Negli anni '70 frequentavo la scuola media in un ex convento della mia città e per raggiungerla, ogni giorno, percorrevo via Giuseppe Andrea Angeloni. In un luogo dove, in materia di toponomastica, Ovidio e Capograssi, a giusto titolo, la fanno da padrone, mi intrigava molto scoprire chi fosse quell'illustre sconosciuto. Avrei voluto fare delle ricerche nella biblioteca comunale, in un'epoca in cui internet non esisteva, ma il mio proposito veniva sistematicamente disatteso, avevo sempre mille altre cose, tipiche dell'adolescenza, di cui occuparmi. L'appuntamento era solo differito, quando infatti iniziai la mia vita da pendolare per motivi di lavoro e sul treno frequentavo, fra gli altri, un gruppo di ferrovieri che si infervoravano in discorsi legati alla loro professione, come tempi di percorrenza su rotaia non competitivi rispetto a quelli su gomma, antieconomicità e conseguente taglio dei cosiddetti rami secchi, mi appassionai alle vicende della linea ferroviaria Sulmona-Carpinone-Isernia ed ebbi modo di dare finalmente una risposta al quesito adolescenziale.
Il deputato del Regno d'Italia, Barone Angeloni da Roccaraso, fu promotore e tenace sostenitore della realizzazione di quella tratta ferroviaria, caratterizzata da stupendi paesaggi, stazioni sciistiche, panorami suggestivi, che garantì il progresso sociale ed economico dell'Abruzzo e del Molise, favorendo altresì lo sviluppo turistico. Considerata tra le più spettacolari ed ardite dell'intera rete ferroviaria tanto da essere soprannominata la Transiberana d'Italia, vanta numerose gallerie e viadotti sospesi a mezz'aria ed affronta un dislivello dai 400 ai 1.268 metri della stazione Rivisondoli-Pescocostanzo che è seconda solo a quella del Brennero. Venne completata ed aperta all'esercizio il 18 settembre 1897, peccato davvero che il giorno dell'inaugurazione non fu presente proprio colui che era stato il principale artefice, l'onorevole Angeloni era mancato nel 1891, ma i suoi meriti vennero unanimemente riconosciuti.
L'interesse che avevano suscitato in me quelle discussioni non era casuale, una delle ventidue stazioni, per storia familiare, è uno dei luoghi del cuore: la stazione San Pietro Avellana-Capracotta, che fu realizzata in prossimità della tenuta Montedimezzo-Feudozzo - ora di proprietà del demanio, che appartenne ai Borboni e fu riserva di caccia assai frequentata; da Napoli, i reali vi si recavano, quasi sempre a cavallo, faticosamente, per dedicarsi alla proficua caccia della numerosa selvaggina - è indissolubilmente legata alla mia famiglia materna ed al ricordo della mia prozia, mamma Linda, titolare dell'albergo trattoria "La Valle" che là visse nello scorso secolo, quando la ferrovia era nel pieno della sua attività.
Si tratta di un personaggio controverso che, nel bene e nel male, ha lasciato un segno indelebile e, sebbene siano trascorsi quasi quaranta anni dalla sua scomparsa, viene nominata e celebrata da parenti e conoscenti per la sua forte personalità ed i suoi modi di dire che sono ormai di uso comune nel lessico familiare. Era nata a Capracotta, due anni prima dell'inaugurazione della ferrovia, da Pietro, uomo severo ed autoritario e da Eleonora che, ahimé, morì troppo presto lasciando il marito nella più cupa disperazione con cinque figli in tenera età. Fortunatamente Giacinta, sorella di Eleonora, si occupò con dedizione, bontà e generosità dei bambini, nonostante i suoi impegni familiari e le condizioni di vita non fossero delle più rosee. In quell'epoca, erano i primi del '900, se non si apparteneva ad una famiglia agiata, per i ragazzi, poco più che bambini, si aprivano le porte del mondo del lavoro. I maschi seguivano le orme dei padri nei rispettivi mestieri e le femmine venivano destinate alle faccende domestiche nelle proprie case, ma anche a servizio presso quelle delle famiglie bene. Questa fu la sorte dei figli di Pietro, divennero tutti dei grandissimi lavoratori, nulla li spaventava, erano avvezzi anche alle fatiche più improbe.
