Il libro dei ricordi è intessuto con preziosa filigrana di pensierie di volti: la speciale tessitura ne ordisce la trama, ora fitta ora diradata, sino a comporre un'opera d'arte di inusitato pregio. Sono pagine di vita senza un accenno di logorio, mai intaccate dal colore sbiadito e giallognolo del passato, sempre pronte ad essere sfogliate e rinverdite... ricordi ed emozioni affiorano nella mente come piccoli fiori natanti dai vari colori ed i volti lasciano ancora trasparire intatte le infinite sfumature e la nostalgia di momenti perduti. Il ritmo del tempo scandisce l'esistenza e confina quei pensieri e quei volti nel cassetto intimo e creativo della memoria, che intatto racchiude il senso (emozione) ed il significato (ragione) del vivere. Il ricordo si confeziona da sé e, come pittore di inesauribile vena, attinge le tinte dalla "tavolozza" della vita, ricolma delle infinite sfumature dell'iride. Pensieri questi che nascono nell'interiorità di una celebrazione e da qui... l'avvio per narrare con le parole semplici e con lo sguardo rivolto al passato e ai suoi ricordi. Modernizzata nei toni ed in alcuni dettagli, quanto basta per avvicinarla a noi, questa storia è di tanto significato perché l'anziano narratore con il suo racconto, lungo quanto lo spazio di un'omelia, ha saputo affascinare e tenere con il fiato sospeso anche i molti piccoli uditori, che della guerra mai hanno sentito parlare. La voce narrante colma di emozione non ha mai impoverito la sostanza e il contenuto del racconto, parabola esistenziale piena di speranza, non meno di dolore... Don Costantino Carnevale, sacerdote salesiano, nato a Capracotta il 5 aprile 1913, ha celebrato, nel mese di agosto 2013, insieme alla sua famiglia ed alla intera comunità, una messa in ricordo dei suoi primi cento anni. Zio Costantino, così è per noi pronipoti, parla lentamente nello spazio riservato all'omelia, quasi a voler tenere lontana la commozione, e ricorda i tempi della gioventù, la decisione di diventare sacerdote salesiano ed il momento in cui il padre seppe di tale scelta. Nonno Primiano, appresa la determinazione del figlio di diventare prete (seguirono poi altri tre figli e tutti salesiani), disse:
– Figlio mio, se è questo che può farti felice segui pure la tua strada ma mi raccomando a te... non farmi fare brutta figura.
Nel 1943, zio Costantino ricevette l'atto di precetto dal Ministero della Guerra e fu inviato a Bari come cappellano militare nell'attesa di partire per il Montenegro. Gli eventi, si sa, specie in tempi di guerra sono mutevoli e l'armistizio di Cassibile del 1943 impose altro corso, altra via e diversa destinazione: fronte di Cassino, linea del Volturno, zona Mignano Montelungo. Don Costantino, cappellano militare con i gradi di Tenente, insieme al primo Raggruppamento Motorizzato, venne aggregato alla Quinta Armata Americana ed inserito nel 51° Nucleo di Sanità Motorizzato. Ha inizio così la dolorosa e nota vicenda bellica del Monte Lungo. La sera del 7 dicembre del 1943, i soldati, in autocolonna, raggiunsero il bivio di Presenzano e di qui proseguirono a piedi per le basi di partenza. Il mattino successivo, il campo di battaglia era oscurato da una fitta nebbia tanto che fanti e bersaglieri superarono le prime difese nemiche e puntarono diretti sulla quota principale del Monte Lungo. L'operazione bellica si rivelò cruenta, a causa della forte resistenza tedesca, e prevedevala caduta del Sammucro, di San Pietro Infine e del Monte Lungo. Dopo giorni di battaglie, alle ore 9:15 del 16 dicembre del 1943 fanti e bersaglieri italiani ripartirono all'attacco del Monte Lungo e, alle ore 12:30, il nemico fu costretto a ripiegare. Le bandiere italiana ed americana sventolarono sulla vetta. Questa la ricostruzione storica degli eventi ma per il tenente don Costantino Carnevale l'emblema di quei momenti cruenti e dolorosi fu il volto del giovane soldato Filippo, morto nelle lunghe ed estenuanti battaglie nella zona del Monte Lungo. Qui la voce diviene flebile e la commozione - non certo debolezza - incarna tuttora la ferma dignità al ricordo di quel dolore, vissuto sì ma ancora inspiegabile:
– Il Comandante mi disse che un mio paesano aveva perso la vita. Si trattava di un giovane avvolto da un cappotto. Era di Capracotta, era un Sammarone ed io dovevo impartire la benedizione. Le emozioni e la voce - come lo sguardo - nascono dall'anima e le parole, a mala pena, riescono a musicare l'intensità di emozioni speciali e la ricchezza di uno sguardo che illumina un volto segnato dagli anni.
