Nelle Alpi l'uomo si arrampica e si insedia, in qualche caso, fin sopra i 2.000 m. Si cita, come il villaggio abitato tutto l'anno, più alto di tutta la zona alpina, quello di Juf nei Grigioni, che spinge le sue case fino a 2.135 m.; ma anche nel versante italiano della catena alpina vi sono piccoli villaggi che si avvicinano assai a quell'altitudine: il più elevato è forse Trepalle, una frazione di Livigno (prov. di Sondrio), che arriva a 2.070 m., lasciando indietro, ma appena di qualche decina di metri, i più alti gruppi di case della Valtournanche e di qualche altra valle laterale della Val di Aosta.
Nell'Appennino le abitazioni permanenti sono ben lontane dal raggiungere simili altezze: sono rari i casi di paesi che superino i 1.400 m.; come il paese più elevato di tutta la lunga catena, si ricorda anzi spesso Capracotta nel Molise, che raggiunge 1.420 m. E il grazioso, pittoresco paesetto che si aderge tra il M. Capraro (1.721 m.) e il M. Campo (1.645 m.), le due più alte vette del pianalto di Carovilli, su una collina precipitante a NO verso la valle del Sangro, ha tratto partito di quel primato ed è venuto giustamente in fama come soggiorno estivo: un buon albergo - caso rarissimo nel Molise, più ancora che in Abruzzo - vi ospita i forestieri che non si peritano di salire il fresco pianalto, uno dei più belli del Sannio. Ma di Capracotta e dei suoi dintorni mi propongo di scrivere un'altra volta: il paese ha infatti molteplici attrattive, sì che può rinunziare anche volentieri al primato dell'altitudine. Invero per questo riguardo essa è, o meglio era (i lettori vedranno subito la ragione di questo imperfetto) superata da altri due paesi, Gioia Vecchia nell'Abruzzo vero e proprio, e il Castelluccio di Norcia in un riposto cantone dell'Umbria.
Gioia Vecchia sorgeva sul valico che dal bacino del Fùcino mena nell'alta valle del Sangro, a 1.433 m., lungo una strada che fu certo frequentata sin dall'età antica, quando la regione faceva parte del territorio dei Marsi; e questi, che avevano appunto per centro il Fùcino, ebbero probabilmente una qualche fortezza - o forse un santuario - non lontano da Gioia, forse nella regione ora detta Temple; il valico assicurava infatti per loro il dominio dell'alta Val Sangro, che loro apparteneva fino alla gola di Opi, ove, al posto del villaggio attuale di Opi, doveva sorgere pure un castello marso. Certo Gioia Vecchia era abitata nell'alto medio Evo, perché vien ricordata, con la sua chiesa maggiore, Santa Maria, già in documenti del secolo XII. E in quei secoli oscuri ed assai torbidi per l'Italia centrale, il villaggio di Gioia Vecchia aveva probabilmente parecchi compagni in Abruzzo, annidati su cocuzzoli ripidi, in vista alle valli, per ragion di difesa.
Più tardi, molti di quei villaggi furono abbandonati e caddero in rovina; Gioia invece rimase in piedi, ma una parte dei suoi abitanti scese al piano e diè origine a Manaforno, poi detta Gioia Nuova o Gioia de' Marsi, all'angolo sud-ovest del Fùcino. Si vuole che occasione alla prima migrazione fosse il saccheggio dato al paese da Marco Sciarra nel 1592. Certo molto più tardi una nuova discesa in massa degli abitanti si ebbe nel 1807 in seguito ad un altro feroce episodio di brigantaggio; e da allora, mentre la Nuova Gioia, al basso, in riva al lago, si faceva sempre più popolosa, la vecchia borgata decadeva ognora più e vedeva diminuire il numero dei suoi abitanti, ridotti ormai a pochi pastori tenacemente avvinti al luogo natio.
Negli ultimi decenni tuttavia, dopo il prosciugamento del Fùcino, essendosi la Nuova Gioia arricchita notevolmente per lo sviluppo dell'agricoltura, anche la vecchia si era assai avvantaggiata, avviandosi a divenire quasi un soggiorno estivo per gli abitanti della conca del Fùcino non più ravvivata dalle acque del lago. Le vetuste case di Gioia Vecchia eran state restaurate, anzi intorno alla chiesa madre, elegante nella sua architettura seicentesca, si affollava un gruppo di edifici che potevano quasi dirsi palazzi: il paese appariva bianco, lindo, gaio, nella chiostra severa dei monti brulli, al viaggiatore che faticosamente risaliva dal Fùcino la bella strada sangritana distesa in innumeri risvolti; si restava quasi maravigliati di trovare a tanta altezza una borgata di così bell'aspetto, quasi pretenziosa.
Sopravvenne il terremoto marsicano del dicembre 1915 e della povera Gioia Vecchia, come della più recente Gioia de' Marsi sul Fùcino, non rimase che un ammasso quasi irriconoscibile di macerie. Ora la Gioia bassa risorge e vede già allinearsi in lunghe serie parallele le sue casette asismiche; Gioia Vecchia ospita ancora fra le sue rovine qualche famiglia nei mesi estivi, ma d'inverno non è più abitata se non occasionalmente: come villaggio permanente credo non risorgerà più.
Il primato per altitudine fra tutti i paesi dell'Italia appenninica spetta oggi al Castelluccio di Norcia, il quale del resto, con le sue case più elevate, superava già di una ventina di metri (e anche venti metri contano in questi record di altezza!) Gioia Vecchia, di oltre trenta Capracotta: la sommità del cocuzzolo ove è appollaiato il Castelluccio raggiunge infatti 1.453 metri. Singolare villaggio questo, perduto nel cuore di uno dei più aspri ed elevati massicci del nostro Appennino, i Sibillini, a tre ore di faticosa strada mulattiera da Norcia, del quale è frazione, a quattro buone ore di cavallo da Arquata del Tronto, il paese più vicino dell'opposto versante adriatico.
