Sovente di fronte al nome stravagante di paesi o di città mi sono chiesto quale fantastico lampo abbia illuminato colui che li ha battezzati con quel nome a volte bizzarro: Belsedere (SI), Femminamorta (PT), Altolà (MO), Strangolagalli (FR), Golasecca (VA), Capracotta (IS) ne sono un esempio.
Seduto a ridosso della chiesa parrocchiale, su una panchina di pietra corrosa dai secoli, non so quale "Madeleine de Proust" abbia richiamato alla memoria quel problema di toponomastica.
Ricordai i miei dieci anni quando, a parte il dialetto del mio paese (dal bizzarro nome di lisurencu), come lingua conoscevo solo il francese.
I miei allora risiedevano in Francia, ad Antibes, dove, per necessità di lavoro, gestivano un negozio di alimentari. Ho imparato il francese giocando in Rue du Revely, e forse non avrei mai parlato in italiano se, nel maggio del 1940, Mussolini e Hitler non avessero dichiarato guerra alla Francia, e i francesi avevano costretto gli italiani ad abbandonare la Costa Azzurra e a ritornare in Italia.
Dovetti abbandonare gli amici dell'école primaire, per cominciare ad imparare l'italiano. In Francia frequentavo la seconda classe delle elementari. Giunto in Italia mi retrocessero in prima elementare.
Fu durante il mio secondo anno di scuola che la maestra Devotina ci raccontò una storia locale legata a varie località della Valle Nervia. Una storia che non ho mai dimenticata perché raccontava l'avventura di un personaggio leggendario che già avevo conosciuto sui banchi di scuola francesi. Si trattava di Rinaldo, del suo cavallo Baiardo e della sua spada chiamata Fusberta.
La maestra Devotina era una esperta affabulatrice, capace di cattivarsi l'attenzione del suo uditorio sempre pronto ad ascoltar fiabe e leggende locali o di altri paesi confinanti.
Non faceva mai preamboli inutili: entrava subito nell'argomento.
Il paladino Rinaldo - ci raccontò - dopo una lunga battaglia contro i Saraceni, si era lasciato alle spalle la riva del mare e, in groppa al suo cavallo Baiardo, aveva deciso di risalire le scoscese pendici della costa ligure seguendo i sentieri che i contadini avevano tracciato.
Si sentiva stanco e ammalato. Nella difficile ascesa non si era neppure accorto che la nebbia notturna si era trasformata in pioggia sottile che penetrava attraverso i suoi vestiti e gli gelava il corpo. E neppure si era accorto di essere arrivato vicino ad un gruppo di casupole di legno abitate da boscaioli che lo accolsero e lo ospitarono. Il paladino rimase in un dormiveglia per alcuni giorni, durante i quali fu curato dalle mogli dei boscaioli finché i sintomi della malattia cessarono e la febbre che lo divorava si attenuò e si spense.
– Dove mi trovo? – chiese non appena poté par lare.
– Tra buona gente, cavaliere. Siamo boscaioli e viviamo con i prodotti della terra.
Rinaldo rimase con loro per alcuni giorni, finché non decise di riprendere il viaggio. Ma prima di partire, guardandosi attorno e constatato che il gruppo di casupole era costruito in cima di un poggio, volle battezzare quel luogo col suo nome e lo chiamò Pogium Rinaldi (Poggio di Rinaldo, oggi Perinaldo).
Anche il suo cavallo era affaticato e le ferite riportate nell'ultima battaglia non si erano mai rimarginate. Procedevano così l'uno a fianco dell'altro in silenzio e con fatica.
In cima ad un alto monte dovettero fermarsi in prossimità di alcune casupole abitate da boscaioli i quali diedero loro ospitalità per alcuni giorni. Il tempo di rimettersi dalle fatiche e di lasciare che le ferite si rimarginassero. Purtroppo solo Rinaldo poté riprendersi. Il suo fedele cavallo Baiardo, l'infaticabile e insostituibile amico di molte avventure, non sopportò quell'aria rarefatta, non riuscì più a sostenere i dolori che lo affliggevano e un mattino fu trovato morto su uno strame di fieno. Forse fu quella l'unica volta in cui Rinaldo si accorse di saper piangere.
Sepolto il cavallo con tutti gli onori, abbandonò quei boscaioli che lo avevano accolto ma prima battezzò il luogo dove era stato sepolto il cavallo, chiamandolo col suo nome.
Baiardo.
Salutata quella buona gente che lo aveva accolto e curato, raggiunse le pendici del colle e attraversò un ruscello in cui scorreva poca acqua.
