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Neve e pancotto, la loro vita


Lefra Capracotta
Gli anziani di Capracotta davanti alla Società dei Pastori (foto: Lefra).

Capracotta, gennaio.

La "Società dei pastori" di Capracotta è uno stanzone squallido: sul pavimento un grande bracere di rame e, attorno, una dozzina di panche. Di questa stagione ci si dovrebbero trovare solo i vecchi inabili; invece, a qualunque ora del giorno, è affollato di gente giovane. Gli armenti, dopo la guerra, si sono ridotti a poca cosa ed i pastori sono senza lavoro. Un tempo, c'erano trentamila pecore che salivano, a primavera, nei pascoli comunali e ripartivano, al principio dell'inverno, per la pianura pugliese; oggi sono poco più di ottomila e, per la maggior parte, appartengono ad allevatori di Andria e di Lucera.

Questa dei greggi che vanno a poco a poco scomparendo è storia vecchia; tuttavia, la disoccupazione è cominciata solo quest'anno. Fino a ieri, il pastore molisano che restava senza lavoro si faceva carbonaio; ma, dall'estate scorsa, quasi tutti gli imprenditori hanno abbandonato ogni attività, dando la colpa alle tasse gravose ed all'obbligo di una troppo complicata contabilità. Così, l'estraneo che voglia recarsi alla "Società" trova sempre lo stanzone affollato. Raccontano le loro storie, discutono dei loro interessi senza alzare mai il tono della voce. La parola "fortuna" ricorre sovente nel loro discorso, quando si accenna a quelli che sono scesi col gregge nella pianura pugliese; e sono, tuttavia, i lavoratori peggio pagati che esistano.

Il pastore ha un contratto di salariato. La sua paga è di settemila lira mensili; più un tomolo di grano, un chilo di sale, un chilo di formaggio fresco; più due velli all'anno, per il vestito. Manda a casa tutto il danaro, tutto il formaggio e almeno un terzo del grano (un tomolo equivale a circa quarantacinque chilogrammi). Vive, per tutto l'anno, di pancotto. Il lungo corno di bue che gli pende al fianco è il recipiente dell'olio. Nella bisaccia ha una scodella di legno. Due volte al giorno i pastori accendono il fuoco sotto la pentola comune, nella quale è messa a bollire l'acqua con un pugno di sale. Rompono il pane nella scodella; lo bagnano con un mestolo d'"acquasala", lasciano cadere sulla zuppa qualche goccia d'olio. Questo è il loro unico nutrimento, e ne debbono lasciare un poco per i cani. A Natale, a Pasqua ed in poche altre solennità, il proprietario dell'armento, se è un buon padrone, dice al massaro di uccidere la pecora più vecchia e di dividerne la carne tra i suoi uomini.

Per quel po' di danaro e per quel po' di pane affrontano una vita di disagi che, forse, non ha paragone. Per sei mesi all'anno dormono all'aperto, senza potersi spogliare; se piove passano la notte in due sotto lo stesso ombrello, seduti spalla contro spalla, reggendo a turno il bastone del parapioggia, perché il compagno abbia modo di appisolarsi. Vivono lontani dalle loro case. Durante l'inverno e la primavera, quando il gregge è al pascolo nella pianura pugliese, lavorano anche la domenica; accumulano le giornate di vacanza e, dalla fine di maggio alla metà di ottobre, quando le pecore sono tornate sui monti di Capracotta, consumano il loro credito alternando otto giorni di lavoro e quattro di riposo; ma in quei giorni di libertà debbono sgobbare dall'alba al tramonto se vogliono portar avanti i campi della moglie, metter da parte qualche soldo zappando la terra degli altri, o andando a fare i taglialegna.

