Alta e chiara è la notte. Il ciel stellato
diffonde una dolcezza luminosa
sovra il borgo natale addormentato,
sovra ogni morta cosa.
Al mite raggio di vaganti spettri
assumon forma i vedovati rami,
e fiorellini gelidi, a ricami,
disegnansi sui vetri.
Come bianco fantasma e mostro immane,
vigila il faggio, inerte, alla montagna;
sull'uscio del pastor più non si lagna,
uggiosamente, il cane.
L'arcana pace sua la notte ha schiusa
sulla terra e del ciel ne' penetrali:
nel ghiaccio l'alma delle cose è chiusa,
nel sonno, de' mortali.
Oh, la tempesta l'animo sgomenta!
Al grigio cielo il faggio erge le braccia:
bórea feroce mugghia e, secca, scaccia
innanzi a sé la foglia e la tormenta.
Taccion l'opre: natura si addormenta
nel greve manto, che ben presto agghiaccia
già del borgo le vie non hanno traccia:
l'orologio, ogni tanto si lamenta.
Ma, più iraconda sugli eccelsi campi
è la tempesta: nubi minacciose
rapidi solcano i sanguigni lampi.
Tra le folgori il tuon mugola forte,
la neve incalza... O voi, madri pietose,
stringete i figli al sen: passa la morte!
A distesa, solenni, le campane
suonan furiosamente in sulla sera;
non è il suono che invita alla preghiera,
non l'annunzio festoso del dimane.
Nota squilla non è che all'opre umane
stanca pia benedice umil sincera:
son voci di dolor nella bufera,
son cupe voci disperate e strane.
Dappertutto un vociare concitato,
un accorrer sospetto, un terror muto,
un timoroso addimandar: – Ch'è stato?
– Ite, grida una donna; Egli è perduto:
dal pian ritorna il Figliuol mio malato,
...E le campane chiamano all'aiuto!
Oreste Conti
Fonte: O. Conti, La poesia popolare capracottese, Frattarolo, Lucera 1908.