Spesso in casa ci si interroga sul loro temperamento così ruvido, nonostante l'amore grandissimo di Eleonora prima e successivamente di mamma Giacinta, il rigore di Pietro aveva avuto il sopravvento confermando il proverbio secondo il quale il lupo fa i lupetti. Intanto mamma Linda andò sposa a quel sant'uomo di Giulio Ianiro, era lui che usava chiamarla, con tanta tenerezza, Lindarella. Per tutta risposta lei sosteneva, quasi con risentimento, che le migliori attenzioni erano riservate alla cavalla Stellina piuttosto che alla moglie. Già, perché papà Giulio era munito di mezzo di trasporto, bene preziosissimo ai tempi e utile per i trasferimenti ma soprattutto per il suo lavoro, che gli consentiva di inerpicarsi in montagna, caricare la legna e discenderla a valle.
Grazie al gran movimento generato dalla ferrovia, negli anni '30 ci fu la grande svolta, lasciarono Capracotta per stabilirsi nei pressi dello scalo e, dando corpo a un'idea di Maria, sorella minore di mamma Linda, iniziarono l'avventura dell'albergo-ristorante-emporio, sfidando lo scetticismo che serpeggiava fra familiari e conoscenti. Si trattava di un agriturismo ante litteram con tanto di orticello e piccolo allevamento di animali, i prodotti venivano utilizzati per l'attività e ciò che non riuscivano a produrre veniva acquistato. Famose sono le epiche trattative di mamma Linda, volte ad ottenere la migliore qualità al prezzo più basso, con i fornitori che puntualmente soccombevano alle sue condizioni, non smentendo chi la definiva la sorella del generale Custer.
Rosetta, una delle nipoti, che da oltre cinquanta anni vive a Roma, racconta che la prima volta che fece visita alla storica gastronomia capitolina Volpetti, l'odore che aleggiava nel locale la fece immediatamente immergere nel mare dei ricordi della sua infanzia. Si trattava della medesima fragranza che avvolgeva l'avventore nell'emporio della zia allo scalo, il paese dei balocchi nel suo immaginario di bambina. Rivedeva il mobile con i cassettoni dai riquadri in vetro, attraverso i quali si scorgevano i vari tipi di pasta, all'epoca si vendeva sfusa, non esistevano le confezioni di oggi, si avvolgeva la carta paglia di colore giallo a forma di cono e si riempiva del quantitativo e formato desiderato. Le mortadelle, i migliori prosciutti, le soppressate, i caciocavalli e i burrini erano in bella mostra appesi ai ganci, sul bancone c'erano grandi contenitori in vetro pieni di asparagi, lampascioni, funghi e carciofini sottolio e il mitico barattolo di latta, in stile Liberty, con ritratta l'elegantissima dama in rosso dai capelli raccolti, che serviva una bibita con il citrato effervescente Galeffi da Montevarchi. Non mancava la scatola preferita quella delle caramelle al latte di cui era golosissima: un giorno ne mangiò ben trentasei! Fortuna che la zia era impegnata nelle sue molteplici faccende, altrimenti chissà che pandemonio avrebbe scatenato se l'avesse vista perpetrare il misfatto.
L'attività di mamma Linda era articolata e mirata a soddisfare la clientela, dalla cucina, il suo regno, riusciva ad organizzare il lavoro reclutando i familiari, che il più delle volte, loro malgrado, soggiacevano alle sue richieste. Quando ciò non accadeva, il malcapitato veniva apostrofato come scansafatiche! Così come, se qualcuno non si comportava correttamente in più di un'occasione, manifestava il suo disappunto sostenendo con autorità: «Se cumbà/cummàre... nen ze magna n'àneme a re juórne, la sera s'ara fà la camomìlle sennó la notte nen pò durmì».
Per pubblicizzare la sua attività negli anni '50, aveva precettato il fotografo de Casctiéglie per realizzare una cartolina in bianco e nero, che ritraeva l'albergo trattoria "La Valle" immerso in paesaggio bucolico, con gregge di pecore in primo piano, stile intervallo del canale nazionale Rai dei tempi andati. Ma le sue indiscusse abilità gastronomiche avevano già varcato i confini della regione, suo cognato a Roma, alla Stazione Termini, non si stupì più di tanto, quando udì un distinto signore consigliare vivamente alla persona che stava accompagnando, di far visita alla trattoria di mamma Linda. La cucina, di estrazione tipicamente capracottese, risentiva di un'influenza pugliese, retaggio degli inverni trascorsi in quella regione, quando il padre si trasferiva a San Nicandro Garganico con tutta la famiglia per poter lavorare da fabbro.
