top of page

Il pane in prestito


La trebbiatura (foto: B. Di Croce).

Una delle più gentili consuetudini paesane spazzate via dalla rapida mutazione dei costumi è quella del pane in prestito.

Sì, una volta nel mio paese si andava per pane in prestito dai parenti o dai vicini di casa. Delegati a questo compito, di norma, erano i ragazzi. La sera se ne incontrava sempre qualcuno per via con il panóne, avvolto in un tovagliolo, sotto il braccio. Si capiva subito che era andato per pane in prestito.

Se lo seguivi con lo sguardo, vedevi che ogni tanto ficcava la mano sotto la salvietta, staccava un po' di crosta e se la cacciava in bocca. Quando arrivava a casa, il pane era tutto sfrangiato sull'orlo, torno torno.

«Un altro po' te lo mangiavi tutto per via!», lo rimbrottava, con voce querula, la madre.

Questa consuetudine, curiosa quanto si vuole, ma ricca di significato umano, era il simbolo di un certo stile di vita comunitaria, di un modo, cioè, di intendere e vivere i rapporti con i propri simili. I vicini, cui ci si rivolgeva quando in casa, per una ragione qualsiasi mancava il pane, erano sentiti quasi come un'estensione della propria famiglia. Lo scambio del pane, prima il prestito e poi la restituzione, esprimeva una forma umanissima di donazione reciproca, frutto di rispettosa e fiduciosa dimestichezza: un farsi onore reciprocamente. Mangiare il pane dei vicini amici, del grano della loro terra, voleva dire anche che si aveva fiducia nelle sane abitudini alimentari di casa loro.

In quei tempi in paese il pane normalmente non si comprava come si fa oggi. Si confezionava con la farina del grano del proprio campo (tutti possedevano qualche terreno) e si cuoceva in casa, se si disponeva di un forno casalingo, al forno del rione in caso contrario.

Di pane allora, come è risaputo, se ne consumava un subisso. I ragazzi, che quasi non conoscevano il companatico, chiedevano solo pane. Ma che sapore aveva quel pane! Nella sua intima fragranza era nascosto, per così dire, anche il companatico. Li vedevi, i bambini, per strada con le tasche dei giacchetti sempre rigonfie di tozzi di pane, che tiravano fuori e mangiucchiavano, nelle pause dei giuochi, a piccole riprese, per paura che finisse presto. Se li scambiavano fra loro come pennini o bottoni. Si faceva perciò presto a vedere il fondo della madia. In attesa di confezionare le nuove pagnotte, via... per pane in prestito.

Capitava talvolta ai piccoli, addetti a questa commissione, di dover picchiare a più di un uscio prima di trovarne.

Ragione di più per una sbocconcellatura a più ampio raggio lungo la strada. Capitava anche di trovare talvolta, dalla vicina, pane fresco di giornata.

Allora c'era speranza di avere in dono un pezzetto di pizza fresca, soffice e fragrante, odorosa ancora di forno. In tale fortunata circostanza c'era speranza che il panóne arrivasse a casa integro, senza sfrangiature.

Quando si doveva fare il pane, la casa si animava, come per una festa, sin dal giorno avanti. C'era da macinare il grano, e allora qualcuno caricava il sacco del frumento sulla carriola e andava al mulino.

Due erano i mulini: il "Mulino vecchio", sotto alla via Nuova, e il "Mulino nuovo", vicino alla cabina elettrica.

I loro gestori, zio Vincenzino Buonanotte e Cosimo, si identificavano così bene coi loro mulini che riusciva difficile immaginarli distinti da essi; e ancora oggi li rivedi, con l'occhio affettuoso del ricordo, al loro posto, nel brusio sonoro delle macine, circonfusi da un alone di candida farina.

Dopo la macinatura, cominciava la stacciatura. Ti svegliava, ancor prima dell'alba, il rumore cadenzato dello staccio che correva su lla madia, e, a quel ticchettio, discreto e gradevole, dopo un po' riprendevi sonno. Poi, d'un tratto, il rumore cessava e vedevi le donne apparire sulla porta con una sfarinatura leggera sul le vesti e sul fazzo lettone che s'erano annodate al capo.

È il momento d'impastare. La massaia, dopo aver fatto nella farina stacciata nella madia un gran buco, vi versa l' acqua, vi mette il lievito, il sale, le patate e dimena con discrezione per amalgamare; impasta e attende che la pasta lieviti. Ecco: la pasta è lievitata. La massaia taglia e fa le pagnotte: al centro ci fa un segno, un occhiello, perché nel forno non vadano confuse. Le cosparge di una spruzzata lieve di farina, poi le colloca l'una accanto all 'altra, in bell 'ordine, sulla mésa, una lunga e capace tavoletta, adatta all'uso, e le copre con una bianca tovaglia. Prende il cercine, se lo mette sul capo, centrandolo, si china e su quello, aiutata da qualcuno di casa, sistema la mésa bene in equilibrio; si rialza e, reggendola forte con una mano, si avvia verso il forno.

