Gergely Illés muore e viene lasciato insepolto
Usciti i prigionieri da Pescopennataro, alcuni di essi viaggiavano sugli asini. Un soldato ha intimato a due condannati di sorreggere ai fianchi il vecchio Gergely Illés, ormai moribondo, distrutto dalle sferzate e sfinito dalla dissenteria, e, a sua maggior mortificazione, i due compagni han dovuto impedirgli di scivolare. Tuttavia, in luoghi tanto ripidi, nessuno dei due aiutanti è stato in grado di reggere il peso del malato, sia da un lato per i ferri alle mani, sia dall'altro, cosicché questo è collassato a terra ed è morto. Steso al suolo, per volere dei carnefici, gli hanno strappato le vesti ed è stato abbandonato insepolto e seminudo sulla strada. Parimenti, il piissimo István Séllyei, anch'egli trasportato su asinelli che andavano a passo ancor più lento, non godeva di buona salute ed anzi è stato trattato con ferocia da un soldato chiamato Maximilian. Séllyei aveva il viso deformato dalle piaghe e il naso rotto, da cui fuoriusciva un fiume di sangue che prima era soltanto un rivolo: la sua anima era ormai morta.
Questa, più o meno, è la somma delle crudeltà inferte dagli ufficiali militari a questi miseri prigionieri, a cui va aggiunto che non riescono a camminare, costretti come sono a subir vergate da ogni direzione. Quando persino le giumente stesse non riescono più a portare quei pesi morti, sono i condannati, a loro volta flagellati, che devono frustare con vigore le bestie: ciò che gli asini han dovuto sopportare finora, viene ora sopportato dai prigionieri sul proprio corpo. A usar violenza non sono soltanto i soldati semplici ma anche e soprattutto i predetti ufficiali della milizia.
Tre ministri augustani fuggono
Il 29 aprile i prigionieri sono giunti a Capracotta, in un luogo ignobile ove han sostato per due giorni. Lì comincia l'orazione delle preghiere comuni, e prima e dopo di esse i salmi di Davide: per la precisione gli inni 10, 79, 83, 86, 88 e 94, cantati tra lacrime e singhiozzi. Proprio a Capracotta, con molte preci è stato supplicato il capitano - più duro della roccia - affinché sciogliesse le catene alternatamente dai piedi. Una volta rimosse, i condannati sono arrivati a Napoli con le catene che li cingevano dalle spalle ai lombi.
Esattamente al terzo giorno i prigionieri hanno infatti lasciato Capracotta e, durante quel viaggio, a causa delle insopportabili vessazioni, tre ministri della confessione d'Augusta si sono dati alla fuga approfittando della distrazione dei soldati e scampando alla loro efferatezza.
A Capua, successivamente, i prigionieri sono stati costretti a subire ingiurie, oltraggi e maledizioni.
Essi hanno chiesto la carità ai cittadini di Capua, ma gli è stato risposto che quello non è luogo d'elemosina. «La nostra carità – han detto i capuani – la diamo ai cristiani, non agli eretici!».
Bálint Kocsi Csergő
(trad. di Francesco Mendozzi)
Fonte: F. Mendozzi, L'inaudito e crudelissimo racconto della prigionia capracottese e della miracolosa liberazione, Youcanprint, Tricase 2018.