L'ospite pertanto poteva spaziare dalle petressenèlle in brodo alle orecchiette con le cime di rapa, pasta che realizzava a mano con gran perizia. La sua vocazione era quella di accontentare la sua clientela, anche quella dai palati più esigenti, per questo era riuscita ad instaurare rapporti eccellenti con varie personalità. Lo dimostra il fatto che, se si presentava un problema, sapeva sempre a chi rivolgersi ed ogni sua eventuale istanza veniva tempestivamente esaudita. Difficilmente si allontanava dal suo regno, papà Giulio desiderava viaggiare ed avrebbe voluto coinvolgerla, ma quando un nipote propose loro di visitare Assisi, il solo sguardo di mamma Linda fu così eloquente che la proposta cadde nel vuoto.
Con il suo calesse però, papà Giulio raggiungeva, spesso e volentieri i paesi limitrofi, quando andava a Capracotta passava di casa in bottega per salutare tutti, amici e parenti, con i quali adorava intrattenersi facendo quattro chiacchiere. Mamma Linda aveva impostato la sua vita all'insegna del «mandié quanda tiè ca quanda nen tié nen te l'ha chi dà». Era dunque molto accorta nella gestione delle sue risorse, venne meno a questo principio quando si trattò di erigere la sua ultima dimora nel cimitero di Capracotta.
I familiari, la maggior parte dei quali vivevano altrove da tempo, cercarono di dissuaderla proponendole soluzioni alternative, ma proclamando la sua estraneità a qualsiasi altro luogo sulla terra, la fermezza, che da sempre l’aveva caratterizzata, ebbe la meglio. Per la nostra famiglia, la lontananza ha costituito un grandissimo cruccio perché non riusciamo a far visita al cimitero di Capracotta, con la frequenza che vorremmo, per onorare la memoria dei nostri defunti. Mamma Linda aveva accuratamente pianificato l'evento del suo congedo dalla vita terrena, ricordo perfettamente che avvenne una domenica di fine maggio e la sensazione di profondo sconvolgimento che provai. Si trattava di uno dei primi lutti che vivevo e fu, forse, l'origine del mio enigmatico rapporto con la morte, per il quale ancora oggi nella maturità, nonostante il gran lavoro su me stessa, non riesco ad avere un atteggiamento equilibrato: implacabilmente la sfera emotiva ha sempre il sopravvento su quella razionale.
Con la sua scomparsa venne meno quello che, per più di quarant'anni, era stato un punto di riferimento per lo scalo San Pietro Avellana-Capracotta. Con la sospensione del servizio passeggeri poi, fra il 2010 e il 2011, si è compiuto anche il destino della Sulmona-Carpinone-Isernia dopo oltre un secolo di onorata attività. Senza infilarmi nel ginepraio delle polemiche che ha destato questo epilogo, mi auguro che si possa trovare, quanto prima, il modo di rilanciare questa tratta ferroviaria sfruttando, secondo quanto emerge dalle notizie che ho raccolto, le potenzialità di linea turistica non dimenticando le esigenze dei pendolari.
Cercavo di dare una spiegazione al mio interesse per le persone e le cose del passato, penso di averla trovata in un libro di una scrittrice tedesca: portiamo dentro di noi i nostri morti e gli amori infranti. Sono loro che ci rendono quello che siamo. Se cominciamo a dimenticare o a scacciare i nostri cari... allora anche noi scompariremo come loro... L'amore. I defunti. Tutte le persone del nostro tempo. Sono come fiumi che formano il nostro mare, l'anima. Se non ce ne ricorderemo anche il nostro mare si prosciugherà.
«Va', scì bendìtte, la Madonna t'accumpagna che re sette lume de Dìje» era l'augurio che formulava mamma Linda in occasione dei commiati e voglio immaginarla, ancora una volta, sull'uscio di quella che era la sua casa, dispensare questa benedizione.
Alda Belletti
Fonte: A. Belletti, Lindarella, in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. V, Proforma, Isernia 2014.