Il fornaio si è alzato presto per preparare il forno. Quando la massaia vi giunge, è ormai giorno da un pezzo. Il fornaio ha il viso rubicondo, arrossato dal calore. Ci sono altre donne. Che tepore e che sentore di farina lievitata! Fuori, il maiellese fischia e punge, ma lì dentro si sta bene.

La conversazione si anima, si fa calda, sapida anche, adeguandosi, certo inconsapevolmente, allo stato termico, impregnato di forti effluvi, dell'ambiente. È dal forno che si propalano poi le novità del giorno.

Il fornaio, assicuratosi che il forno è ben caldo, al punto giusto, toglie i residui della legna arsa, spazza accuratamente dentro, e comincia ad introdurvi le pagnotte, servendosi di una pala lunga come un remo.

La massaia indugia fino a quando le sue pagnotte non vengono ingoiate dalla bocca del forno e torna a casa.

Tornerà al forno più tardi, con un canestro, per riprendere il pane.

Affiora adesso un'altra gentile costumanza dei tempi: l'invito all'assaggio del pane fresco: invito che si compiva come un rito.

La portatrice del pane fresco, ancora odoroso di forno, quando, durante il tragitto verso casa, incontrava qualche persona, non importa se parente o semplice conoscente, la invitava ad assaggiare un po' del suo pane.

«Favorisci», diceva con un sorriso gentile. Oltre i convenevoli, era questo un invito sincero, tanto che spesso la portatrice si toglieva dal capo il canestro del pane, lo posava, staccava un lembo di crosta, scegliendolo dall'orlo più rosolato, e lo porgeva cortesemente all'invitato perché lo assaggiasse.

L'invito era rivolto a tutti. Passando diritto, senza farlo, era segno di cattiva educazione, di cui nessuna donna voleva dare prova.

Quante fatiche era costato quel pane! Dura è la terra a quelle altitudini e i frutti che rende non sono abbondanti. Quanto sudore per rimuovere quelle zolle! Ma l'amore per essa, pur così avara, era fortemente radicato nella gente. Un pezzo di terra da coltivare lo avevano tutti e poco importava che esso fosse vicino all'abitato o nell'agro lontano, a un'ora di cammino a piedi.

Durante il lungo inverno, quando il seme dormiva sotto la neve, la gente sognava copiosi raccolti, traendo auspicio dalle abbondanti nevicate. "Sotto la neve, pane": l'antico adagio non era stato mai smentito, dicevano.

A primavera, dopo lo scioglimento delle nevi, quando la campagna cominciava a rinverdire e i primi germogli spuntavano timidamente qua e là, i vecchi sentieri sassosi, che percorrevano il territorio in tutte le direzioni e menavano alle lontane contrade, cominciavano a rianimarsi: iniziavano i primi lavori campestri. C'era da zappettare il grano, poi da seminare le patate, i legumi, gli ortaggi.


So du le cóse che n'iéne paràgge:

la luna de iennàre e re sòle de màgge.


Nelle sere di maggio, così piene d'incanto, mentre sui campi scendevano le prime ombre, si levava improvviso, dolce e malinconico, un canto d'amore: erano le campagnole, che si preparavano al rientro. Lontano rispondeva un altro coro. Datasi così la voce, le donne dei gruppi, cantando a cori alterni, riprendevano, stanche ma liete, la via di casa, recando ciascuna la zappetta sulle spalle e l' involtino dei panni sotto il braccio.

A giugno c'era la fienagione. I robusti falciatori avanzavano curvi nei prati falciando: con una falciata, a semicerchio, rasavano una larga striscia d'erba. Si udiva il sibilo, rapido e ritmato, prodotto dalla lama sugli steli.

Dietro, i falciatori si lasciavano lunghe e ordinate strisce di fieno. Di tanto in tanto sostavano un momento, si tergevano l'abbondante sudore e si attaccavano alla fiasca: di vino, non d'acqua. Il vino, dicevano, asciuga e dà forza. Issavano la grande falce fienaia, dalla parte del manico, e affilavano la lama con la còte.

Dai prati falciati esalava, acuto, l'odore del fieno steso a terra ad asciugare. Poi, una volta asciugato, veniva ammucchiato e la campagna si agghindava di stigli, quei caratteristici mucchi di fieno, simili a pagliai, ma più alti e snelli, da cui emergeva la punta di un palo.