Chi risalga da Norcia, raggiunta la Madonna delle Grazie, donde lo sguardo spazia sul Piano di Santa Scolastica, brulicante di case e di villaggi, deve superare la dorsale dei M. Velica (1.714 m.) e Ventosola (1.719 m.), che si leva ripida e brulla ad oriente di quel piano. Su di essa serpeggia la magnifica strada rotabile da Norcia ad Arquata, ma la mulattiera pel Castelluccio l'abbandona presto per inerpicarsi verso il Ventosola, ad ovest del quale una selletta permette di scendere al Piano Grande.
Il Piano Grande, al quale il Castelluccio deve in sostanza la sua esistenza, uno dei più tipici piani carsici dell'Umbria: lungo, da nord a sud, circa 6 km., largo tre o quattro, alto 1.270-1.300 m., si apre tra la dorsale anzidetta e la principale catena dei Sibillini; interamente chiuso e perciò senza sfogo esterno, in lievissimo declivio da nord a sud, coperto di una coltre alluvionale, smaltisce le acque di pioggia e quelle di fusione delle nevi per mezzo di inghiottitori (sei ne ho visti io due anni or sono) aperti verso l'angolo sud-ovest; nel più grande di essi si perde il fosso detto i Mergari che traversa il piano. Si ritiene - e non è inverosimile - che le acque infiltrantisi nel sottosuolo per mezzo di questi inghiottitori vadano ad alimentare alcune sorgenti sul fianco NE del sottoposto Piano di Santa Scolastica, una delle quali è nota per il suo regime irregolarissimo. Il piano del Castelluccio è in parte messo a fieno, ma sui fianchi, dove comincia il pendìo ospita anche campi di grano e di orzo, che si arrampicano arditamente fino a 1.450 metri! Falciato il fieno al principio dell'estate, serve poi di pascolo a diecine di migliaia di pecore provenienti in gran parte dall'Agro Romano, ed anche a stuoli di cavalli e buoi. Veduto dall'alto il piano è magnifico: il suo fondo livellato, verdissimo, appena interrotto dai punti bianchi di quattro o cinque edifici, e dalle più numerose macchie semoventi delle mandre di pecore, contrasta singolarmente con la dorsale nuda, selvaggia dei Sibillini che si leva ripida, quasi sempre chiazzata di neve anche nell'estate, culminando in fondo nel Vettore arcigno e intollerante, che ha fatto spazzare dal suo inseparabile ospite, il vento, fin la robusta, colossale croce, eretta sulla cima dalla pietà dei fedeli!
A nord, un cucuzzolo, alto 150 metri sul Piano Grande divide questo dal più piccolo Piano Perduto, celebre per la feroce mischia combattutavisi nel 1522 fra quei di Norcia e i confinanti di Visso, divisi per divergenze di confini; sul cocuzzolo si aderge il Castelluccio, con le sue case addossate, serrate, come per difendersi tutte insieme dal più temibile nemico: la neve. I tetti fortemente inclinati, a largo spiovente, le finestre altissime dal suolo e inverosimilmente piccole, come tanti buchi nelle mura robuste e spesse, ci attestano la preoccupazione principale degli abitanti.
E sono circa cinquecento gli abitatori di questo nido montano, che vanta anche una tradizione storica assai antica, come erede di quel fosco Castel de' Sennari, covo di genti randagie e di briganti, che i Nursini distrussero nel 1528. Ma i tranquilli ed ospitali contadini e pastori d'oggi non ricordano le vecchie storie dei tempi andati, quando i Sibillini, circondati di paurose leggende, tenuti quasi fuori del consorzio umano, vedevano i loro gianchi arrossarsi per stragi fratricide fra gli abitanti dei villaggi posti tutto in giro alle falde.
Un tempo il Castelluccio era solo un villaggio estivo: d'inverno gli abitanti scendevano tutti a Norcia, dove occupavano, a quanto si dice, il quartiere più alto, detto Capo la Terra; ma da oltre un secolo questa abitudine è abbandonata anche negli inverni più rigorosi. Moltissimi emigrano bensì coi loro greggi di pecore nella Campagna Romana, ma i pochi che restano - e tra questi l'elemento femminile predomina - sfidano l'isolamento quasi assoluto che la neve crea tutto intorno a loro. Il Castelluccio ha appena tre o quattro mesi di vita. Non di rado sul tardo agosto o al più ai primi di settembre cominciano le nevicate, e il mantello invernale non lascia il paese per sette, talora otto mesi: la neve si accumula altissima, in modo da precludere ogni accesso; gli abitanti sono obbligati perfino a scavare tra casa e casa dei passaggi coperti per poter comunicare fra di loro. Il Piano Grande, sul quale stagnano anche sovente fitte brume è spesso intransitabile, al punto che in passato e talvolta ancora adesso si facevano suonare continuamente, nei giorni più fosci, le campane dell'unica chiesa, affinché qualche viandante sperduto potesse, dietro la guida del suono, trovare scampo in paese. La posta non arriva da Norcia per più settimane, anche per un mese, ogni comunicazione col resto del mondo è interrotta. Il paese più alto dell'Appennino è un'oasi solitaria in mezzo a un invalicabile deserto bianco.
Roberto Almagià
Fonte: R. Almagià, I paesi più elevati dell'Appennino, in «Le Vie d'Italia», XXVII:7, Touring Club Italiano, Roma, luglio 1921.