Il mio racconto è una piccola testimonianza; sicuramente una storia minima di quello che accadde negli anni terribili e successivi della Seconda guerra mondiale.
Sono nato nell'anno 1940, durante il quale l'Italia, a fianco della Germania, dichiarò guerra alla Francia e all'Inghilterra ed entrò nel conflitto mondiale.
Sostenere che la guerra non abbia influito sui nostri percorsi di vita, non è possibile. Con la fine della guerra, i cannoni si spensero, ma le ferite sono rimaste e per alcuni la guerra non è mai finita. Sono trascorsi molti anni e i ricordi della mia infanzia sono ancora nella mia memoria.
Feci il mio primo viaggio alla fine dell'anno 1945, su un traìne (carro), per andare in Puglia nella città di San Severo dove si trovavano i nonni paterni e parte della famiglia. Il viaggio durò quattro giorni. Di notte si dormiva nelle cosiddette taverne che erano delle località prestabilite per la sosta di persone ed animali. Lo zio Angelo, il fratello maggiore di papà, guidava il carro. Poi, per la notte, lo zio preparava un piccolo giaciglio sotto le stanghe del carro, dove potevo dormire vicino a lui.
A San Severo frequentai le prime due classi delle elementari. Mi guidava nella lettura la nonna Peppinella.
– Lorenzo, – mi richiamava – porta il segno con il dito –, mentre era intenta a liberare le sue calze dalle pulci. C'erano, infatti, molte pulci nell'ambiente ed era necessario fare con frequenza il bagno in una tinozza.
La nonna era maestosa ed imponente nelle sue lunghe gonne, con i capelli leggermente ondulati raccolti sulla nuca. A tavola, per il pranzo, dove ero seduto tra la medesima ed il nonno Leonardo, distribuiva le porzioni della carne: «Questa a Lunàrde (Leonardo)», il nonno, «quest'altra ad Angelo», il figlio maggiore. E così di seguito, secondo l'età degli altri componenti della famiglia. La forchetta passava sopra il mio piatto e i miei occhi la seguivano, ma non si posava, se non alla fine, con una piccola porzione di carne.
La stessa nonna, per tutto il mese di maggio, alle ore cinque del mattino, mi sollecitava a seguirla:
– Lorenzo, alzati che dobbiamo andare alla messa alla chiesa di S. Antonio.
Dopo il secondo anno delle scuole elementari tornai a Capracotta, perché la mamma mi volle con sé insieme agli altri due figli Pina e Michelino. Diceva, con una espressione poco elegante ma piena di orgoglio:
– Dove mangiamo in tre, possiamo mangiare anche in quattro – per giustificare la decisione di aver voluto a Capracotta, presso di sé, i tre figli.
Completai il ciclo della scuola elementare con il maestro Romeo. Insegnante molto bravo quanto severo. Spesso eravamo impreparati, e questo accadeva soprattutto durante la stagione invernale; come risposta ordinava a tutti di portare gli sci a scuola, che altro non erano che due pezzi di legno di faggio stagionato con la punta un poco rialzata, i quali andavano ad alimentare la stufa dell'aula di classe.
In aggiunta c'era poi la punizione con la "spalmata": una striscia di legno, sempre di faggio, ben levigata che veniva data sul palmo della mano per cinque, dieci, venti volte secondo la gravità dell'errore. Rimasero famose quelle che prese Eutimio, il quale, da vero sannita, non cedette mai, neanche ad un pur piccolo lamento, lasciando insoddisfatto il maestro. Non solo, ma Eutimio aveva anche l'abilità di evitare il colpo della spalmata che invece andava a colpire dolorosamente la gamba del maestro.
Al maestro Romeo piaceva suonare la fisarmonica e spesso ci faceva cantare "Il Piave mormorò, non passa lo straniero", accompagnando la celebre canzone patriottica con le note del suo strumento musicale. In quella classe mi fu compagno di banco il buon Celeste Curdìsche. Il maestro Romeo lasciò il nostro paese perché vinse il concorso da direttore didattico per la sede della città di Teramo.
Alla mamma cercavamo di dare fastidio il meno possibile. Il nostro tempo era occupato, oltre che dagli obblighi scolastici, essenzialmente dai giuochi di piazza che erano diversi per ogni stagione.
A primavera si incominciava con zompacuavàglie. Si andava a scuola al mattino prima dell'orario dell'entrata e, appoggiate le cartelle a terra, si componevano le squadre. Quelle più adeguate per il gioco erano composte di tre ragazzi ognuna. Si tirava alla conta e la squadra che usciva a sorte si disponeva in fila a mo' di schiena di cavallo. I componenti dell'altra squadra, con una lunga rincorsa, saltavano cercando di restare in equilibrio. La prova terminava quando qualcuno di quelli che stava sotto, per l'eccessivo peso cedeva oppure qualcuno di quelli che stava sopra perdeva l'equilibrio e cadeva giù.