La giornata era splendida e il sole brillava alto nel cielo. Alzando il capo verso la sommità di una collina a forma di piramide notò alcune volute di fumo che si innalzavano. Segnale che là si trovava qualche casolare di contadini o pastori o boscaioli. Decise di far loro visita e risalì le pendici del monte pensando alle ragioni che avevano spinto quegli abitanti a scegliersi come dimora il cucuzzolo della collina. Probabilmente erano fuggiti dalla costa dove i Saraceni continuavano le loro ruberie, uccidevano gli uomini e rapivano donne e bambini per venderli come schiavi sui mercati orientali. Tra quei monti la gente doveva sentirsi al sicuro.
Quando raggiunse la sommità fu accolto da un gruppo di bambini, da donne curiose e da uomini inizialmente sospettosi.
– Vengo in pace, buona gente. Non abbiate timore di me. Come si chiama questa località?
Nessuno rispose.
Rinaldo si guardò attorno. Il sole inondava gli alberi e le foreste circostanti. Un luogo idilliaco, pensò, e abbagliato dal caldo sole, esclamò:
–Oh, apricum collis!
Senza volerlo, il paladino aveva inconsciamente suggerito agli abitanti che lo ascoltavano il nome che forse cercavano per dare una identità al luogo che avevano eletto per viverci. E da quel giorno la località prese il nome di Apricale (cioè: colle soleggiato).
Chiese agli uomini da quanto tempo vivevano in cima al colle e quelli risposero che solo da un anno ne avevano preso possesso. Inizialmente erano pescatori, ma erano fuggiti dalla costa perché le scorrerie degli sciabecchi saraceni erano troppo frequenti e nel pericolo che poteva manifestarsi da un momento all'altro non si poteva vivere tranquilli a lungo.
Avevano saputo che a monte delle rive del Nervia altri fuggiaschi avevano trovato rifugio e si erano rifatti una nuova vita cambiando le loro abitudini da pescatori in pastori, contadini, taglialegna.
Uno di loro gli disse che più a valle, alla confluenza del rio che scorreva ai piedi della collina, in una zona chiamata Lagaccio, già esisteva un folto gruppo di ex pescatori che si erano sistemati sulla sponda destra, vicino ad un ponte romano.
Curioso per natura, Rinaldo, quando lasciò il "colle aprico", dopo che gli abitanti ebbero con lui spartito il modesto pasto fatto di carne arrostita sulla brace e di frutta di bosco, si diresse verso Lagaccio. La distanza non era molta e presto si trovò alla confluenza del rio con il torrente Nervia.
Su uno sperone roccioso, in prossimità di un ponte a schiena d'asino, sorgevano alcune casupole intorno alle quali uomini e donne si avvicendavano nei lavori domestici. Sotto il ponte sorgeva un ampio lago dalle acque scure e profonde dove alcuni ragazzetti stavano pescando con la canna.
Dopo il primo istante di diffidenza nel vedere lo sconosciuto con la corazza lucente addosso e la spada al fianco, Rinaldo fu accolto festevolmente, specie dai bambini eccitati per la novità di quell'incontro e per le straordinarie avventure che quell'uomo poteva loro raccontare. E si rallegrarono quando seppero che il giovane guerriero sarebbe rimasto in loro compagnia per alcuni giorni. Passò una settimana durante la quale Rinaldo ebbe agio di conoscere e apprezzare l'indole di quel gruppo affiatato, composto di gente salda, robusta, fidabile, tanto che una sera, attorno al fuoco chiese loro:
– Perché avete battezzato questa terra col nome di Lagaccio? Ben poco si addice alla serenità del luogo.
– Vede, cavaliere, noi eravamo abituati all'immensa distesa del mare, quasi sempre azzurro, sporco e scuro solo nei giorni di tempesta, ma subito pronto a riprendere il primitivo colore. Qui ci siamo trovati di fronte a questo minuscolo lago, assai profondo e dalle acque sempre cupe, un lagaccio, insomma. Ecco il perché del nome.
– No, – rispose Rinaldo – è un nome che non si addice a questa località. No, non mi convince e poi dà al paese che state costruendo un nome assai sgradevole. Questa per voi è un'isola di pace, dove regna l'amicizia, la solidarietà e la bontà. Io l'avrei battezzata Insula Bona.
E da quel giorno, secondo la volontà di Rinaldo, l'agglomerato di case, la maggior parte in pietra, prese il nome di Isolabona.
