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Nonno Peppe e il caso Fenaroli


Giuseppe Mendozzi
Giuseppe Mendozzi (1921-1991).

Nonno Peppe era un pastore di tratturo. Lo è stato fino al 1959, data dell'ultima transumanza da Capracotta a Palmori, frazione di Lucera, in provincia di Foggia. Nonno Peppe è morto quando avevo sette anni, per cui i miei ricordi con lui sono tutti legati alle carezze che m'ha dato, ai giochi che facevamo insieme, alle coppette di gelato che mi comprava allo Sci Club, a quando lo andavo a chiamare all'orto perché il pranzo era pronto, al momento in cui l'ho baciato sul letto di morte. Nonno Peppe non mi ha mai parlato di pecore, di tratturi, di stazzi, di capanne mobili, di salature di cacio - attività in cui era molto bravo -, insomma non mi ha mai messo al corrente della vita agra e memorabile che conducevano i pastori transumanti di Capracotta. Tutto quel che so sui tratturi di nonno Peppe mi proviene dai racconti di mio padre e di chi l'ha conosciuto meglio di me. Uno di questi è Giuseppe Paglione, detto Peppìne 'r Tedésche, classe 1945, che con nonno Peppe ha fatto l'ultima transumanza, quella del 1959.

Peppino era infatti un ragazzino di quattordici anni quando, al fianco dei nostri pastori, è partito da Capracotta alla volta della Puglia. Immagino che agli occhi di un uaglióne il primo tratturo sia apparso un'esperienza avventurosa, un'indelebile e rocambolesca gita - di lavoro, non di piacere - che gli ha dato modo di vedere luoghi nuovi e insoliti, di imparare il mestiere e di rubare storie, aneddoti, segreti a quei pastori che erano un gruppo sociale definito, il più nutrito di Capracotta, ben distinto da tutti gli altri.

In una delle nostre chiacchierate alla Fonte della Gallina, Peppino ha ricordato un episodio legato a mio nonno e a quella transumanza del '59, un aneddoto oggettivamente banale ma che per me che sono il nipote di quell'omaccione bello e buonissimo è quantomai rilevante. Nonno Peppe, durante il periodo transumante, aveva con sé un giornale, che a furia di leggere aveva consunto: la notizia che più lo attraeva era quella legata al caso Fenaroli, conosciuto anche col nome di "mistero di via Monaci". Si tratta forse del primo affaire giudiziario ad aver segnato l'immaginario nazional-popolare.

Il caso seguiva l'omicidio commesso il 10 settembre 1958 a Roma in un appartamento di via Ernesto Monaci 21, nel quartiere Nomentano. Il fatto ebbe una vasta eco mediatica, tanto che oltre 20.000 persone attesero per una notte intera fuori al tribunale il pronunciamento della sentenza, segnando profondamente la società italiana dell'epoca. Il caso Fenaroli incollò gli occhi di milioni di italiani alle pagine dei giornali e agli schermi televisivi, e non poteva essere altrimenti: una donna della buona borghesia, moglie di un industriale del Nord, strangolata nella propria abitazione; l'assassino che lascia l'appartamento chiudendo la porta a chiave; le indagini che puntano proprio al marito della donna, Giovanni Fenaroli, sostenendo una ricostruzione dell'omicidio degna di una spy story, con tanto di mandante diabolico ed esecutore ingenuo, con un alibi congegnato al millimetro e il più classico e freddo dei moventi: la sete di denaro. E con un finale a sorpresa, giunto 36 anni dopo la morte della vittima.

Non riesco a immaginarmelo nonno Peppe che si appassiona a un caso giudiziario, mentre, con la parròcca, conduce le pecore in Puglia sotto uno scroscio improvviso di pioggia. E quel rotocalco dalle pagine gialle, custodito assieme al tabacco nella cassetta del pastore, arrotolato nell'attesa di esser letto da un pecoraio rispettoso, umile, buono come nonno Peppe...


Francesco Mendozzi

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