Capracotta accoglieva la mia esistenza l'11 novembre 1944, un anno dopo la distruzione del paese compiuta dai Tedeschi dopo l'armistizio stipulato a Cassibile presso Siracusa il 3 settembre 1943.
Parte dei cittadini, dopo il tristissimo evento, era stata costretta a lasciare il paese per andare in campi di concentramento lontani, parte era stata ospitata da parenti in Agnone, come era avvenuto per i miei.
Nella primavera del 1944 i capracottesi ritornarono nel luogo natio con tanto spirito di sacrificio, ma animati da grande speranza e, rimboccandosi le maniche, avviarono la rinascita del paese.
I miei avevano ricostruito il primo piano della casa quando questa fu allietata dalla mia nascita l'11 novembre 1944 che, pur tra le macerie, era un segno di vita e speranza nel futuro.
La farmacia che, a mala pena, vendeva medicinali essenziali, non aveva latte in polvere per neonati, così i miei mi cercarono una balia; era una signora che aveva partorito una bimba e abitava vicino casa della mia nonna materna nel quartiere S. Antonio uno dei due in cui il paese è diviso e io ero in quello di S. Giovanni.
La mattina mia madre mi metteva in uno zaino e papà, dopo avermi avvolta nel suo cappotto a ruota, mi portava da mia nonna dove la balia di tanto in tanto veniva ad allattarmi; la sera papà veniva a riprendermi per riportarmi a casa.
L'inverno fu particolarmente freddo e, quando c'erano tre o quattro metri di neve e sulla strada non vi era nessuna orma, mio padre doveva mettere gli sci per accompagnarmi e, a volte, mi consegnava a mia nonna attraverso la finestra.
Un giorno infuriava la bufera, chiamata a Capracotta filippìna. La copiosa neve del cielo con la furia del vento formava un vortice con quella che era a terra. Papà, temendo che stessi morendo assiderata, perché sentiva agitarmi molto nello zaino, bussò ad una porta per controllare il mio stato di salute ma, quando aprì con molta preoccupazione lo zaino, con grande meraviglia ricevette un mio bel sorriso ereditato da mia madre; così rincuorato riprese il cammino verso casa di mia nonna.
Finito il periodo di allattamento e l'attraversamento del paese, crescevo con frequenti attacchi di tonsillite dovuti al freddo sofferto nei miei primi mesi di vita, circondata dall'affetto dei miei in una vita di sobrietà.
Non si vendevano giocattoli così io e le mie coetanee, per divertirci, esercitavamo la nostra creatività costruendo pupetti di pezza, usando scatole vuote di lucido per scarpe come fornelli per cucinare e cerchietti dei lumini come bracciali.
Costruivamo il nostro tesoro: una specie di caleidoscopio, scavando un piccolo fosso nelle macerie dove mettevamo tanti pezzetti di vetro colorato che si trovava in grande quantità, coprendoli con uno più grande su cui io e la mia più cara amica ci scambiavamo piccoli regali.
Io cucivo i vestitini per i suoi pupetti e lei faceva le copertine a maglia per i miei.
Anche con poco ci divertivamo un mondo: giocavamo a palla, a "campana", a battimani (la mano destra con la sinistra dell'amica che ci stava di fronte e poi viceversa), festeggiavamo il battesimo dei nostri pupetti con liquori fatti di acqua e "giuggiole", caramelline alla menta o di acqua, e "barchette", caramelline di liquirizia.
Il mio primo giocattolo fu un bambolotto di celluloide compratomi a Roma, quando i miei mi portarono in occasione dell'anno santo del 1950.
All'inizio della scuola elementare accolse me e le mie compagne di classe un edificio molto bello, ricostruito con il Piano Marshall, fornito di termosifoni, altoparlanti in ogni aula e grandi manifesti con immagini di tutte le bombe con la scritta a caratteri cubitali:
SE TROVATE UN OGGETTO SIMILE,
NON TOCCATELO!