L'empatia del linguaggio e la narrazione hanno però la forza, unica, di ricreare il valore morale e simbolico del vissuto e la narrazione diviene persino memoria e simbolo di uno stato d'animo: il dolore per la morte di Filippo, la lontananza dal proprio paese, il profondo sconforto di constatare che nessuno fu graziato dalla sciagura della guerra, nemmeno i cari ed amati "paesani", ai quali si sarebbe voluta risparmiare questa disperazione. Ma proseguiamo nel racconto... I tedeschi sconfitti ripiegarono lungo la linea Gustav ed agli alleati spettò il difficile compito di inseguire le truppe tedesche che marciavano in ritirata; così anche il cappellano militare don Costantino si trovò a risalire la Penisola - sul fronte Adriatico - con l'esercito italiano e l'Ottava Armata Inglese, la quale agiva in cooperazione con le truppe polacche. I combattimenti si spostarono nelle Marche, subito dopo il fiume Musone, ove don Costantino fu colto da un terribile attacco di peritonite e fu ricoverato con urgenza all'ospedale di Jesi dove corse rischio per la vita. Se lo stollo è solido il sostegno è assicurato ed il pagliaio resta al suo posto. Mi venga concessa, cari lettori, questa fantasiosa digressione dal tono agreste perché la vita somiglia ad un bel pagliaio, in apparenza così fragile e scomposto, incrollabile se il sostegno centrale è ben fermo. Così come stollo incrollabile, zio Costantino tornò a Capracotta per la convalescenza. E qui... dopo i drammatici momenti della distruzione, dello sfollamento verso Agnone e della ricostruzione del paese, quasi interamente raso al suolo dalla furia bellica, la scena mutevole si aprì ad insolite e divertenti storie di vita del periodo post-bellico. I bambini si divertivano con giochi molto pericolosi, estraendo dai proiettili la balistite, composto di nitrocellulosa e di nitroglicerina, che assumeva la forma di un lungo spaghetto. I piccoli monelli erano accorti a non farsi sorprendere dalle loro mamme e riponevano con cura questi pericolosi giocattoli in un casotto sotto le macerie, ben attenti a non renderlo visibile agli occhi indiscreti degli adulti. In quel periodo, quale antidoto alla tristezza e agli orrori della guerra, nel piccolo paese di montagna la "vita" si aprì persino all'operetta, una forma di teatro musicale che si sviluppò nella seconda metà dell'Ottocento e che trovò grande fortuna negli anni Trenta. L'operetta si proponeva di divertire spensieratamente e presentava storie comiche e satiriche che prendevano di mira la buona società ed i costumi della gente di città per esaltare la vita semplice dei paesani e dei montanari. E con la fantasia odo ancora la voce poderosa del banditore annunciare per le vie del paese, tutto di un fiato:
– Signori e Signore, al bando la mestizia! Venite, venite! Accorrete numerosi perché a Capracotta i tristi pensieri fuggon via con l'operetta, direttore artistico e suonatore don Costantino, primi attori e protagonisti canori gli uomini del paese; è gradita la partecipazione di tutti gli abitanti, uomini e donne, e soprattutto bambini. Sin qui la dolorosa tristezza degli eventi ma, a seguire, la rappresentazione teatrale divenne ragione di speranza e persino di umorismo. Quei pochi lettori si chiederanno: "Come mai l'operetta in un paese di montagna e subito dopo la guerra?". Ebbene si, nell'inverno dell'anno 1944-1945, don Costantino, abile suonatore di pianoforte, specialista nella esecuzione delle messe solenni Pontificalis e Te Deum, pensò bene di allestire la compagnia teatrale per l'operetta buffa, anzi comicissima, in due atti di Marcello Cagnacci, dal titolo "Una gara in montagna". Si trattava di un poemetto musicale, di fine Ottocento, con temi orecchiabili e scritti in chiave