La sua casa era la penultima sulla destra scendendo la scalinata di S. Vincenzo, una scalinata che dagli anni '50 si chiama via S. Sebastiano. Tra quelle mura poche cose, l'occorrente per campare. Ma quando nel 1960 il Comune di Capracotta finalmente aprì, dopo l'ostruzionismo delle amministrazioni precedenti, le liste dell'emigrazione, suo padre, da sempre un pastore itinerante tra le Puglie e il Lazio, non perse tempo. Dopo la visita medica effettuata a Verona partì alla volta di Magonza - o di un suo sobborgo - per lavorare come giardiniere presso un'agiata famiglia tedesca. Il suo nuovo stipendio, letteralmente decuplicato (da 6.000 a 56.000 lire), sancì la fine delle ristrettezze per tutta la famiglia. Quelli che furono mandati in fabbrica percepivano ancora di più ma suo padre aveva problemi polmonari e quindi fu scartato per i lavori pesanti.
Poco male.
Col padre in Germania, era la madre a impartire gli ordini, e quella mattina gli affidò la masciàta di comprare strofinacci per la cucina e stoffe che servivano per i consueti rammendi. L'unica merceria del paese era quella del vecchio Nicolino Di Lullo - si chiamava come lui! - in corso S. Antonio.
Il giovane uscì di casa e salì con molta calma le scale (era tutto fuorché uno sportivo) che immettevano sulle macerie della Terra Vecchia, dove subito salutò l'amico Orlando "re Scuarpariéglie", mentre questo perdeva tempo sull'uscio di casa, a tre metri dai detriti bellici.
– Ué, er Nicò, addò vieà?
– Aja ì 'ccattà dù cengiùne. Ze vedéme chiù dòpe.
– Quand'arvié caccia la fonovaligia, accuscì ze sendéme ne po' de mùseca.
– Vabbuó, mó famm'ì... ca sennó mamma ze 'nguastìsce.
Il ragazzo si diresse verso la piazza e, schivo come sempre per via di una eccentrica vertigine ai capelli sulla tempia sinistra, evitò gli sguardi dei tanti anziani accoccolati al sole di giugno, alcuni dei quali, forse rimbambiti da quella sfera cocente, gli rivolgevano spesso la stessa domanda:
– Uaglió, a cu appartié?
Imboccato il Corso, il giovincello giunse finalmente dinanzi alla porta dell'emporio, che ovviamente era sempre aperta. Entrò ma non c'era nessuno. Decise così di avvertire il proprietario della sua presenza. Caspita... non ricordava il nome... niente: non gli sovveniva in alcun modo. Alla fine optò per la soluzione più semplice, quella di chiamarlo col soprannome, come faceva sua madre, come facevano tutti in paese:
– Quattruó... Quattruó... càla!
Dal piano superiore il vecchio rispose in tono pacifico:
– N'avé paura, uaglió, ca mó càle!
Effettivamente Nicolino "Quattruócchie", dopo una manciata di secondi, scese le scale interne e, senza salutare il ragazzino, andò dritto alla porta, la chiuse da dentro e prese una parròcca che stava appoggiata tra lo stipite e il muro. Nonostante l'avesse fatto in buona fede, il giovane avètte ne biéglie paliatóne, giacché si era permesso di insultare una persona più anziana con quell'appellativo canzonatorio del "quattrocchi".
Nicola imparò talmente bene la lezione che a noi figli l'ha sempre raccontata col sorriso sulle labbra, senza ombra di rancore alcuno.
Francesco Mendozzi