Un paesaggio in crescita offre grandi vantaggi a chi lo usa per difendersi; così insegnano le esperienze della tradizione classica. Ma già al giorno d'oggi nei principali campi di battaglia della guerra mondiale, questa affermazione ha perso validità. Vale solo con limitazioni e su teatri secondari, dove, per esempio, come nella guerriglia, il colpo sparato da un fucile nascosto su una collina ha l'ultima parola. Questo tipo di combattimento predatorio, antiquato e superato, è ancora soggetto a leggi da cui il corso delle grandi battaglie della guerra tecnologica si è da tempo distaccato; infatti, la potenza di fuoco, generata dal fronte compatto e concentrato delle armi pesanti e dal prodigo utilizzo di munizioni, ha tolto al terreno agricolo o non antropizzato il suo valore difensivo. Semplicemente il fuoco di sbarramento e i bombardamenti a tappeto spianano questi fragili scenari naturali. Al contrario nel caso di incertezze, chi attacca, grazie alla superiorità delle sue armi e del suo materiale bellico, rimane padrone del proprio spazio, perché sarà in grado di impedire lo spianamento di alberi, siepi, frutteti, boschetti di castagni o uliveti. Sa come sfruttare ogni possibilità di copertura e mimetizzazione del suo schieramento e della sua preparazione in un paesaggio così variegato. È lui a trarre vantaggio da questo terreno.
Da tali esperienze e conoscenze, la leadership tedesca ha tratto le sue conclusioni relative alla scelta della zona in cui posizionare la linea del fronte attraverso l'Italia. Costringere il nemico, nel caso in cui non volesse rinunciare all'attacco, a colpire in punti dove la battaglia non possa essere decisa solo dalla superiore potenza di fuoco. I pendii rocciosi nudi e le masse montuose disboscate tra il Tirreno e l'Adriatico si ergono senza copertura e il paesaggio non offre riparo. Il difensore può concentrare così il fuoco delle proprie armi. sulle poche valli e strade che solcano questo territorio. Può scavare le postazioni in profondità nella roccia e nei punti dominanti, che non possono essere facilmente distrutti nemmeno da continui attacchi aerei. Di fronte all'artiglieria nemica si ergono le montagne, che in alcuni punti superano i 2.000 metri di quota e offrono al difensore protezione dietro le sue creste e dorsali.
Nonostante la somiglianza di queste montagne calcaree, la vista che si presenta nella zona del fronte appenninico e abruzzese non evoca il ricordo delle formazioni rocciose alpine che si ergono maestose oltre il limite arboreo. La grandiosità della forma primigenia si trova in questa zona d'Italia solamente in rari casi, dove le pareti rocciose emergono dalla corona del bosco autunnale tutt’attorno, caratterizzato dal rosseggiare dei faggi e delle querce, dal viola cupo della vegetazione spoglia, dal velluto verde scuro degli agrifogli. Orograficamente prevalgono invece le enormi dorsali, le forme coniche troncate, mentre le cime, nude, spoglie e prive di vegetazione, giacciono come ossa sbiancate dal sole. Involontariamente, anche senza conoscere la storia della sua desolazione, abbiamo la sensazione di trovarci in mezzo a una montagna devastata e morta, e temiamo di cadere sotto l'incantesimo dell'immobilità di questo paesaggio lunare. Tuttavia, il suo grigio non è morto; è risvegliato dalla luce limpida tipica dell'altitudine e del Mezzogiorno.
Le superfici rocciose illuminate dal sole brillano cangianti, chiare e colorate. La durezza dell'ambiente è addolcita e ammorbidita da ombre profonde e plastiche, il cui profondo blu, dato da un'alternanza tra luce e oscurità, avvolge e leviga gli aspri rilievi. Niente di vivo prospera qui sotto il sole. Non si vede nessuna traccia di vegetazione, ma una cosa la natura concede in abbondanza: «la luce del sole e l'ombra della terra».
Sappiamo che la spogliazione forestale delle montagne fino al fondovalle è opera dello sfruttamento umano. Già nell'antichità iniziò il disboscamento, specialmente quando Roma fu costretta durante le guerre puniche a costruire flotte imponenti. Dove ancora oggi il bosco cresce sui pendii e dove una corona protettiva di foreste ammanta una cima, si può vedere l'effetto benefico nella conservazione dello strato fertile del suolo. Fino a 1.500 metri di quota durante l'ascesa alle montagne, si susseguono le terre rosse di origine carsica appena arate, i pascoli e i prati che si rinverdiscono dopo l'inverno.
