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La notte di San Silvestro


Carnevale Capracotta
Capracottesi in maschera per il Carnevale del 1949.

In alcuni luoghi della mia Terra si usa mattinar l'anno nuovo. La modernità con il suo spirito dissolvitore cerca di far scomparire la bella usanza che permane anche in alcuni paesi della Capitanata. È senza dubbio un avanzo della cerimonia solenne che i Romani compivano il primo giorno dell'anno, per propiziarsi gli dei dai quali aspettavano la promessa d'un ricco raccolto.

Così da noi, quando l'anno agonizza, non si rimpiange o maledice il passato, né si guarda timorosi il futuro, ma si gira di soglia in soglia per la maitenata (mattinata).

Le caratteristiche manifestazioni popolari della notte di S. Silvestro sono un tipico riflesso di consuetudini domestiche e la nostra gente, da Riccia a Capracotta, ne sente la significativa poesia.

I cantori, che ànno un po' del poeta - perché musica e poesia sono sempre per il popolo due cose belle in una -, fin dalle prime ore pomeridiane del 31 Dicembre se ne vanno di casa in casa. Lì, dinanzi agli usci, oppure nei cortili, accompagnandosi alla voce affannata d'un organetto o al suono rauco e uniforme dei bufi, scitavajasse, tricabballà, a cui si accoppiano altri strumenti, snocciolano giù alla brava e con una certa enfasi un recitativo di frasi augurali. Per ognuno, dal capo della famiglia fino alla domestica, c'è l'omaggio di versetti improvvisati dal corifeo. A volte l'augurio, per l'arguzia nativa di qualche motteggiatore, si cambia in improperio salace e frizzante.

Sostenuto da note semplici la melopea si scioglie:


Quante me pare bella questa casa,

pare che so' 'rrevate 'mparavise;

so' mo 'rrevate e tutte ve salute,

cumme salute l'Angel'a Maria:

bon capedanne a tutt'a Signuria.


L'augurio più altisonante è riservato a un ricco proprietario:


Mo so' 'rrevate a stu palazze sante,

sante da u cornecione a u pedamente;

palazze d'oro e de cannune armate;

i femmene dajentre sonne fate,

l'òmmene sonne principe e barune,

e bone capedanne a lor Signuri.


Se vi abita un prete, gli si rivolge il seguente saluto:


Bonnì, bon anne, sante saciardote,

che quella bella messa celebrate,

pe refrescà quill'àneme devote,

che stanne dint' 'u foco abbandunate.

Pe vuj da u cele scenne Gesù Criste

pe spenzà i grazie seje a bone e a triste.

Vuj ve ne stete sempe vigilante,

quanne ve chiamene i campane sante;

currete a chiesia cu piacere e rise,

cumme s'isseve dint'u Paravise;

currete a chiesia capecote l'anne,

ve lasse lu bonnì de capedanne.


Se la famiglia veglia raccolta intorno al focolare, gli usci si schiudono con la cordialità di chi abbraccia un amico. La luce che balza dalla porta spalancata incide sullo sfondo della strada, immersa nell'ombra densa, il pittoresco gruppo dei canterini.

Mentre il canto si va spiegando, attorno ai cantori, si fa sempre più numeroso l'uditorio e c'è per tutti un po' di musica e di festa. Quello che porta la fisarmonica, data un'eloquente strizzatina d'occhio ai compagnoni, cambia improvvisamente ritmo, mentre uno dei colleghi attacca:


Eccuci all'anne novo.

A u principio d'anne

dacci l'afferta,

l'afferta d'u core

che è afferta d'amore.


A Capracotta si canta invece così:


Buon'inne e buon'anne

è menute Capedanne;

è menute l'anne nuove;

Die te guoàrda vacche e vuove.

'Ncicce e 'ncicce

damme nu poche de salciccia;

nen me ne dà tanta poche

ca ze struie pe ru foche,

ma na cose iustamente

Sant'Antuone ze cuntenta;

ca se la casa perze à l'use,

l'anne che vè

pozza sta chiusa.


Allora qualcuno della casa ove si è cantato, ubbidiente alla perorazione, si avvicina con il volto sorridente verso i rapsodi e offre loro un bicchiere di vino, di quello buono, e i rituali sciusci (frutta secche e fritture), ghiottoneria di occasione.

Scambiati gioiosamente gli auguri, i musici se ne vanno per fermarsi a un'altra porta. Nelle case visitate così dalla Poesia c'è come un nuovo sorriso e una luce più serena. Le case, le vie scoscese dei borghi, quelle remote e buie delle campagne e dei boschi risuonano di musiche. I buoni rapsodi cantano felici per annunziare a quest'umanità che soffre e spera l'aurora dell'anno nuovo.

A Campobasso, a mezzanotte, la campana di S. Giorgio dà i rintocchi d'uso; si recitano le preghiere propiziatrici, mentre sul focolare si leva il voto augurale.

In certi paesi molisani si dà il bacio della concordia e, a quel suono, si ricompie l'antico rito di amore e di pace, come promessa di vita per il nuovo anno.

Vino buono e vecchio si mesce nelle case rurali, mentre, con un uso non nostro, nelle famiglie borghesi, si alza la coppa dello champagne.

Intanto i canterini, dopo aver girato l'intero paese, verso l'aurora si recano in vista del camposanto, per mattinar l'anno nuovo ai poveri morti:


Sta maitenata a faceme ai morte,

lloche eme da minì, ce aveme torte.


A mattino inoltrato di Capodanno, sonando i medesimi strumenti, i cantori ritornano innanzi alle modeste casette per ricevere una generosa mancia in natura o in denaro, per l'omaggio recato ai padroni e alle loro famiglie. La tradizione non permette di rifiutare i doni, mentre il ritornello nella tipica cadenza si ripete tra la più esuberante giovialità.


Salvatore Moffa

 

Fonte: S. Moffa, La notte di S. Silvestro, in «Molise Nuovo», XVI:1-2, Napoli, gennaio-giugno 1938.

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