Quella breve vacanza di Rinaldo e quei giorni di riposo finirono bruscamente. Terminarono il giorno in cui un boscaiolo proveniente dal mare diffuse la notizia che i Saraceni dopo aver messo a ferro e a fuoco la costa, si stavano dirigendo verso l'interno, razziando, uccidendo e portando via donne e bambini. Lui era riuscito a fuggire e ora voleva avvertire gli abitanti della valle affinché si preparassero alla difesa.
Senza porre indugi, Rinaldo indossò l'armatura di ferro, il cimiero piumato e messa al fianco Fusberta, la fida spada d'acciaio di Toledo, accompagnato da due giovani aitanti, armati di forca e bastone, si diresse a grandi passi verso il mare, ridiscendendo il greto del fiume.
Giunto a poca distanza da un ponte romano a schiena d’asino, simile a quello che aveva visto a Isolabona, udì grida di terrore, frammiste a urla sguaiate di soldati. Avvicinatosi maggiormente si trovò all'improvviso di fronte ad uno sparuto gruppo di uomini armati di falci, bastoni, forche di legno che lottavano per difendere donne e bambini che stavano alle loro spalle. Ma poco potevano quelle armi rudimentali contro le scimitarre e i pugnali.
Tratta dalla guaina la spada, Rinaldo si gettò nella mischia e roteando Fusberta cominciò a menar fendenti. Una battaglia lunga che terminò con il ritiro dei saraceni verso il mare.
Rinaldo, coperto di sangue, fu accompagnato poco distante dal ponte, là dove da una profonda fenditura di una roccia sgorgava uno zampillo d'acqua. L'acqua aveva formato una minuscola pozza dove quotidianamente si abbeveravano gli animali. Il paladino vi si immerse e provò un tale sollievo che gli fece esclamare:
– Ti ringrazio, Signore, per quest'acqua fresca, cristallina, pura capace di far rinascere uomini, animali e cose. – E, bevendo direttamente dalla fonte, aggiunse, – e ancor più ti rendo grazie per la dolcezza con cui essa lenisce le mie ferite e calma la mia gola arsa dalla fatica della lunga battaglia. Grazie, mio Dio, per questa dolce acqua.
E da quel giorno la località dove avvenne la battaglia venne battezzata col nome di Dolceacqua.
Bastarono pochi giorni di riposo prima che Rinaldo potesse riprendere il cammino verso il mare, la meta che si era prefisso. Il cammino che gli rimaneva da compiere per raggiungere la costa era breve. Quando si incamminò il cielo era sereno, terso, solcato da alti cirri. Voli di uccelli e di gabbiani si intrecciavano sopra la sua testa. Una brezza leggera, odorosa di salsedine soffiava dal mare. Ogni tanto si fermava per dar sollievo alle ferite non ancora rimarginate. Dopo aver superato un'ansa del fiume si trovò di fronte ad una ampia distesa pianeggiante tutta ricoperta da piante dai fior i rosso fuoco, una interminabile distesa di oleandri sotto i quali pascolavano pecore e capre. In lontananza brillava il mare che lameggiava sotto i raggi del sole.
– Come si chiama questa località? – chiese il paladino ad un pastorello che con un vincastro in mano teneva a bada una cinquantina di pecore e capre, mentre un cane gli saltellava attorno abbaiando festosamente.
– E me lo chiede, mio signore? – rispose il pastorello, facendo con la mano un ampio gesto. – Basta che si guardi attorno e la terra le risponderà.
Rinaldo sorrise, guardò quella distesa di oleandri rossi e trovò subito la risposta: Camporosso.
La riva del mare era ormai vicina e, seguendo lo sciabordìo delle onde che si frangevano sulla sabbia, raggiunse l'arenile dove ebbe una gradita sorpresa.
A poca distanza dalla riva due galeoni che inalberavano una bandiera con la croce di San Giorgio, stavano vicino ad uno sciabecco saraceno che stava affondando.
Qualcuno lo riconobbe e una scialuppa, calata subito a mare, lo raggiunse per portarlo verso nuove avventure.
Prima di salire a bordo, Rinaldo si voltò indietro ed ebbe solo un rimpianto, quello di non poter avere al suo fianco il fedele cavallo Baiardo.
Quel giorno aveva percorso circa venti miglia per raggiungere quella che, nella sua memoria si impresse con un solo nome: viginti milia: Ventimiglia.
Marino Cassini
Fonte: M. Cassini, Ricordi di un bibliotecario tra fiabe e enigmi, vol. I, Albisola Superiore 2020.