Capracotta è un paese situato a 1.421 m. sul livello del mare ed è il più alto comune dell'Italia appenninica.
Poiché sono sicura che anche l'eventuale lettore di questo libro avrà, come tanti altri, la curiosità di sapere l'origine del nome, dirò che la leggenda popolare narra che alcuni zingari, avendo deciso di fondare una cittadina, per compiere un rito in uso presso di loro, bruciarono una capra, che riuscì a fuggire dal rogo e si rifugiò sui monti, ove stremata di forze, esalò l'ultimo respiro.
Gli zingari costruirono, dove essa si era fermata, la chiesa parrocchiale intorno a cui sorse il paese.
Invece sembra che il nome derivi dal latino: castra cocta, ossia accampamento protetto da un ager coctus, che era un muro di cinta fatto di mattoni. Non è da escludere infatti, che un distaccamento romano stesse di stanza in quelle alture per utilizzare le possibilità strategiche della località, che domina la vallata del Sangro fino al mare.
Non mancano tesi che fanno risalire il significato dello stemma comunale, raffigurante una capra che fugge da una pira, alla prova del fuoco in uso presso i Longobardi, che avrebbero fondata la cittadina.
Ma a questo punto penso che il lettore si sia già annoiato delle mie disquisizioni di sapore arcaico. In generale chi domanda il perché di quel nome, vuol solo trovare un po' di umorismo nella spiegazione e perciò si distrae appena il racconto prende una piega seria.
Il capracottese ha un carattere sui generis: si presenta bene anche se è un contadino. Gli artigiani, poi, sembrano professionisti: infatti si esprimono in buon italiano e sono impeccabili nel vestire. Fino a qualche decennio fa non vi era distinzione fra artigiani e contadini come negli altri centri del Molise, ma spesso le donne delle famiglie artigiane, con disinvoltura, praticavano i lavori campestri. Tra i miei antenati non vi è, per quanto ho potuto sapere, nessun bifolco e pertanto io spiego la mia mania di fare la giardiniera e di non disdegnare la zappa, come conseguenza di un flusso di sangue di quel popolo, che circola ancora nelle mie arterie.
Bonifacio VIII soleva dire che i Fiorentini costituivano il quinto elemento della terra, perché erano sparsi dappertutto e noi dovremmo affermare che i Capracottesi ne sono il sesto, perché emigrano facilmente a causa delle modeste risorse economiche del paese. Essi sono fattivi ed intraprendenti e si adattano a fare qualunque mestiere. Si dice addirittura che Cristoforo Colombo ne trovasse qualcuno in America, quando vi sbarcò. Di qui è venuto forse l'appellativo: «zingari di Capracotta» da cui è nata poi la leggenda della fondazione del paese.
Capracotta resta una delle cittadine più caratteristiche d'Italia per le abbondanti nevicate. Un antico adagio dialettale dice:
Giovedì cumènza,
venerdì con la tridenza,
sabato senza fine
e domenica mattina.
Se dura fino alla messa,
tutta la settimana con essa.
La tormenta a Capracotta offre uno spettacolo meraviglioso e terrificante. Rarissimamente la neve discende lenta ed a larghe falde. Il sibilo della bora, che irrompe dalle falde di Monte Campo, investe le strade con un turbinio spaventoso ed irresistibile. Nei punti dove si forma il mulinello, la neve si arrampica volteggiando in monticciuoli aguzzi e ghiacciati. Si nota all'imbocco del paese una larga zona spazzata che potrebbe sembrare un'oasi privilegiata di pace, quasi la sede della natura, che ivi siede per manovrare l'opera dei venti nella costruzione del fantastico panorama. E invece quello è il posto ove si scatena con l'impeto più travolgente la furia della tormenta, a cui si unisce talvolta, cupo e disperato, l'ululato del lupo proveniente dai campi, e la neve, battuta e percossa, atterrita, fugge lontano per ripararsi a ridosso delle vecchie case.
Nei giorni di bufera la vita si arresta e la massaia deve sciogliere la neve per ricavarne acqua, poiché i rubinetti si gelano e spesso le tubature si rompono per la forza dilatatrice del ghiaccio. I portoni diventano inservibili perché la neve li ricopre e i pochi cittadini che hanno l'ardire di affrontare il maltempo, spesso devono uscire dalle finestre e misurare bene le forze dei propri polmoni prima di affrontare l'impeto e la sferza del pulviscolo che mozza il respiro.
L'inesperto forestiero, che in quei giorni si avventura a Capracotta dallo scalo di S. Pietro Avellana, facilmente vi trova la morte, come accadde ad un giovane dell'Aeronautica diretto al nostro osservatorio meteorologico. Sceso dal treno, chiese a mia sorella Matilde, che giocava con alcune compagne, la strada per andare in paese.
