top of page

I moti del 1860 a Capracotta (II)


Moti 1860 Capracotta

Tra i reazionari principalissimi furono Francesco d'Onofrio e Pasquale di Janni. Il primo, contadino, ventenne, dalle forme erculee, veniva chiamato "Francescone". Il secondo, anche contadino e benestante, dell'età di anni quaranta, era soprannominato "Calzettone". Egli arringava la folla, proclamando che bisognava difendere quel "povero guaglione" (Francesco II°). Si fece proclamare governatore della "Terra" (così il popolo chiama ancora il paese) e come tale emanava pubblici bandi e decreti insieme di severissime pene a chi non obbedisse. Ma bisogna soggiungere che l'animo di costui non era inferocito al pari di quello di Giustino Carnevale, Cesare Carnevale, Pasquale Grifa, Pietro Di Luozzo, Saverio di Nucci, borbonici emeriti e corrivi alle vendette e alle rappresaglie inumane.

Il moto fu dapprima capitanato da una donna, cui fu dato il nomignolo di "Cannatella" che le rimase a suggello di tanta gesta. Procedeva essa infatti con un orciuolo (cannatella) infisso su d'un bastone, palleggiando la volgare insegna con gesti e parole più volgari ancora, ma sommovitrici. Notavansi tra la folla due soldati in divisa borbonica, Pasquale Sozio ed Angelo Grifa, i quali con l'atteggiamento della persona e con grida aggiungevano esca al fuoco. Ad ingrossare le file de' reazionari contribuì forse il fatto che cadde molta pioggia la notte e parecchi contadini, che si sarebbero recati ai loro campi, rimasero in paese; ed anche i vetturini anticiparono il ritorno dal bosco dove quell'anno si faceva legna.

Tornava uno di costoro, Peppe Sciarrigli, con un asino carico di ceppame e giunto in paese e saputo del fermento e inebriato dalle grida di morte de' reazionari, si unì esclamando: «M'aia fa pur'ì quatte còcce de gammacuòtte». Ma, appena arrivato in piazza, da una finestra della casa di Domenico Conti partì un colpo di fucile che lo ammazzò.

Tra i liberali rimasero feriti di un colpo di stile al fianco destro mio padre, il quale mai volle dirmi il nome del feritore, sebbene io abbia sempre insistito di saperlo, e il farmacista Don Ettore Conti d'una terribile roncata al collo infertagli dal suo compare Cola Di Rienzo e D. Sebastiano Falconi alla mano dal vinaio Felice d'Andrea e D. Florindo Bizzoca alla testa. Mio padre, recatosi in casa Sozio, fu adagiato e medicato sul letto nuziale preparato per le nozze del padrone di casa Agostino con Anna Antenucci. Lo sposo si era anzi mostrato liberale sino al punto da preferire in quel giorno alle d'Imene i pericoli della pugna.

De' reazionari furono feriti Cesare Carnevale, Donato Di Rienzo alias "Zappone" e Giustino Carnevale. Essi andarano a farsi medicare dal farmacista D. Giuseppe Castiglione, il quale dapprima risolutamente si negò, ma dovette poi cedere alle minacce di morte de' forsennati che li accompagnavano. Nel giorno successivo la folla, volendo vendicare il morto e nel medesimo tempo garantirsi di ogni ulteriore pericolo, si diede a ricercare i civili per disarmarli e arrestarli. Furono così isolatamente presi i canonici D. Policarpo e D. Vincenzo Conti, D. Gregorio Conti, monsignore in partibus, l'arciprete prof. D. Filippo Falconi, D. Giovanni e D. Salvatore Conti, D. Anselmo di Ciò, D. Olindo Chiaffarelli, maestro della musica cittadina, Benedetto Giuliano e Giuseppe de Vita. Quest'ultimo, quantunque nato di popolo, fu tra quelli che mostrarono grande entusiasmo per il nuovo Governo e ne aveva pagato ben caro il fio.

