Anche se la maggior parte delle fonti è dislocata a mezzogiorno del territorio di Capracotta non bisogna tralasciare quelle altre che hanno contribuito a risolvere atavici problemi di un paese di montagna come il nostro, che in passato restava isolato per giorni e giorni dal mondo esterno.
A nord-ovest di Capracotta vi è infatti una striscia di territorio posta a una quota variabile fra i 1.150 e i 1.250 metri che, partendo dalle Matasse Nete, ubicate nel bosco della Difesa, e attraversata una zona di libero pascolo denominata Sotto la Terra, termina al Vallone Molinaro, ricca di faggi, cerri, sambuchi e macchia mediterranea.
In questa striscia sono presenti in successione la Fonte Nascosta, la Fonte Sambuco, la Fonte Gelata, la Fonte d'Antuono e la sorgente del Mulo, tutte protagoniste della nostra storia, tanto che ad alcune di esse è stato assegnato un nome caratteristico delle civiltà contadine.
Nel dopoguerra il Comune di Capracotta aveva diviso i suoi boschi in venti particelle e ogni anno ne veniva tagliata una per gli usi civici, rispettando così un ciclo di rotazione di vent'anni. Per il taglio venivano assunte squadre di tagliaboschi che lavoravano a cottimo e ad ogni squadra veniva assegnata una sezione della particella: in questo modo ogni famiglia capracottese aveva diritto alla suo quota di legna a prezzo agevolato.
I taglialegna si guadagnavano la giornata senza l'uso di motoseghe o di altri strumenti meccanici (ad esempio i trattori cingolati), ma confidando soltanto negli animali da soma - generalmente muli - idonei al trasporto della legna. Il mulo, infatti, oltre ad essere fisicamente resistente sui lunghi e sconnessi sentieri di montagna, sopportava carichi pari a circa due quintali, mentre la giumenta non superava il quintale e mezzo, l'asino il quintale.
Con la famosa "martellata" bisognava abbattere gli alberi, tagliare i rami per creare le fascine di céppe, segare i tronchi a misura e comporre due mezze canne al giorno; una canna di legna corrispondeva a circa 20 quintali di legna di faggio o a 24 quintali di quercia ed era lunga 4,24 m. per 1 m. d'altezza e 1 m. di profondità.
Il termine "canna" mi porta al tempo in cui, giovincelli e spacconi, cercavamo di emulare gli adulti col fumo, tentando di ricavare sigarette da qualsiasi cosa: paglia delle sedie, foglie secche o le cosiddette tòrte. Ricavate dagli arbusti più sottili, quand'erano verdi servivano per legare le fascine, mentre quando seccavano, tagliate a lunghezza variabile, le accendevamo simulando di fumare le normali sigarette.
Erano talmente porose e nodose che per fumarle bisognava aspirare a pieni polmoni, per cui, dopo averne fumato quasi un metro, gli occhi ci schizzavano dalle orbite... e così capii che era meglio essere sfigati piuttosto che spompati!
Al di là di questa mia divagazione, in quella striscia di terra di cui parlavo prima verdeggia e germoglia l'albero del sambuco, una pianta con la quale prestare massima attenzione in quanto contiene cianuro e vari alcaloidi, ma che, se ben impiegata in alcune sue parti (fiori, foglie e bacche), rivela poteri salutistici.
Una volta intagliati e svuotati del midollo i rami del sambuco diventavano per noi bambini delle cerbottane con cui lanciare palline di carta, stoffa e, a volte, piombo, mentre gli adulti li usavano per realizzare il cannello della pipa o la cannèlla per meglio bere il vino e l'acqua. Bere "alla cannella" esulava da qualsiasi galateo poiché si lasciava zampillare il liquido direttamente in gola senza accostare le labbra alla bottiglia e, a quei tempi, l'igiene non era affatto garantita.
Le bacche mature del sambuco, dal sapore aspro e intenso, invece, una volta raccolte in autunno vengono utilizzate per aromatizzare liquori come il rosolio di sambuco o, come avviene in Abruzzo, per produrre la sambuca, un liquore a base di anice ma con estratti ottenuti dall'omonimo fiore.
Con il nome del nostro paese vengono da sempre commercializzati liquori creati con erbe officinali ma non mi risulta che qualcuno abbia mai deciso di produrre il "Sambuco Molinaro" di Capracotta!
Filippo Di Tella