di violino, allegro ma molto, molto, molto allegro. Don Costantino al pianoforte, il coro di soli uomini addestrato a non stonare tanto che la selezione fu accuratissima e non si cedettea nessuna pressione; si narra persino di mamme catturate dall'arte tutta italica della raccomandazione (a voler utilizzare un termine moderno, della "segnalazione") per far sì che i figlioli ottenessero la parte dell'attore protagonista... questo comportò qualche piccola chiacchiera per il paese e qualche comprensibile malumore per coloro che non furono selezionati causa insopportabili stonii! La colonna sonora della vita passò dunque dalle note tristi e dolorose della guerra alle note allegre e orecchiabili della rappresentazione musicale; certo questo non bastò a fugare gli orrori della guerra ma qualche risata energica fu preziosa per gli abitanti di Capracotta ancora intenti a "combattere" con la ricostruzione delle proprie abitazioni. Ed ecco che si alzò il sipario, mostrando le quinte ed il boccascena del teatro della scuola di paese dove la divertente commedia musicale "Una gara in montagna" metteva alla berlina la prosopopea e la spavalderia dei "cittadini" rispetto alla bonaria semplicità della gente di montagna.
Grazie ai divertenti ricordi ancora impressi nella memoria di zio Primiano, allora bambino, riesco a ricostruire persino la scena di apertura con il coro dei camerieri, che canta a gran voce:
– Belle cime coperte di abeti, verdi prati coperti di fieno.
La trama narrava di una gara tra due protagonisti per la scalata del Picco Disgrazia.
Il Monte Disgrazia (3.678 metri), detto anche Picco Glorioso, è una grande montagna tra la Valmalenco e la Valmasino, sito nelle Alpi Valtellinesi, e, per la cronaca, è stato scalato per la prima volta il 23 agosto del 1862 dai britannici Edward Shirley Kennedy e Leslie Steven (papà di Virginia Woolf) insieme al loro cameriere Thomas Cox ed alla guardia svizzera Melchior Anderegg. Non so dire se Cagnacci, nello scrivere l'operetta, fosse stato inspirato proprio da tale evento; certo è che la gente di montagna (poco importa se Alto Molise o Valtellina) conoscebene la fatica ed il valore di una scalata.
Ma torniamo all'operetta; il primo protagonista Epaminonda Tor-Soloni, tipo insolente e presuntoso, era impegnato, assieme all'altro co-protagonista, nella scalata del famoso Picco Disgrazia. Lo scalatore vittorioso avrebbe dovuto sparare un razzo dalla meta: i razzi erano di colore rosso e verde.
Tra mille peripezie, risate, canti e suoni, la scena si concluse con i due protagonisti, arrivati vittoriosi entrambi sul Picco Disgrazia: ed ecco il finale pirotecnico, i razzi rosso e verde si intrecciarono in segno di vittoria sul malumore e sulla desolazione bellica.
Applausi a scena aperta ai cantori ed al suonatore e fu così che il sipario calò su quegli anni di vita ma non riuscì a coprire i ricordi.
Come nelle vecchie storie dei nonni, la morale è rinfrancante.
La vita, quale mirabile opera d'arte, estrae forma e colore dai pensieri, dalle emozioni e dai gesti; nei ricordi di un anziano porta con sé inesauribile carica di vitalità... lo splendore dell'alba che apre il passo al giorno; lo spazio del giorno dove gli attimi, i piccoli o grandi eventi, le fredde "stoccate" entrano in misteriosa ed insondabile composizione; infine, la bellezza del tramonto dove i colori, solo in apparenza, sono sbiaditi e malconci ché, a ben mirare oltre, si intravede lo squarcio infinito della prospettiva futura.
Il libro dei ricordi vale più di molti libri: insegna a vivere, ad amare e perché no... anche a sorridere.
Luisa De Renzis
Fonte: L. De Renzis, Il libro dei ricordi, in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. IV, Proforma, Isernia 2013.