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La Majella, tra cervi, cazzarielli e panorami lunari


Capracotta dalla Maiella
Tappa Pacentro-Rivisondoli (foto: F. Sabatini).

«A Pacentro abbiamo scoperto una tradizione antichissima e incredibile» spiega Giacomo «si chiama Corsa degli Zingari e vede decine di giovani che corrono scalzi giù da un dirupo in onore della Madonna di Loreto. Quando arrivano in paese, mettono i piedi in una bacinella d'aceto per alleviare il dolore». «Pare che il rito risalga addirittura ai tempi dei Longobardi, e non c'entra nulla con i gitani» gli fa eco Francesco. Pacentro, oltre che per le due belle torri che sovrastano il centro storico, è noto anche per aver dato i natali agli avi di Madonna e di Mike Pompeo, il Segretario di stato americano. «Il paese era legato a Venezia, pensa» spiega Francesco «grazie al commercio della seta».

Nella giornata di pausa c'è stato tempo anche per esplorare i dintorni: dapprima i ragazzi hanno provato la zipline che permette un volo panoramico sulla Valle Peligna, gestita da Majellando; e poi hanno fatto un giro all'eremo di Sant'Onofrio al Morrone, «incredibilmente incastrato nella roccia», dice Giacomo, che custodisce la memoria del frate eremita che qui visse e che divenne papa nel 1294 con il nome di Celestino V e poi santo. In Majella sono numerosi i resti degli eremitaggi risalenti a quel periodo.

Appena si può, lo sappiamo, i ragazzi amano vedere dall'alto i luoghi che attraversano. Non poteva quindi mancare l'ascesa al Monte Amaro, che con i suoi 2.793 metri è la cima più alta della Majella e la seconda degli Appennini, dopo il Corno Grande del Gran Sasso (senza contare gli altri "corni" nei pressi). «Siamo partiti all'alba, incredibile ma vero» ride Martina «il nostro Giova ci ha accompagnato fino a Passo San Leonardo e abbiamo iniziato a salire con il buio». Un percorso non da tutti giorni: davanti a loro avevano 1800 metri di dislivello positivo. «E sono arrivati tutti subito nelle gambe» continua Martina «prima all'interno di un bosco dove risuonavano i bramiti dei cervi, poi lungo un sentiero irto in mezzo a grandi sassi, difficile da percorrere, sembrava di camminare sulla sabbia». Il sole è sorto che i ragazzi erano già in alto, su un primo belvedere. «Da qui è iniziata la Majella vera e propria, o almeno il panorama che avevo in testa della Majella: una successione di grandi panettoni, colline giganti ricoperte di sassi e roccette. Anche la cima del Monte Amaro è strana, nel senso che è difficile percepirla come cima: a differenza del Gran Sasso, vi si giunge dolcemente, senza pendenze o pareti dirupate».

Ad attendere i ragazzi una ventina di camosci d'Abruzzo, la sottospecie di camoscio endemica dell'Appennino: «loro ci guardavano e noi guardavamo loro, per niente spaventati: sembrava di potergli parlare». Poi la discesa, lungo il Vallone della Femmina Morta: «bellissimo, un panorama mai visto prima, quasi lunare. Incredibile come le atmosfere cambino in così breve spazio: avevamo ancora tutti nella testa le rocce del Gran Sasso, e lì sembrava di essere su un pianeta diverso» riflette Martina. Il legame tra le due montagne, tra l'altro, è testimoniato da tante leggende. Prima fra tutte, quella di Maja, madre che arriva in Abruzzo per salvare il figlio e vaga per i boschi lamentandosi - lei è la Majella, di cui ancora risuonano le grida nel vento che soffia sopra le rocce; lui il Gran Sasso, il cui profilo sembra un gigante che dorme. A fine giornata grande soddisfazione e visi bruciati dal sole.

Tempo di tornare sulla retta via. Da Pacentro a Rivisondoli il Sentiero Italia si snoda lungo una tappa lunghissima e densissima, come testimoniano i numeri: 32 km, 2400 metri di dislivello in salita, 1700 metri di dislivello in discesa. «Non avremmo avuto grandi problemi se a metà tappa non si fosse messo a diluviare... la serie di belle giornate delle settimane precedenti sfortunatamente aveva preso fine...» sorride Francesco nel ricordare l'arrivo distrutti e bagnati sotto un nubifragio potente che ha fatto ricordare certe tappe liguri dello scorso anno.