Venivano rimossi prima dell'inverno, quando il fieno si era ben seccato e bisognava riporlo nei fienili.

Il paesaggio, privato degli stigli, immalinconiva.

Ma il pensiero di tutti era rivolto al grano, che ormai aveva accestito. Si temevano le grandinate, il flagello dei campi, che qualche volta purtroppo venivano.

È impresso ancora nella memoria collettiva il ricordo di una violenta grandinata che un anno, prima della mietitura, si rovesciò improvvisamente sulla campagna. Cessato il temporale e tornato il sereno, uomini e donne, oppressi da un'ansia angosciosa, corsero trafelati nei campi. Uno scempio! Le messi, pronte a maturare, giacevano a terra, piegate sugli steli, come se vi fosse passato sopra un rullo compressore. Il raccolto di intere contrade era irrimediabilmente compromesso. I lamenti delle donne riempivano la sera estiva.

Luglio, finalmente! Le messi biondeggiavano ormai mature e la campagna pullulava di gente da mane a sera.

Partivano ai primi chiarori dell'alba i mietitori, diretti alle lontane contrade: li accompagnava qualcuno di famiglia, spesso un ragazzo.

Alla levata del sole rifulgeva, in una ricca gamma di gradazioni, il giallo fulvo della campagna, cosparsa di una miriade di appezzamenti, grandi e piccoli, recintati con muretti di pietra a secco, coperti di rovi. Tutto quel mare d'oro era franto, qua e là, dal verde delle seminagioni di primavera.

Le messi ondeggiavano lievi al vento del mattino.

Quelli di Macchia, di Guastra e dell'Orto Ianiro erano, a detta di tutti, i terreni più redditizi. Le spighe cedevano, piegando il capo, sotto il peso dei grossi chicchi.

Mentre il sole avvampava nel cielo, i mietitori mietevano svelti, curvi, a dorso scoperto, lasciandosi dietro i dorati mannelli, che poi legavano in covoni.

Al ritmo delle falci alzavano lunghi e patetici canti.

Acqua, chiedevano continuamente acqua. I barilotti e le cicine di creta si svuotavano presto. Per rifornirsi, bisognava cercare le fonti campestri, spesso lontane.

Dai terreni delle Cimalte, che erano più a nord e lambivano le fresche faggete di Monte Campo, si scendeva a cercare la Fonte dei Pezzenti o la Fonte del Forno, alle pendici del Colle di San Nicola; oppure si andava per acqua alla masseria di Cennaflora, giù alla Macchia.

Percorrendo la campagna dorata, vedevi spuntare, qua e là, a ridosso dei muretti di recinzione, i vecchi casotti, chiamati impropriamente pagliai, così intimamente assimilati al paesaggio. Erano stati costruiti in tempi remoti, con pietre a secco: avevano un'apertura per l'ingresso e il tetto di lastroni di pietra sovrapposti, che si restringevano gradatamente, a cerchio, fino al colmo.

Servivano per riporvi gli attrezzi agricoli ed anche per riparo in caso di pioggia.

Se ne può ancora vedere qualcuno, mezzo diroccato, nella campagna incolta.

I ragazzi si prestavano a qualche lavoretto, come quello di riunire i covoni. Speravano in cuor loro che venisse giù un po' di pioggia per avere il piacere di correre a ripararsi nei vecchi casotti, ai loro occhi così pieni di mistero. Ma la pioggia non veniva. Ardente splendeva il sole nel cielo sempre terso, di un azzurro intenso, limpido, luminoso.

Si trebbiava. I mietitori erano partiti. Le vie di campagna erano ingombre di asini, giumente e mul i con le "carrucole" legate ai fianchi, ricolme di covoni, se provenivano dai campi mietuti; vuote, se dalle trebbiatrici, installate alle porte del paese, andavano nei campi a caricare.

Le strade interne erano affollate di animali carichi di some di grano nuovo, provenienti dalle trebbiatrici.

Il rombo dei motori e lo scarrucolìo delle pulegge durava fino a notte.

Una gioiosa attività, quasi frenetica, animava il paese. Le donne che avevano già trebbiato, stendevano a terra i grandi teli di canapa e vi spandevano sopra il grano nuovo per farlo asciugare. I bambini erano ingaggiati, per un pugno di albicocche o di prugne, per parare le galline e tenerle lontane. Finite le prugne, non resistevano alla tentazione di ficcarsi in bocca una manciata di chicchi.


Domenico D'Andrea

 

Fonte: D. D'Andrea, Storie capracottese d'altri tempi, D'Andrea, Lainate 1995.

bottom of page