– Non è il caso di andarvi ora ed a piedi. Fiocca ed è molto pericoloso, – disse la ragazza, che aveva sentito storie terrificanti di uomini rimasti mummificati dal gelo o lasciati a brandelli dai lupi.
La neve scendeva giù pigra e solo a tratti seguiva brevi giri di danza, come una sirena stanca del suo canto pieno di malie.
Ma il giovane, facendo l'atto di coprirsi il volto con la sciarpetta, rispose:
– Eh! che coraggiosi siete voi qui.
Lo ritrovarono dopo tre giorni nei pressi delle masserie di Agnone, senza scarpe, bocconi per terra, in posa di chi dorme un sonno profondo.
Quando, però, da S. Pietro si riesce a comunicare ai Capracottesi che qualcuno si è messo in viaggio, allora il popolo offre uno spettacolo commovente di solidarietà umana. I sacrestani si affrettano a suonare le campane per indicare allo sperduto la direzione del paese. I rintocchi, in quei casi, portano nell'animo di chi se ne sta rincantucciato accanto al camino un senso pauroso di morte e di gelide sofferenze. I più forti escono in massa dal paese e, quasi sempre, riescono a salvare il malcapitato, che viene accolto in un letto caldo delle prime case.
Talvolta, però, la bufera sorprende a metà strada anche il capracottese, come avvenne ai due coniugi soprannominati: "Zimpa", che tornavano dalle masserie di Guastra. La moglie non resse all'impeto della tormenta ed il marito se la caricò a spalle e la portò per un tratto, finché, a pochi passi dal paese, nei pressi del cimitero, non ebbe più la forza di proseguire e si schiantò a terra col grave fardello, spettacolo pietoso di amore e di coraggio, che commosse la stampa dell'epoca. Ma il caso straordinario e paradossale si ebbe alcuni anni fa, quando furono mandati a soccorso delle popolazioni bloccate elicotteri ed alpini. Questi ultimi riuscirono a salvarsi per l'intervento dei Capracottesi, che uscirono in massa dietro i rintocchi delle campane.
Un tempo era molto progredita la pastorizia. Dopo la transumanza invernale i massari ritornavano dalle Puglie seguiti da ricchi greggi e da diversi pastori. Le pecore se ne venivano consumando il loro chilometrico pasto che interrompevano, quando le ombre della notte inducevano i pastori a piantare gli stazzi. All'alba, quasi rifatte dalla rugiada che imbrillantava le lane, riprendevano la via e il belato senza posa, che pareva ripercosso dall'eco dei monti in attesa. Il rientro coincideva con la festa di San Giovanni ed aveva un carattere solenne e simbolico.
La pecora che si pasce nei prati ondulati e nei pendii scoscesi di Capracotta, ha la possibilità di brucare erbe che sono privilegio dei pascoli di alta montagna e può offrire un latte ricco di sostante nutritive e di sapore speciale. Perciò fino a qualche decennio fa, erano rinomate le caratteristiche ricottine, alte e sottili, dal sapore tenue e profumato, le grandi trecce di pasta di scamorza che da lì si sono diffuse in altri paesi e i mastodontici formaggi. Con la trasformazione dell'agro pugliese, durante il ventennio fascista, la pastorizia decadde e il paese perse una cospicua fonte di benessere.
Papà ci parlava spesso di quei pastori, della loro vita, delle sfide e dei contrasti in rima, con cui riempivano la monotonia delle lunghe serate, forse perché un anno li aveva seguiti in Puglia, in compagnia di una zia, moglie di un massaro, che gli aveva trovato del lavoro presso un falegname di Ripalta. Aveva allora meno di diciotto anni ed il suo cuore era rimasto tra le montagne. Tuttavia lavorava di lena per farsi un gruzzoletto che gli consentisse di portare all'altare la donna corteggiata. Lì conobbe il principe Zaccaglini che aveva commissionato al mastro presso cui lavorava, un discreto numero di capriate per coprire i cascinali nei suoi terreni.
Mio padre capì, cogliendo un loro discorso, che la lunghezza delle travi che avevano a disposizione, non era sufficiente a formare il triangolo adatto alla copertura dei tetti e si permise di suggerire un rimedio che riuscì buono, tanto che tutte le cascine poterono essere coperte utilizzando il legname che era già in bottega.
Il principe, che non aveva figli, invitò spesso il giovincello, facendolo sedere al suo fianco. Avrebbe voluto trattenerlo lì, ma mio padre non desiderava altro che tornare alla sua Capracotta, ora che il gruzzoletto guadagnato gli apriva l'animo a tante speranze.
Elvira Santilli
Fonte: E. Tirone, Oltre la valle, Cappelli, Bologna 1968.