Con la chiusura della suola iniziavano altri giochi; tra essi quello che maggiormente ci teneva impegnati era il calcio. Interi pomeriggi si restava al campo sportivo, pur essendo lo stesso pieno di buche e di "pizze" di cacca di vacche che vi pascolavano liberamente. Tra i giochi di strada, cosiddetti minori, pur sempre divertenti, ricordo quelli a peschìtte, una forma semplificata del baseball americano, dove la palla veniva sostituita dal peschìtte, che era un pezzo di legno da colpire con una mazza; a "bottoni"; a nascondino, tra le mete di grano durante la trebbiatura; alla "voga". I giochi poi venivano intervallati con le scorribande tra i cespugli della Guardata per la ricerca dei ravascìne (uva spina) e per la raccolta delle peràzze (perastre) giù alla Difesa.
Il mese di giugno poi era il più atteso perché portava le prime feste religiose: sant'Antonio e san Giovanni. Quella di san Giovanni era la più ricca di avvenimenti. Per tutta la giornata si poteva visitare la fiera degli animali, che si svolgeva lungo il costone dove attualmente è ubicato il serbatoio dell'acqua. Dopo pranzo si organizzavano le corse dei cavalli e degli asini: i primi partivano dal Ponte di Ferro e i secondi dalla fonte del Cummunìce. Quella degli asini era la più divertente ed allegra. Tommaso, il figlio di Incoronato il bastaio, poneva sotto la coda del suo asino un grosso cardo per sollecitarlo a correre. I giochi si concludevano con lo scivoloso albero della cuccagna tra gli applausi per chi era riuscito ad afferrare il prosciutto posto alla sommità del palo.
La mamma, frattanto, aveva ottenuto la concessione governativa per la rivendita di sale e tabacchi, con la quale, insieme alla modesta pensione di vedova di guerra, cercò di crescere la famiglia. Non so dire se eravamo sotto o sopra la linea della povertà. Ma la miseria, per così dire, non pesava, per il semplice motivo che non sapevamo che cosa fosse la ricchezza o il benessere. La guerra ormai era alle nostre spalle e la ricostruzione del paese era cominciata ed andava avanti con molti sacrifici della popolazione. L'attività principale degli abitanti era l'agricoltura. Il prato della Guardata era pieno di animali che pascolavano: vacche, cavalli, muli, capre, asini.
La nostra famiglia non esercitava l'attività agricola, ma commerciava il carbone. I pochi terreni che possedeva erano di difficile coltivazione. La mamma cercò di mettere a coltura qualcuno di essi, ma dopo qualche anno dovette smettere per le eccessive difficoltà che incontrò.
Io, la sorella Pina e il fratello minore Michele avevamo l'incarico di sostituire la mamma presso la rivendita per darle l'opportunità di preparare il pranzo. A dire il vero però, la più impegnata era la sorella, la quale, dopo aver fatto l'esame di ammissione, aveva lasciato la scuola pur avendo delle ottime capacità per lo studio. Quando eravamo alla bottega io, Pina o Michelino, gli amici venivano a farci compagnia; allora il locale diveniva un posto di intrattenimento, di chiacchiere, di ingenui pettegolezzi. Nacquero anche degli amori, alcuni leggeri e transitori, altri duraturi che sono divenuti di vita.
Quanta gente è passata per la bottega, con o senza soldi, perché a molti piaceva fumare. La mamma faceva credito a chi non poteva pagare subito, segnando il debito su un libretto dalla copertina nera, pronto a scomparire quando arrivava voce che in paese era giunta la Guardia di Finanza di Agnone. Vi erano personaggi bizzarri. Il veterinario Turchetti, romagnolo verace di ampia cultura, inveterato fumatore, era uno di questi: entrava e allargava sul bancone un fazzoletto colorato di 50 centimetri per 50 sul quale versava e mescolava i due trinciati di tabacco, quello comune e quello forte, che poi avvolgeva nelle cartine per farne le sigarette da fumare.
La mamma, che ormai tutti chiamavano Nunziatina "la Salarola", a mezzogiorno lasciava il negozio per andare a casa a preparare il pranzo, sempre con la solita raccomandazione:
– Non chiudete, aspettate che passino Achille, il segretario comunale, e Arnaldo, l'esattore.
Questi erano clienti da tenere in massima considerazione, perché assidui fumatori; fra l'altro avevano la fisima di tastare i pacchetti, perché dicevano di gradire le sigarette morbide.