Si racconta che, soldato del Borbone, avendo ricevuta una medaglia per non so che atto di valore compiuto, un po' per brio giovanile e più per odio del Re, la sospendesse al collare d'un cane, saputa la qual cosa dai superiori, fu egli sottoposto a Consiglio di guerra e condannato nel capo e graziato poi mercè l'intervento dell'illustre conterraneo D. Stanislao Falconi, Procuratore Generale della Suprema Corte di Giustizia.

I sopraddetti liberali ghermiti della plebaglia furono tutti rinchiusi nelle carceri del paese e severamente invigilati. Quelli tra i compagni che riuscirono a salvarsi, si asserragliarono nelle case, risoluti a vender cara la pelle. La turbe, briaca d'odio e di sangue, girava obbligando tutti a cedere le armi. D. Antonino Conti, minacciato, fu il primo a darle. Da D. Francesco Falconi, padre di D. Filippo, pretesero un lauto pranzo; anzi Nicodemo di Luozzo chiese una miscisca ed ottenutala la presentò ai compagni gridando: «Ecche ru scuòrze de Garibaldi!». Calzettone intanto mandava bandi di morte. La plebaglia però non era d'accordo sulla sorte da dare agli arrestati.

Alcuni avrebbero voluto mandarli ad Isernia, anche perché i signori reazionari di quella città avevano promesso una certa somma per ogni liberale che venisse loro consegnato. Altri, ed erano i più, propendevano per la fucilazione immediata, che secondo loro doveva aver luogo alla Piana del Monte Capraro o alle Croci. Non riuscendo ad accordarsi intorno alla pena da infliggere ai malcapitati, si decisero di mandare ad Isernia Domenico Mastrociomme per chiedere la sentenza al Comitato reazionario di colà. Il Corriere però si fermò a Miranda per aver saputo che il De Luca con i suoi mille volontari aveva messo Isernia a sacco e fuoco. Il Mastrociomme fece tosto ritorno e giunto in paese, corse defilato alle carceri, gridando: «Pace! Pace!» senza aggiungere altro a quei che gli chiedevano conto della missione. Così gli arrestati furono liberi. Essi però la sera precedente, all'annunzio dell'invio del Corriere ad Isernia, d'accordo col sagrestano Pietro Bizzoca, avevano stabilito d'evadere per una buca praticata nel muro della prigione che dava in una cappella della chiesa madre. Il progetto naturalmente per i fatti che seguirono non fu effettuato.

Per suggellar la pace, tutt'altro che sincera da parte de' popolani, intervenne D. Giandomenico Falconi, Vescovo di Altamura, dottissimo e forte ingegno, il quale con l'autorità del nome e del ministero, e con quella che gli veniva anche dal non essere ritenuto un liberale, placò l'ira del popolo, inducendolo alla pace con i civili ed in forma solenne. A tal uopo celebrò una messa pontificale ed alla elevazione predicò, raccomandando la concordia degli animi e invitò al bacio fraterno i numerosi dissidenti. Infine ebbe luogo la processione per le vie del paese. Degno di nota fu che, subito dopo il Santissimo, veniva portato dal reazionario Francescone il ritratto di Vittorio Emanuele II. E quest'atto fu molto significativo, perché passarono appena una decina di giorni e il Re Galantuomo faceva ingresso solenne a Castel di Sangro, e la buona notizia fu data a D. Francesco Falconi da un amico dell'Abruzzo Chietino. Molti uomini del paese mossero alla volta di Castello e in casa Fiocca furono presentati al Re dall'insigne clinico Salvatore Tommasi.

Nel Novembre i capi del moto reazionario furono arrestati, processati e condannati dal Tribunale d'Isernia a pene varianti da cinque mesi a sei anni di prigione. Calzettone passò cinque anni nelle carceri di Campobasso, e uscitone non aveva di che vivere. Ciò non pertanto morì vecchissimo, sorretto sempre dalla speranza di rivedere sul trono il suo "guaglione". Ma, s'intende, nel fondo dell'anima reazionaria covava la luce borbonica e la consacrazione del suo destino d'Italia non valse a rimutare di subito la coscienza di coloro che avevano soffiato nel fuoco e che erano trascesi ad atti inconsulti.