Un tempo, al principio dell'autunno, tutti gli uomini partivano con le loro pecore verso la pianura calda; restavano soltanto le donne ed i vecchi. Quest'anno le cose si sono messe male e molti pastori, molti carbonai che, alla stessa epoca, scendevano a Canosa o a Minervino, hanno dovuto rinunciare al lavoro. Qui non c'è niente da fare. Capracotta, in questa stagione è un paese di lupi e di neve. E potrà sembrare assurdo; ma, tra questi uomini costretti per la prima volta a passare i mesi freddi a casa loro, c'è qualcuno che non ricorda più cosa sia un inverno in montagna. Vanno alla "Società" e fanno dell'ironia. «Adesso vedremo, finalmente, cosa c'era di vero in tutte quelle storie che raccontavano le donne». Dubitano, forse, anche della storia del procaccia, citata ad esempio in tutta la Marsica? Di quella no: ne hanno avuto conferma in questi giorni.

Quando la neve è alta e l'autocorriera di Campobasso resta bloccata a valle, Emanuele Paglione, procaccia di Capracotta, parte a cavallo e scende a ritirare la posta. Cavalca per sei ore, stringendo sotto le ginocchia le bisacce con i plichi degli "speciali" dai grandi sigilli di ceralacca rossa; lo segue una giumenta che porta, legati al basto, i sacchi della corrispondenza ordinaria. Il paese è stato molte volte isolato dal mondo; spesso la neve ha raggiunto l'altezza del primo piano e, per chi voleva uscire all'aperto, non è rimasta altra via che quella della finestra; ma, prima di notte, sono sempre arrivati la posta e i giornali di Roma, con le notizie della vigilia. Dai tempi del regno borbonico ad oggi, è sempre stato un Paglione a compiere questo lavoro; ed il più celebre fu Giacomo, padre dell'attuale procaccia. La sia figura è già diventata leggendaria. In tutta la sua vita Giacomo Paglione non ha fatto altro che trasportare i sacchi a strisce rosse dell'ufficio postale; ma ha saputo farlo in maniera eroica. Quando, nel 1907, gli decretarono la medaglia d'argento al valor civile, tutti gli italiani si commossero. Era un uomo generoso e forte come un atleta. Morì nel '35, di polmonite, per aver dato il mantello a un giovanotto che, salendo al paese con lui, si lamentava d'aver le mani intirizzite.

Sulle montagne molisane e abruzzesi vivono ancora di questi uomini. Anche Emanuele, figlio di Giacomo, non ha mai mancato un giorno alla consegna. D'altra parte, c'è soltanto lui che possa fare quel lavoro: bisogna possedere un'esperienza atavica, trasmessa di generazione in generazione. Non ci si può improvvisare procaccia di Capracotta. Si pensi a questo fatto stupefacente: un uomo cavalca per la china di un monte, sopra uno strato di neve alto tre o quattro metri. Un cavallo che deve reggere, su così piccoli zoccoli, l'uomo ed il carico come può non affondare? Certo, un cavallo qualunque, guidato da un cavaliere qualunque, dopo dieci passi, sparirebbe in una buca. Ma i cavalli di Emanuele, figli e nipoti di cavalli che fecero infinite volte quel cammino, e il procaccia di Capracotta, figlio e nipote di procaccia e postiglioni, sanno dove mettere i piedi. All'occhio inesperto, sembra una distesa candida, dappertutto uguale. Invece, c'è la neve che "porta" e la neve che cede. Capracotta è un paese molto ventoso; la bora e la tramontana si infilano nella valle del Sangro e vanno a battere con estrema violenza su quel monte; spazzano via la neve in un punto, fin quasi a lasciare il terreno spoglio, l'ammucchiano e la pressano in un altro. Un'esperienza antica guida la cavalcata attraverso questi pieni e questi vuoti che nessun altro saprebbe individuare, seguendo un itinerario di volta in volta differente. Le orme disegnano strani ghirigori. Non vi salti in testa di seguirle: dove, un quarto d'ora fa, è passato un cavallo, forse un cane non potrebbe camminare, adesso.