Quando c'era la necessità di andare a fare il pane al forno, nel primo turno della notte, si sentiva la voce di zio Pasqualino il fornaio sotto la finestra della camera da letto:
– Nunziatina, Nunziatina.
– Lorenzo, – mi svegliava la mamma, perché dormivo nella sua camera – sta chiamando Pasqualino, affacciati e digli che vado subito.
Questo succedeva anche quando c'era la bufera di neve ed era possibile vedere zio Pasqualino avvolto in una piccola mantella di panno di lana tirata sulla testa.
Zio Pasqualino era un uomo speciale, garbato e pieno di odore di farina, sempre pronto a dare consigli a tutti. Si vedeva con il vestito della festa soltanto nel giorno di sant'Anna (26 luglio), in onore della quale organizzava ogni anno la festa.
Le chiamate, durante la notte, non erano solo quelle del fornaio. I camionisti Antonio e Peppe Tagliacoccia avevano l'abitudine di partire nelle ore della notte per arrivare a Pescara verso l'alba, scaricare la legna o il carbone e ripartire subito per Capracotta. Spesso accadeva che si trovavano sprovvisti di sigarette e la soluzione immediata era quella di suonare il clacson in direzione della finestra dove sapevano che dormiva la mamma, la quale riconosciuto il segnale, buttava il pacchetto di sigarette dalla finestra, mentre Antonio la rassicurava:
– Poi viene Lauretta a portare i soldi. – Lauretta era la moglie.
L'arrivo della neve, annunciato dal volo basso dei passerotti, era sempre un evento felice per noi ragazzi. Nei giorni di forte bufera non si andava a scuola e si restava in casa con il naso appiccicato al vetro della finestra. Il pensiero correva ai giorni successivi quando, cessata la bufera, si poteva andare a sciare.
Durante il periodo invernale, la mamma si alzava verso le ore sei del mattino per preparare il fuoco da cui ricavare la brace che doveva alimentare il braciere del negozio. Quando c'era la bufera, che accadeva spesso, trovava la porta del negozio ostruita dalla neve. Allora si fasciava la testa con la sciarpa di lana nera, per evitare che il vento la portasse via, e con la pala che le prestava zio Enrico il calzolaio, faceva il passaggio per entrare.
Il primo a presentarsi alla bottega era Antonio Codì.
– Nunziatina, – esordiva – dammi una sigaretta –, che all'epoca si potevano vendere anche sfuse – e non la segnare perché mi ricordo io.
Ne fumava più di una al giorno, ma sempre una alla volta ne prendeva e le pagava qualche giorno dopo. Non è mai accaduto di aver omesso dal conto qualcuna quando decideva di pagare. Fu una persona onesta.
Comunque, per la mamma non erano quelle le giornate peggiori. Il giorno più triste ed angosciante era quello della commemorazione dei defunti; ella non andava al cimitero come tutti facevano, ma restava a casa che riempiva di ceri accesi; e saliva e scendeva le scale in continuazione con evidente agitazione. Non trovò mai il sereno distacco dal ricordo degli avvenimenti che l'avevano coinvolta da quel triste anno 1945, nel quale le fu comunicata la morte di nostro padre. Il suo pensiero andava sempre a lui per non aver avuto una civile sepoltura e a noi figli per non averlo mai conosciuto. Durante il periodo della nostra prima infanzia, nostro padre fu sempre impegnato per esigenze militari prima in Albania, poi in Grecia, dove fatto prigioniero dai tedeschi nell'anno 1943, fu portato in Germania. Nel mese di marzo dell'anno 1945, con un barbaro pretesto, fu ucciso, insieme ad altri internati militari, dalla furia omicida nazista, nella città di Hildesheim, nel cui cimitero furono sepolti in una fossa comune, senza nomi ma con la semplice indicazione "208 sconosciuti".
Questa è l'eredità che abbiamo ricevuto dalla guerra: un ricordo che si rigenera e mai si annulla.
La mamma visse con l'animo perennemente addolorato, triste, chiuso al sorriso, ma non disperato. Fu donna di fede e di preghiera; la sera recitava il rosario e ogni venerdì della settimana, sul camino di casa, accendeva una lampada votiva per i defunti: un bicchiere a forma di calice, pieno di acqua per oltre la metà e per il resto di olio, sul quale poneva lo stoppino che bruciava, fissato su un pezzetto di sughero.
La mamma, Nunziatina "la Salarola", morì all'età di 77 anni in un ospedale di città; ci fu detto che durante la notte, nell'ultimo tratto della sua esistenza, le fece compagnia un frate cappuccino, recitando il rosario.
Ciao mamma.
Lorenzo Potena
Fonte: L. Potena, Nunziatina la Salarola, in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. IV, Proforma, Isernia 2013.