Mentre la lezione, linguistica e morale, di Verga è arrivata al Nord, e per esempio con Pavese, che doveva vincere ogni volta il suo alto dilettantismo, e per cui l'opera era di conseguenza una vera e propria assicurazione sulla vita da riscuotere anche con mezzi estremi (aveva il compiacimento del buon combattente che trova, a mali estremi, estremi rimedi), la questione meridionale - filtrata attraverso la lente del relativismo americano - è divenuta la questione settentrionale (e la lezione prosegue coerente per li rami rilevandosi nell'irritazione stilistica di Fenoglio, narrazione in lingua rattrappita con bellissimi effetti sul raccourci gergale di Alba), il Sud si trova a dover compiere, non solo sul piano letterario, un nuovo lavoro di scavo, un lavoro in profondità per preparare quel telaio su cui impostata possa tessersi una fantasia non di riporto.
Per questo, di molti narratori nati nel Sud, non potremmo dire che appartengono al risveglio autentico di una narrativa meridionale. In questo senso, ripeto, tanto per proseguire l'esempio, un Fenoglio è più narratore meridionale di tanti indigeni del Sud. Ci pare anzi di dover dire che il verghismo meridionale è più che altro un riflesso del vento critico del Nord, spinto fino a quei luoghi dall'anticiclone atlantico. Quanti post-bellici Home Burns, oltre agli Hemingway che si occuparono di Capracotta come dell'Africa, e ai Faulkner e ai Caldwell, e magari al trasferito Cristo cafone tra i muratori di una civiltà industrializzata all'estremo nel romanzo di Pietro di Donato, han rimesso di moda la Galleria Umberto I di Napoli e le sue vetrate sporche ancora dal fumo degli scoppi e degli spari? Allo stesso modo anche Lawrence, e il suo pansessualismo primitivistico, dovremmo dire che han contribuito a far di Verga un narratore europeo che i nostri scrittori si son letti sulle ali di questo rilancio.
Insomma la questione meridionale, seguendo il suo filone autentico, si era presentata nel dopoguerra letterario direttamente attraverso la conversione fortemente lirica - d'altronde comune a tutta la nostra prosa prebellica - degli Alvaro e dei Vittorini. La gente viveva in Aspromonte come in un mito. Il realismo lirico a diretto contatto con la prosa d'arte in ultima analisi non "documentava". E in questo senso, scadute in molti degli scrittori meridionali venuti dopo, quelle ragioni «a fuoco centrale», dovremo anche dire che, invece di vedere piuttosto tipizzato che caratterizzato il Mezzogiorno, noi preferiamo ancora leggere documenti capillari d'una realtà senza sfumature come quello promosso dalla Commissione di inchiesta sulla miseria per il paese di Grassano piuttosto che utilizzazioni a fini evasivi di una situazione che ha ancora in serbo tanta sorpresa di cose. A questo punto, e non sembri impronto, noi vorremmo invitare davvero al realismo il narratore o il poeta che per avventura si trova a far parte di una materia in movimento quale è rappresentata non tanto dalla "questione" quando dall'autentica e ancora oscura sostanza di tutto il nostro Mezzogiorno.
Piero Bigongiari
Fonte: P. Bigongiari, Prosa per il Novecento, La Nuova Italia, Firenze 1970.