Là dove la cima, nuda e priva di vegetazione, precipita verso il basso, i torrenti invernali e primaverili, le cui scanalature sono incise nella roccia come le nervature di una foglia, trascinano tutto il terreno fertile nelle valli e nelle gole. Solo laggiù, nelle depressioni, prospera una vegetazione più rigogliosa, impostata su un terreno alluvionale profondo.
L'aspetto implacabile che suscitano i massicci rotondi e imponenti non corrisponde alla loro struttura rocciosa; infatti, il loro calcare è friabile e lo dimostra l'aspetto frantumato e frastagliato di molte montagne. La popolazione diminuisce dalle pianure costiere a est e a ovest verso l'alto Appennino. Tuttavia, è sorprendente fino a quali altezze inospitali i villaggi di montagna si aggrappano ai ripidi versanti rocciosi. Cercano sempre punti inaccessibili e dominanti, invece di espandersi nella fertile pianura. Una lunga storia di insicurezza politica, guerre reciproche e brigantaggio, contro cui di tanto in tanto i papi cercavano di intervenire nel territorio dello Stato Pontificio, si riflette nella struttura compatta di questi villaggi e paesini di alta quota. Si raggruppano strettamente come castelli, là dove un tempo solo rocce e alture potevano scoraggiare i disturbatori. Visti dal basso, sembrano disegnati segretamente nel profilo naturale della montagna, come immagini illusorie. Come una merlatura scolpita nella pietra, il paesino di Capracotta si snoda lungo la cresta attraversata dalla strada del passo. Solo il bagliore delle finestre alla luce rossa dell'alba rivela improvvisamente un'opera umana, che appare come una crescita di cristalli di roccia opachi, incastrati l'uno nell'altro, là in alto. Altrove, la strada si snoda per chilometri attraverso un'ampia valle alta, incastonata tra due coni di pietra, che nella sua desolazione sembra una coppa vuota sollevata verso la luce. Solo nelle alte brughiere e nelle lande della Scozia si può ritrovare la stessa silenziosa magia.
Durante il viaggio da queste regioni poco sviluppate, conosciute solo in parte come aree sciistiche dai romani, verso ovest, assistiamo all'abbassarsi delle montagne fino alle pianure laziali e campane. Anche il fronte segue questo profilo discendente. Alle quote intermedie, le colture delle valli si estendono ancora sui pendii. In particolare, il tocco argentato degli estesi uliveti si stende sulle alture e sulle depressioni. I motivi delle colline spoglie e prive di foglie coprono la salita. Quando scendiamo sotto i 500 metri, riappaiono le chiome larghe e scure dei pini marittimi. I noci fiancheggiano le strade, i castagni crescono rigogliosi dai ceppi come boschetti o formano fertili frutteti. Ogni pietra è coperta di rovi, gli ultimi ciclamini fioriscono sul ciglio della strada. Le canne erigono muri alti e impenetrabili. Così siamo scesi nell'antico territorio delle pianure fertili e coltivate. Il contadino è sempre stato di casa qui. Tra queste pianure si ergono antiche località come Tibur e Tusculum, tutte residenze di imperatori e generali romani, e ora castelli papali. E su un'altura solitaria si erge l'Abbazia di Monte Cassino, da cui si irradiò l'ordine benedettino. Vedere oggi la guerra totale attraversare questo paesaggio umano e passare attraverso luoghi venerabili, che uno dopo l’altro e senza vantaggi militari cadono vittime del terrore dei bombardieri anglo-americani, è un'esperienza che ci fa dubitare della realtà. Al contrario, il mondo spoglio delle ciclopiche strutture di pietra ci appare come la vera Heimat della guerra. Questo mondo è destinato a essere il teatro del conflitto, e lo scontro tra ferro frantumato e roccia manca dell'assurdità incendiaria, che proviamo di fronte a un cratere di bomba come se fosse la pianta di una chiesa paleocristiana.
Alfred-Ingemar Berndt
(trad. di Luca Ciprari)
Fonte: A. I. Berndt, Die Landschaft des Krieges, in «Deutschland im Kampf», 113-116, Berlin, maggio-giugno 1944.