La società pastorale dell'Italia centro-meridionale, sia pure prevalentemente analfabeta, ha praticato forme di alfabetismo, ed ha generato figure di intellettuali pastori. L'apprendimento della lettura e della scrittura poteva avvenire attraverso modalità non ufficiali e non istituzionalizzate, come lo studio autodidatta praticato durante il servizio militare; l'alfabetizzazione poteva invece essere inserita in scuole "interne" alla cultura pastorale: in esse la trasmissione del patrimonio culturale del gruppo, effettuato dai pastori anziani nei confronti dei bambini e dei giovani, comprendeva, almeno in tempi recenti, anche l'apprendimento della lettura e della scrittura. Questo uso è documentato, ad esempio, in Abruzzo (a Pescasseroli, dove il pastore Cesidio Gentile scrive, nei suoi quaderni autobiografici, di aver imparato l'alfabeto «nella capanna dei pastori»). Nel Molise, a Capracotta (Isernia), si hanno notizie di una scuola di pastori, che aveva luogo nel periodo della transumanza invernale in Puglia, e nella quale i giovani apprendevano, tra l'altro, a leggere e a scrivere. La scuola dei pastori sembra essere orientata in una direzione fondamentalmente progressista, di avvicinamento all'italiano corretto e ufficiale:
Perché veramente mio padre e mio zio non sono andati a scuola per niente, e mio nonno aveva imparato alla scuola che gli avevano imparato gli altri pastori, un'alfabeta alla volta; e tanto è vero che mio zio, quando leggeva, trovava a leggere Giacomo, diceva: «GIA gia, CO co, MO mo, Gia-co-mo» diceva tutte queste parole quando leggeva mio zio; mio padre sapeva un po' di più e non le diceva; ma poi quando mio nonno faceva scuola ai figli, quando erano ragazzi, arrivò una sera, e insegnava a mio padre, e diceva che dovevano cambiare la lingua, che si doveva cambiare per imparare; dovevano fare i cambiamenti, ecco; e allora diceva, dice «pa-ne» e mio padre diceva «pa-no» e mio nonno diceva «PA pa, NE ne, pa-ne» e mio padre diceva «pa-no, pa-ne, pa-no». Mio nonno, allora si davano delle botte, prese un pane: e gli fece sentire tante panate, e tante di quelle botte; mio padre cominciò a scappare e come scappava diceva «pa-ne pa-ne»; «e mò pa-ne è, prima ti ho detto tanto tempo pa-ne e era pa-no, mò è pa-ne», e mio padre scappava [intervista a Giacomo Venditti].
Nel periodo della transumanza invernale, comunque, altre nozioni venivano trasmesse dagli adulti ai più giovani, in modo più o meno istituzionale: tra queste, le conoscenze empiriche e scientifiche necessarie all'esplicazione dell'attività pastorale, i miti e le narrazoni relative all'ambiente circostante e alla storia del gruppo. L'insegnamento era probabilmente affidato ai pastori particolarmente esperti in certe attività o conoscenze, come la lavorazione del latte, l'intaglio del legno per la costruzione e decorazione degli oggetti, la conoscenza delle capacità terapeutiche delle erbe, e delle cognizioni astronomiche e astrologiche per la previsione del tempo; l'abilità nel narrare. In Sardegna la scuola pastorale si concretizzava nella coppia mere-theracu, maestro e apprendista, in una forma diretta e esclusiva di insegnamento; nella cultura pastorale appenninica, caratterizzata da una azienda transumante complessa e fortemente organizzata, la trasmissione della cultura ai più giovani avveniva in forme più complesse e collettive.