AVVISATE SUBITO I CARABINIERI.
Dopo aver compilato un questionario a scuola, fui ritenuta appartenente a famiglia benestante (il benessere del dopoguerra!) per cui, quando le mie compagne di classe avevano il pacco dei viveri, a me davano solo le caramelle.
Io guardavo i formaggini che ricevevano, desideravo averli, ma nei negozi non si vendevano, per cui pensai di barattarne qualcuno con la fetta di caciocavallo che mia madre mi metteva nel panino.
Come la scuola, tutto il paese rinasceva più bello di prima, ma restava il triste ricordo della distruzione come nelle pagine del diario della levatrice Cesarina Lanzoni Trotta di cui riporto alcune sequenze:
Ci eravamo da poco alzati, quando il vecchio Gildonio, banditore ufficiale del Comune, annunciava con queste parole la prossima distruzione del paese: «Si avvertono i cittadini che fra poco il paese sarà distrutto»... Per due giorni fuoco e mine ridussero il nostro paese in un cumulo di macerie... Le chiese da cui era stato tolto il SS. Sacramento si trasformarono inevitabilmente in taverne; gli altari furono trasformati in tavoli sui quali si impastava un po’ di farina per sfamare specialmente i bambini che, ignari di di quanto stava accadendo, reclamavano il cibo; il mio piccolo Aldo di soli tre mesi, durante il primo giorno pianse continuamente... era passata da un pezzo l'ora della poppata ed io avevo solo la bottiglia vuota con il biberon non avendo potuto allattare naturalmente. La signora Carmela De Renzis allora, che aveva il suo piccolo Ezio coetaneo del mio, mi diede un po' di zucchero con il quale speravo di preparare almeno dell’acqua zuccherata ma i soldati impedivano di arrivare al serbatoio idrico. Al colmo della disperazione misi quel po' di zucchero nella bottiglia, la riempii di neve, la misi in seno per farla sciogliere e gliela feci bere. Calmati i morsi della fame, il bambino si addormentò, lo avvolsi allora in una coperta e lo feci riposare in uno dei loculi vuoti della nostra cappella... Fra i tanti disagi passavano intanto i giorni e si giunse al 22 novembre; passarono in quei giorni file interminabili di soldati, carri armati e automezzi diretti verso il fiume Sangro, mentre il giorno successivo non si vide più traccia di Tedeschi. Si tirò un sospiro di sollievo nella speranza che arrivassero presto gli Inglesi a portare il cibo che scarseggiava e ad alleviare gli stenti della popolazione... Le famiglie furono smembrate con persone caricate su camions diversi in località diverse e molti poterono riunirsi solo al termine del conflitto. Restarono a Capracotta il medico, il farmacista, il custode delle carceri, quello del cimitero con le rispettive famiglie, il parroco e pochi altri, cosicchè terminato lo sfollamento ci ritrovammo a Capracotta in 92 civili... Il Natale del 1943 rimarrà pure fra i miei tristi ricordi della guerra... In quei giorni, intanto, le truppe inglesi erano state sostituite da quelle polacche e la mattina di Natale, andando a Messa, ebbi la sorpresa di vedere la Chiesa gremita di quei soldati. Celebrava infatti un loro cappellano militare che al momento dell'omelia cominciò a parlare nella loro lingua; io naturalmente non lo capivo, ma penso che parlasse delle loro famiglie lontane, perché ad un certo punto i soldati si misero a piangere... Con l'arrivo dei Polacchi si attenuarono abbastanza anche i nostri stenti; erano stati tanto provati che si compenetravano nelle nostre sofferenze ed avevano compassione di noi. In questo clima di relativa calma arrivammo al 22 maggio 1944, giorno dedicato a santa Rita e quel giorno segnò la partenza da Capracotta degli ultimi soldati.
Giuliana Carnevale