«Eppure, eravamo partiti da Pacentro con il sole» ricorda il cambusiere «insieme a Paolo, signore di Palena, uno dei borghi certificati dal Touring con la Bandiera arancione. Tra i bramiti dei cervi siamo arrivati a Campo di Giove, con il Monte Amaro sullo sfondo; poi al Guado di Coccia, dove una pietra ricorda il Sentiero della Libertà: da qui si riusciva a superare la linea dei tedeschi e ad arrivare fino a Otranto. Abbiamo visto pure passare la Transiberiana d'Italia, la linea ferroviaria turistica che collega Abruzzo e Molise in un suggestivo percorso tra i monti: è la seconda più alta d'Italia, dopo quella del Brennero. E la vista dalla cresta verso il monte Porrara era stupenda: da Palena la vista si estendeva fino a Capracotta, in Molise».

Una volta giunti a Rivisondoli, i ragazzi si sono trasferiti nella vicina Roccaraso, la stazione sciistica più importante dell'Appennino centro-meridionale. «Qui ci aspettava Nunzia, una giovane mamma che ci seguiva da tempo e non vedeva l'ora di ospitarci nel suo hotel La piazzetta... non ti dico che bellezza poter dormire in veri letti e asciugarsi con veri asciugamani! Nunzia ci ha davvero coccolato» racconta Sara. Quando si dice una "calorosa ospitalità"... Tra l'altro Nunzia ha voluto far conoscere ai ragazzi la storia del luogo. E non quella del recente sviluppo turistico, ma quella dei giorni di guerra. «Nella frazione di Pietransieri la guida Jessica ci ha spiegato che cosa successe in questa zona il 21 novembre del 1943, quando le truppe tedesche trucidarono 128 persone inermi per il semplice sospetto che la popolazione civile sostenesse i partigiani». Morirono 60 donne, 34 bambini al di sotto dei 10 anni, e molti anziani: uno degli episodi più cruenti e crudeli della seconda guerra.

Pietransieri si trovava lungo la linea difensiva Gustav, su cui le forze armate tedesche si attestarono dopo lo sbarco alleato a Salerno. «Pensa che Jessica ci raccontava come agli abitanti non fu dato il tempo di evacuare la zona, dopo l'annuncio che chiunque fosse stato trovato in loco sarebbe stato ucciso. Faceva freddo, non era semplice andarsene... eppure la malvagità bellica ebbe il sopravvento».

Per stemperare il momento, Nunzia aveva pensato a un pomeriggio più rilassante, invitando l'amica di famiglia Ines a recarsi presso l'albergo e a insegnare i ragazzi una ricetta locale. «Ines ha 86 anni e un'energia invidiabile» ricorda Sara «con lei ci siamo divertiti a preparare i cazzarielli, gnocchi di acqua e farina che vengono cucinati con un brodo di verza, fagioli e pancetta. Ci voleva proprio un bel piatto caldo, la sera!».

Da una produzione casalinga a una produzione industriale, ma sempre legata alla Majella. Va' Sentiero ha avuto modo di visitare lo stabilimento della pasta De Cecco, fondata nel 1886 a Fara San Martino, alle porte del parco nazionale. «Il rapporto con la montagna è davvero viscerale» racconta Francesco «per produrre la pasta viene utilizzata l'acqua del fiume Verde, che viene estratta da una delle sorgenti che sgorgano dalla Majella: e proprio l'acqua di montagna permette un'eccellente tenuta glutinica». Si dice che il metodo di essiccazione della pasta come lo conosciamo oggi sia nato proprio con la De Cecco: "c'era la Majella che faceva ombra, faceva freddo, dunque bisognava seccare la pasta fatta in casa perché altrimenti andava a male» spiega Francesco. «Non c'è niente da dire: ci troviamo di fronte a un pastificio di montagna, anche se poi ha assunto una dimensione industriale».

Il Verde è un altro di quei fiumi limpidissimi, dove viene voglia di tuffarsi. Nel tempo ha visto tante attività diverse sulle sue sponde: i mulini e le gualchiere, innanzitutto, quando si cardava e tingeva la lana; poi le centrali idroelettriche («in sei chilometri di fiume ci sono sei piccole centrali!»); poi ancora quelle legate all'industria alimentare («c'è anche un altro pastificio, la Del Verde»). Insomma, per la vita di chi abitava a Fara San Martino è sempre stato un elemento fondamentale.

Non si poteva passare da Fara senza visitare le vicine gole. «Insieme a vari rappresentanti del Fai e a una guida del parco ci siamo inoltrati nel canyon, un ambiente davvero spettacolare, aspro, di origine carsica, dove le pareti sono alte fino a 800 metri. È un luogo così impervio che vi crescono alcuni esemplari plurisecolari di pino nero» racconta Andrea. «Siamo arrivati fino alle rovine di San Martino in Valle, un vecchio monastero benedettino che era stato ricoperto da una frana ed è stato reso visitabile in tempi moderni». Una leggenda vuole che le gole fossero state aperte dalle braccia di san Martino, forse un riferimento cristiano a Ercole e alle colonne d'Ercole.


Stefano Brambilla

 

Fonte: https://www.touringclub.it/, 6 ottobre 2020.

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