Campobasso, febbraio.
La carrozzabile dopo Castel di Sangro era un angusto e candido corridoio scavato tra due pareti di neve alte dai due ai tre metri. Il fondo era ghiacciato. Impossibile sbandare. Tutt'al più ci si incastrava nelle pareti. In tal caso occorreva rimuovere la nostra macchina con una corda applicata al radiatore e così facemmo più volte. Se avessimo incontrato qualche auto proveniente in senso inverso ci saremmo giocata la strada. Ma chi scendeva da Capracotta? A un bivio, a dieci chilometri, si alzò d'improvviso un vento perfido e insistente come la pertosse. La neve ci turbinava addosso con la violenza di una grandinata. Picchiava sui vetri, sembrava la sabbia del ghibli. Non si vedeva nulla. Il tergicristallo agghiacciò e, addio, smise di funzionare. Dovemmo aprire i finestrini e pulire il vetro, arabescato di ghiaccioli, con le mani, la neve irrompeva dentro la macchina. La strada improvvisamente scomparve, non se ne scorgevano più le curve. Scendemmo, per ricercarla, con la vanga e ci mettemmo a spalare. La neve era alta, affondavamo sino al ginocchio. Fummo presto fradici e ci demmo il cambio al volante. La bufera durò quasi un'ora. Quando si calmò e, tra le nuvole, filtrò un esangue, pallidissimo sole, lassù, aggrappato alla montagna a 1.420 metri apparve finalmente Capracotta, una specie di miraggio. Ma un miraggio non era.
Arrivammo e subito ci si strinse il cuore. Ma questa, pensammo, è ancora Italia o un altro mondo, o un villaggio scoperto su libri di favole? Le strade, strade non erano, ma strette, bianche e freddissime gallerie nella neve. Le case, case non erano perché dalla neve tetti, porte e finestre erano incredibilmente nascosti. Le donne camminavano spedite negli scarponi, il viso riparato in uno scialle che si serravano al petto, le mani giunte come l'officiante sull'altare alla benedizione. Gli uomini erano avvolti in mantelline tenebrose e ampie come quelle dei flik di Parigi e per far largo alla nostra macchina si scostavano affondando nella neve sin quasi alla pancia e ancora, e tuttavia, ci salutavano chinando il capo.
Scendemmo e incominciammo a stringere le amicizie che si intrecciano quando forestieri come noi arrivano in paesi, isolati dal mondo, come questo. Una donna, per farci riscaldare «Gesù – esclamò, – come siete ridotti») ci invitò a casa sua. Benedetta ospitalità del Molise. Avrà avuto una quarantina d'anni, aveva un viso affilato e reso più dolce dai capelli spartiti e metà sulla fronte. «Di qua» disse e, a un tratto, si incurvò come per raccogliere qualcosa da terra e si infilò in un buco, in una specie di galleria nel ghiaccio. La sua casa o, meglio, la sua unica stanza era al di là di quell'impensabile cunicolo ricavato nella neve. Ci curvammo anche noi ed entrammo. «Ecco – disse aprendo le braccia, – io abito qui». Ci voltammo. Era un umido, squallido vano illuminato da una luce ad olio. Quella donna era una maglierista. A Capracotta le maglieriste - le uniche donne che lavorano - sono numerose e solo d'estate guadagnano qualcosa con i forestieri perché, in poche ore, vi danno il golf, o la pancera, o le calze che volete ma questa preziosa, abilissima attività loro non basta - è chiaro -, sono povere, molto povere e vivono in case come quella che vedevamo, con il lume ad olio e le pareti umide. La donna ci raccontò che a Capracotta, ogni anno bloccata per mesi dalla neve, la gente fa come le formiche, si prepara cioè ad affrontare l'inverno con le scorte dell'estate. «Ma io – disse – che scorte mi faccio?», e si aspettava una nostra risposta. Noi davvero non sapevamo che dire e guardavamo la finestrella della sua casa ricoperta di neve e intanto pensavamo: ma come può, ancor oggi, della gente vivere come lei, in una stanza così piccola e così fredda con la neve che fino a primavera oscurerà la finestra e bloccherà la porta al punto che oggi per uscire ella deve chinarsi e percorrere un cunicolo gelido come la pista del bob. «Tutti gli anni è così – disse. – Nel 1954 fu peggio. La neve arrivò a quattro metri. Se ne parlò assai». Noi pensavamo a quanto, allora, scrissero i giornali governativi, alle trasmissioni della radio, alle promesse del governo che promesse rimasero, perché oggi, 15 febbraio del 1956, tutto è come prima, né più né meno, e se la neve non ha raggiunto la vetta di due anni fa la gente entra ugualmente in casa sua curvandosi come se dovesse tornare in una miniera o ne esce saltando da una finestra perché la porta non si può aprire.