Il patrimonio culturale dei pastori era d'altra parte estremamente variato e ricco; le conoscenze astronomiche e astrologiche non si basavano, ad esempio, solo sull'osservazione empirica degli astri e del clima, ma si fondavano sulla lettura dei lunari, sia annuali, sia perpetui. Tra questi ultimi molto usato era il Rutilio Benincasa, che conteneva soprattutto informazioni astronomiche, astrologiche, meteorologiche, con spiegazioni figurate delle fasi lunari e delle eclissi; il lunario forniva anche nozioni di aritmetica, di anatomia, di fisiognomica, e dati di storia locale e universale, come l'elenco dei papi - con le profezie relative ai pontefici futuri - e la storia del Regno di Napoli. Tra i pastori, il Rutilio Benincasa era ritenuto, sembra, anche un libro diabolico, non ortodosso rispetto al cattolicesimo ufficiale, probabilmente per i suoi contenuti profetici. Nell'area meridionale il Benincasa era usato, da pastori e contadini, come testo profetico e di consultazione magica; in Calabria, suo luogo di edizione, esso era considerato in ambito popolare una emanazione diretta del demonio: secondo i dati raccolti da Renda alla fine del secolo scorso, il libro aveva le proprietà di evocare e domare gli spiriti, e di fornire a chi lo leggesse la capacità di vedere avvenimenti a distanza o di spostarsi fulmineamente in altri luoghi:
Una popolana di Radicena mi assicurava di avere assistito proprio lei ad un curioso esperimento: col libro alla mano si riuscì a vedere cosa facesse una data persona in Napoli, e poi davvero si trovò che fosse così. Un tale da Zagarise, adesso quasi pazzo, ha una storia intera per qusto benedetto Rutilio. Avuto il libro da uno zio, arricchitosi in grazia di esso, sapeva quanto si macchinava nel paese, sventando delitti e ruberie. Ma poi confessandosi, fu costretto dai Padri a bruciare il libro maledetto in pubblica piazza. Una volta leggendolo si trovò senza saper come sulla cupola di San Pietro in Roma. Alcuni contadini fecero una spedizione da Cosenza a Miglierina, dove speravano di ritrovare il vello d'oro che li avrebbe arricchiti, permettendo loro di impossessarsi dei tesori, custoditi dagli spiriti.
La familiarità che i pastori avevano con l'astronomia e l'astrologia, strumentale alla pratica dell'allevamento e agli spostamenti con il bestiame, contribuiva probabilmente, nei secoli passati, alla loro fama di detentori di poteri magici.
Alcuni pastori praticavano anche letture dei poemi epici del Tasso e dell'Ariosto, di storie cavalleresche come il Guerin Meschino e i Reali di Francia, dei poemi omerici, dell'Eneide e della Divina Commedia, dei romanzi storici; questo fervore di letture - secondo il pastore Francesco Giuliani - toccò il suo culmine tra il 1860 e il 1920 circa, per poi decadere in seguito. Come è noto, i pastori componevano testi poetici orali, per lo più in ottave; non a caso i componimenti a braccio e le gare poetiche, pur essendo comuni nelle società agricole, erano particolarmente diffusi nelle aree pastorali (Sardegna, Lazio, Abruzzo). Alcuni tra i pastori mettevano anche per scritto i testi dei loro componimenti: così i pastori di Leonessa (Rieti), e Cesidio Gentile (1847-1914) di Pescasseroli, che in un suo cenno autobiografico asserisce di aver scritto nella sua vita circa centomila versi. I temi di questa letteratura scritta pastorale, che in alcuni casi veniva stampata, erano assai vari: storie di santi e fondazioni di santuari, raccolte di miti e leggende; storie di briganti, argomenti di storia locale, storie moraleggianti, dialoghi satirici, dialoghi di pastori. Questi scritti, oggi purtroppo quasi totalmente perduti, potrebbero gettare luce, oltre che sui rapporti con la letteratura colta, anche sulle componenti dell'ideologia pastorale, in cui sembra prevalere un atteggiamento etico-filosofico, un orientamento alla riflessione, certamente collegabile alle soste periodiche imposte dell'attività pastorale; sono infatti prevalenti, nei titoli enunciati dal pastore Cesidio Gentile, gli argomenti filosofici e moraleggianti.
La produzione letteraria dei pastori comprende anche diari, anch'essi andati in gran parte perduti, che traevano particolare ispirazione nelle vicende della guerra: così è avvenuto per Francesco Giuliani (1888-1969) di Castel del Monte (Aquila), che ha scritto della Grande Guerra, e per Serafino Di Tanno di Capracotta, che ha scritto dell'ultima guerra e della prigionia in America.
I diari dei pastori, ancora da studiare dal punto di vista letterario, denunciano certamente un intenso rapporto con la scrittura, anch'esso da mettere in relazione con le soste nell'attività pastorale, e con il senso di solitudine che comportano i lunghi periodi passati al pascolo; non a caso il diario di Serafino Di Tanno è stato scritto durante la prigionia, in una situazione di emarginazione e di isolamento, che evidentemente ha favorito l'esercizio della scrittura. Il diario di Francesco Giuliani, secondo Annabella Rossi che lo ha pubblicato, è privo di cancellature, perché, in caso di errore, l'autore preferiva ricopiare l'intero testo piuttosto che guastare l'aspetto della pagina scritta.
Elisabetta Silvestrini
Fonte: E. Silvestrini, Pastori e scrittura, in «La Ricerca Folklorica», III:5, Grafo, Brescia, aprile 1982.