentre attraversava la "Villetta Flora" si trovò quasi di fronte il Maestro fermo davanti al negozio di colori del padre, in atteggiamento di persona grave e pensosa. Qualcosa gli disse che quello era il momento buono per affrontarlo, sicché corse a chiamare il fratello per farsi accompagnare e presentare, finalmente, la sua richiesta al Maestro.
Parlò il maggiore e, purtroppo, ottenne un rifiuto: il pittore non poteva permettersi di assumere un ragazzo nel suo studio perché non aveva da corrispondergli una mercede... Era la fine di un sogno.
Leo si stava allontanando lentamente quasi in lacrime, quando si sentì chiamare: il buon Trivisonno aveva colto la profonda delusione del ragazzo, e, volendolo rincuorare e non trovando parole adeguate, lo invitò a visitare il suo studio.
Michele Praitano
Fonte: M. Venturoli e M. Praitano, G. Leo Paglione, Palladino, Campobasso 1999.