Quando la corriera di Campobasso resta bloccata a valle, viene, dunque, un telegramma per Emanuele Paglione. Il procaccia, naturalmente, sa già come stanno le cose ed è pronto da un pezzo; ma ha atteso l'ordine. È cominciato a nevicare all'imbrunire. Qualcuno, che si è attardato a discorrere, presso il bracere, alla Società dei pastori, o al Circolo operaio, o in casa di amici non se n'è accorto ed ha dovuto starsene là tutta la notte. La neve e il vento, lavorando assieme, ci mettono poco a murare una porta per intero, fin sopra il voltino. Nella piazza del paese, sulla facciata della casa ch'è di fronte al Municipio, è stata tracciata una linea, cinque metri sopra il livello stradale, ed accanto è stata scritta una data: 1-1-45. La neve è arrivata fin là, in una notte sola. Capracotta è a 1.420 metri di altezza; il suo orientamento rispetto alla larga vallata in fondo alla quale scorre il Sangro e la relativa vicinanza delle cime della Maiella e del Gran Sasso che fanno da refrigeranti alle correnti umide provenienti dal mare, sono gli altri elementi che determinano le grosse nevicate. La gente di qui ci è assuefatta e non certo disposta a farne una tragedia. Prima che l'apparecchio telegrafico cominci a battere il dispaccio di servizio per Emanuele, uomini e donne escono a far la trincea o, addirittura, a scavare la galleria. Ma non si pensi che trincee e galleria finiscano sulla soglia di un negozio. Qui, poveri e ricchi, sono preparati anche ad un lungo assedio. In ogni caso ci sono provviste che bastano per un intero inverno.

Però, dicono i vecchi abruzzesi, il mondo ha cambiato di posizione, da parecchi anni in qua. Non ci sono più quegli inverni. Anche Capracotta non resta più isolata per tanto tempo, dalle grandi nevicate. Al massimo due o tre giorni. L'ultimo inverno terribile fu quello del '44; ma allora il paese era spopolato, ridotto a un cumulo di macerie: i tedeschi, prima di ritirarsi sulla sponda sinistra del Sangro, avevano fatto saltare l'ottanta per cento delle case. C'erano gli inglesi e gli americani; misero in azione quattro grossi trattori a cingoli, con lo spartineve; non riuscirono ad aprirsi un varco. Per tre mesi, dalla metà di gennaio alla metà di marzo, restarono completamente isolati e furono riforniti con i paracadute. Poi venne la serie delle annate rigide ma con scarse precipitazioni; e le sortite del procaccia di Capracotta furono rare. Dieci anni fa era stato spodestato dallo spartineve a motore che il Comune aveva ottenuto in dotazione. Dopo la guerra, rimasta la macchina distrutta dalle bombe, Emanuele Paglione aveva rioccupato di diritto l'ufficio del padre. Ma il mondo sembrava davvero cambiato. Sarebbe venuto, anche per lui, il grande inverno, l'inverno della gloria? Se, per caso, ha accarezzato questo sogno, ora dovrà metter da parte ogni speranza di realizzarlo. Tutti i giornali del Mezzogiorno ne hanno fatto un gran chiasso: il sindaco di New Jersey ha regalato al Comune di Capracotta un grosso spazzaneve, del tipo fabbricato in serie per l'Alasca: il "Capracotta-Clipper". Ma i pastori che sono scesi a svernare nella pianura pugliese non lo sanno ancora. Forse sarà inutile avvertirli. Può anche darsi che la notizia non li commuova. È da ragazzini che fanno quella vita, mangiando pancotto, sempre lontani da casa. Forse non ricordano più com'è l'inverno al loro paese.


Tommaso Besozzi

 

Fonte: T. Besozzi, Neve e pancotto la loro vita: quando piove i pastori di Capracotta dormono a due a due sotto l'ombrello, in «L'Europeo», VI:2, Milano, 8 gennaio 1950.

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