Il Molise, Signori, ha l'onore di essere di codesti paesi elementari, rozzi, retrogradi che non dicono nulla al turista: non vi è nessuna preparazione scenica di montagne, di laghi e di giardini da riguardare dalla finestra d’un albergo sia pure non lussuoso. Il giardinaggio è pressoché sconosciuto da noi e gli alberghi di Capracotta Sannita, bellissima a 1.480 metri, e di Rivisondoli rassomigliano alle vecchie case provinciali: l'ospite è così onorato che se vuole la gallina gli cucinano la gallina, e il porco idem, e la capra idem, ma tuttavia, se non è un poeta o un mezzo molisano, non lo contentano perché per un bagno la servitù indigena comincia dal mattino a caricar l'acqua, e tuttavia è necessario calarsi in una tetra vasca di zinco, pelarsi e raffreddarsi ed alla fine avvolgersi in un bel lenzuolo tessuto al telaio preistorico dell'ava, che se mai ti asciuga ti spunta l'orticaria del pizzicore, come dicon da noi. Quindi segregazione del Molise agli sguardi innamorati e indiscreti, e perciò si cammina con un piccolo secolo indietro dolce e testardo come il fanciullo pacioso che non vuole il dolce quando gli si offre, per paura che preceda la medicina cattiva. Così è del Molise che non chiede, non vuole civiltà, nella smania universale. La civiltà lo difforma e lo esaurisce: egli non lo capisce bene quanto lo sente.
I secoli prepotenti non hanno scosso la sua opaca e forte struttura di colonia agricola e guerriera, ed egli vuole vivere a suo modo, attaccato alla spina dei suoi monti, e prosperare nel senso antico della Bibbia, tra lanose e pie greggi, in valli spaziose e calme dove il tempo s'arresta a riguardare i miti uomini fedeli che ancora guadagnano il pane col sudore della fronte, rompendo, a piè scalzo, la terra soltanto con la zappa (l'aratro è cieco, essi dicono, e la zappa è femmina guardatora), e nutrendosi del pane di granturco cotto sotto la cenere, arricchito da un festoso peperoncino rosso assaettato, detto il diavolillo, perché ecciti la forza delle braccia. E se continua così finirà per diventare, io pensio, e Dio lo voglia, una preziosa reliquia d'un passato che l'avidità del presente e l'ardore delle agitate conquiste ha relegato come i prigionieri medioevali nei fossati ciechi delle torri, a morire sepolti vivi.
Pur nonostante io cercherò di presentarvi il Molise scindendone la fisionomia dalla nebbia che l'opprime; nebbia grigia della sua ostinazione e della sua apatia che pare si sprigioni dal suo venerabile mutismo e salga dai suoi fiumi capricciosi ed ignari e dalle sue montagne solenni, e nebbia d'oro che lo ha confuso ed umiliato nella figurazione mistica e statuaria dell'Abruzzo di cui non ha mai fatto parte nei secoli veri ossuti della sua storia, ed al quale non assomiglia che in alcunché del dialetto e delle costumanze, costumanze perite quasi tutte nell'Abruzzo e rimaste ancora vive nel Molise, suo verecondo e scalzo confratello. Chiuso infatti tra gli Abruzzi, le Puglie e la Calabria, egli avrebbe dovuto partecipare al magnifico risveglio della razza vicina, assai più gentile ed aperta, almeno per forza d'inerzia. Invece egli è rimasto impenetrabile, asciutto come le argentee selci di cui son fatti i suoi focolari e le sue case, e d'una indifferenza superba, l'indifferenza del solitario d'origine che si astrae sempre anche se capita in mezzo a un baccanale.
Lina Pietravalle
Fonte: L. Pietravalle, Molise, Nemi, Firenze 1931.