Capracotta, a guardarlo così, sotto la neve che turbinava, nella nebbia gelida, aveva un'aria desolante, l'aspetto di un paese tagliato fuori dal mondo, isolato, paralizzato, chiuso nel ghiaccio, nella solitudine, nella sofferenza di chi vi abita. Isernia è lontana di qui una settantina di chilometri eppure era irraggiungibile. Chiedemmo notizie della corriera. «Chissà quando potrà arrivare» ci dissero. «Piuttosto, deve arrivare un elicottero: l'ha detto Radio Pescara». La voce dell'elicottero si sparse rapidamente e molta gente andò su uno spiazzo ad aspettarlo. Doveva portare viveri, coperte, medicinali. Alcuni uomini di misero a spalare per preparare un piccolo campo di atterraggio. Avrebbero guadagnato qualche soldo. Ma, dopo un po' arrivarono i carabinieri e li fecero smettere. «L'elicottero non arriva più – avvisarono, – c'è troppa foschia, non può volare. Tornatevene a casa». Così sfumò anche quella possibilità di lavorare e se ne andò la speranza di ricevere qualcosa. Uno disse: «Ma l'ha detto Radio Pescara che l'elicottero sarebbe arrivato». «Fesserie – rispose il carabiniere, – la radio dice solo fesserie».
Su questa storia delle «fesserie» della radio ci parlò anche il sindaco Vittorino Conti. Il sindaco di Capracotta è democratico cristiano, un uomo di mezza età, un po' calvo, loquace, simpatico. «qui – ci disse – Radio Pescara la chiamiamo la radio milionaria perché d'inverno si inventa i milioni che lo Stato distribuisce ai paesi isolati dalla neve. Il nostro Comune non ne ha ancora visti, e la gente sta male, molto male. Troppi disoccupati: 400 su 4.000 abitanti». Ci disse inoltre che per risolvere la cronica situazione di indigenza di Capracotta occorrerebbe qualche industria. «La Cassa del Mezzogiorno – aggiunse – dovrebbe pensare un po’ a noi, invece niente».
Le parole di quest'uomo erano semplici e amarissime. Sintetizzavano la realtà di questo paese e di cento paesi come questo, abbandonati a sé stessi non solo in momenti eccezionali ma tutto l'anno e da anni. Salendo a Capracotta ne avevamo incontrati alcuni lungo la strada, paesi affondati nella neve, dimenticati nel ghiaccio, colla gente chiusa nelle case, più ingrate degli altri giorni ove lo squallore di questo inverno si univa alla mancanza della luce, dell’acqua, del gas.
Nevicava sempre. Riparammo in un piccolo caffè, accanto a una stufa di maiolica. Vi era della gente che ascoltava la radio. Piovevano notizie di centro d'ogni regione, dal Fucino al Salento. L'annunciatore elencava nomi di paesi che, in quello stesso momento, stavano vivendo le identiche ore di Capracotta e ne veniva fuori un panorama d'Italia nuovo e desolato, con chilometri di strade interrotte, centinaia di villaggi e di paesi bloccati, senza viveri e senza medicinali; e dietro a tutto questo vedevamo gli italiani, uomini, donne, bambini, vecchi, sani e infermi che avevano gli stessi volti, lo stesso freddo e la stessa miseria di coloro che andavamo conoscendo a Capracotta. E intanto pensavamo che una volta ancora il maltempo, con i disastri e le vittime mietute, stava condannando i governi che abbandonano a sé stessa questa povera gente del sud. Poi ci alzammo e uscimmo. Era notte ormai e nevicava ancora.
La levatrice della bufera
Questa donna è la levatrice di Capracotta. Si chiama Cesarina Lanzoni, è nata a Ferrara. Arrivò a Capracotta diciannove anni fa. Quando una sera di dicembre scese dalla corriera in piazza si mise a piangere perché non immaginava di finire in un paese così isolato dal mondo, con la neve che arrivava alle finestre del primo piano, con la gente che parlava in un dialetto inesplicabile. Ma il lavoro non lasciò molto tempo al suo sconforto. Poche ore dopo il suo arrivo, nel pieno della notte, la chiamarono urgentemente per assistere a un parto. La neve per le strade era altissima. La bufera scongolveva Capracotta. Cesarina Lanzoni si fece coraggio e uscì. Impiegò un'ora per arrivare al non lontano letto della puerpera; affondava nella neve sino al petto. Il parto era difficile ma andò bene. Da quella sera lontana centinaia di chiamate urgenti hanno fatto percorrere molti chilometri nella neve, sotto la tempesta, di notte, alla levatrice di Capracotta. Durante la guerra, mentre i tedeschi in ritirata minavano le case del paese, ella raccolse sei gestanti nelle tre stanza della sua casa, andò dal comandante e disse che almeno la sua casa fosse risparmiata. Il comandante non credette che quelle donne stessero per partorire e volle sincerarsi di persona, guardandole una per una. Cesarina Lanzoni guadagna 27 mila lire. Le è stata negata la indennità perché Capracotta non è ritenuta una località disagiata.
A Capracotta non v'è l'ospedale e quando la neve, d'inverno, interrompe le comunicazioni i malati gravi vengono trasportati in barella ad Agnone o a Castel di Sangro, fra mille ovvie difficoltà. Recentemente la moglie del medico condotto di un villaggio vicino a Capracotta fu urgentemente ricoverata ad Agnone per subire un taglio cesareo. Vi arrivò con uno spartineve. Questo è un aspetto della odierna situazione nel Centro-Sud. Precaria è anche l'edilizia popolare. Migliaia di persone in Abruzzo, nel Molise, in Calabria abitano in case prive delle più indispensabili attrezzature domestiche, dall'acqua al riscaldamento e alla luce. Si calcola che il 60% delle case sia inadeguato alle necessità di chi le abita.
Guido Quaranta
Fonte: G. Quaranta, Una montagna di neve sulla porta di casa, in «Noi Donne», XI:9, Parigi, 26 febbraio 1956.