D'altronde, il timore di rappresaglie e di punizioni esemplari da parte dei nuovi dominatori e quel vago indistinto bisogno d'attendere sempre il futuro, sperandone giustizia indusse parecchi reazionari capracottesi a lasciar la vita del lavoro e darsi alla macchia dove avrebbero potuto organizzarsi e riconquistare insieme con gli altri dispersi e borbonici di buona lega le cose perdute.

Cosicché, dopo tanto fermento e splendore di eroismo, Capracotta fornisce anche l'esempio per necessità ineluttabile di tempi di questa detestabile avventura italiana, anzi meridionale, che tenne dietro alla rivoluzione del 1860 e che infestò tante nobili regioni e fu causa di lutti e di incresciose repressioni.

E principalmente briganti, bisogna pur dirla la parola nefasta, furono Francesco d'Onofrio, Sebastiano di Rienzo alias "Nabisso" e Vincenzo Pettinicchio. Il primo, dopo aver commesso furti e grassazioni, fu ammazzato dalla gelosia dal compagno Raffaele D'Agostino, di Roccasicura, al bosco di Montedimezzo; Nabisso morì vecchio, e il terzo si offrì ai giudici italiani e dopo breve prigionia emigrò in America, dove tuttavia vive. E fu proprio quest'ultimo che prese parte con la banda di "Cuzzitto" all'assalto di Vastogirardi, il 28 luglio 1864, dove per opera della valorosa Guardia Nazionale di colà rimasero morti quattro briganti e l'eroica difesa de' Vastesi meritò loro una bandiera d'onore della Guardia Nazionale di Napoli.

Sentirei di venir meno al mio dovere di cronista se omettessi un elogio speciale alla valorosa Guardia Nazionale di Capracotta, la quale, oltre che nella caccia ai reazionari, si segnalò nella repressione del brigantaggio e soprattutto all'Ospedaletto, a Santa Maria del Monte, alla Macchia, dove venne catturato il celebre Wolff disertore della Legione Ungherese in Italia e che in ultimo fu condotto ad Isernia ed ivi giustiziato. La bandiera della Guardia Nazionale divenne poi la bandiera del Municipio di Capracotta. L'agro capracottese fu infestato dalle terribili bande di Cuzzitto, Ferrara e Tamburini e non poche famiglie del luogo ebbero a subire gravi danni e qualcuna anche la rovina. Ricorderò solo la distruzione di una intera masseria di pecore di D. Geremia Conti avvenuta per opera del Ferrara.

Già Capracotta, che nel 1656 era stata quasi distrutta dalla peste, tanto che dal 4 agosto al 13 settembre morirono ben 1.126 persone, fu anche assaltata e devastata da' briganti, i quali vi entrarono all'una pomeridiana del 6 luglio 1657. Persino in chiesa, senza alcun rispetto per il sacro luogo, essi ammazzarono, vicino all'altare della Santissima Trinità, il sacerdote D. Tobia Campanelli e molti secolari, depredarono il paese «per denari, ori e argenti e animali di 30000 ducati», cifra favolosa per quei tempi. I briganti in tutto erano 104 e avevano per capi Paolo Fioretti, calabrese, Boccasenz'osso, Carlo Petrulli e Peppe Nastri.

Adesso, non occorre dirlo, a Capracotta non c'è più brigantaggio come non c'è pure divisione di partiti, e quello spirito fazioso che travaglia altri paesi vi è appena ai primi albori, che speriamo non sia seguito da nessun'alba, né meriggio.


Oreste Conti


 

Fonte: O. Conti, I moti del 1860 a Capracotta, Pierro, Napoli 1911.

bottom of page