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Per gli antichi sentieri e nei prati


Fossata Grande Capracotta
I prati delle Fossata (foto: F. Mendozzi).

27 agosto. L'antico sentiero che dai prati di Cesa, sopra alle Croci, sale verso le pendici di Monte Campo, si è livellato; in alcuni tratti si distingue appena fra zolle d'erba. Nessuno più lo batte. Il vecchio, sinuoso muro di cinta dei prati, che lo costeggia, è ingrigito e sconnesso, ricoperto a tratti di rovi. Sembra schiacciato sotto il peso di innumeri stagioni. Ma la vetustà è il suo vanto. Sotto a Santa Lucia, il sentiero, come preso da uno scatto d'orgoglio, si rifà bello, si slarga e corre diritto, fra siepi e arbusti.

La chiesetta, tutta linda e odorosa di lavanda o di non so che, con l'impiantito dell'umile sagrato in ordine e i fiori al cancello, si apre ai pochi visitatori. Merito delle cure assidue e attente che le prodiga Gianfilippo, il custode estivo.

La fontanella a ridosso, chioccola lieve versando nella pila un piccolo getto d'acqua fresca e leggera e t'invita a berne una sorsata prima dell'ascesa all'amato monte.

Bella la vista del paese e della sua campagna da mezza costa, sotto i primi spuntoni di roccia. La Guardata, ammantata di verde, più scuro quello della vegetazione, pallido ma brillante quello delle radure inframmesse, si stende come un immenso foulard intessuto di grumi verde scuro, luminescenti, fin su alle propaggini del monte. Dalla Guardata la vista spazia sul paese e sul suo territorio. L'abitato, con le case bianche e gli spioventi dei tetti, rossi e marrone, si serra come a difesa, si compatta formando come una grande zeta. La campagna, lambendo le prime case, si slarga da oriente, a mezzogiorno, a occidente, fino alle falde di Monte Capraro e alla Montagna, cingendo il paese di grandi prati, a quadrilatero, in veste dismessa, delimitati da muri a secco ricoperti in parte da siepi di rovo.

Ricordi? «Abbiamo ripassato le epoche della nostra vita» e vi abbiamo trovato una costante: l'amore per i prati del nostro paese. «Ci siamo tuffati in un'onda verde di ricordi». I prati dell'infanzia, e non solo dell'infanzia, erano assimilati all'esistente, alla vita di ogni giorno: in essi ciascuno di noi ha visto finire parte della propria vita.

Che magnifica corona facevano, i prati, all'abitato: una corona cui poche altre poche cose: i boschi, i monti, l'azzurro profondo del cielo, erano paragonabili. Molti di essi, quelli che lambivano le prime case, sono scomparsi, sacrificati alle necessità ambientali connesse con lo sviluppo: case, laboratori artigianali, strade. La corona non è svanita, ma si è di molto impoverita.

Non fanno più parte, i prati, della quotidianità. Sono stati essi a risentire, per così dire, sulla propria pelle, gli effetti della mutazione epocale.

Rivediamo in una rapida e succinta scansione i tempi dei prati. La prima cosa che ci viene in mente è la fienagione, oggi del tutto dismessa per la cessazione dell'attività zootecnica locale.

Si effondeva per l'aria l'odore acre del fieno falciato di fresco. Da mane a sera i muscoli dei falciatori si tendevano nello sforzo delle grandi falciate. Che giornate.

Si riponevano le falci e la campagna si copriva di "stigli", l'effetto visibile della fienagione, che s'inserivano nel paesaggio facendo tutt’uno con esso in una sorta di osmosi fra natura e lavoro umano. Ecco gli armenti al pascolo alla Guardata, anch'essa con i suoi roveti, i suoi pruneti, i cardi, i massi, le radure, una grande prateria accidentata, riserva naturale e paesaggistica conservatasi fortunatamente indenne. Di essa si dirà qualcos'altro più avanti. Lo scampanio delle mucche al pascolo ti accompagnava ovunque tu andassi fino a sera.

È tornata la buona stagione e sull'erba dei prati vicini alle case rivediamo biancheggiare i panni di bucato stesi al sole ad asciugare. Il bianco dei lenzuoli si accorda per contrasto col verde dell'erba. È tempo di provviste. In fondo ai prati, che si stendono presso gli orti, occhieggia il rosso vivo delle conserve di pomodoro messe ad essiccarsi nelle cassette. I bimbi e le bimbe giocano e scacciano le mosche.

Le trebbiatrici non sono ancora rientrate nei fondachi e già sull'erba dei prati si stendono i grandi teloni col grano nuovo lavato e "capato". Anche qui bimbi che giocano e "parano" le galline.

Ecco i nostri prati.

Sotto casa ce n'era uno proprio bello. Ci aveva visti «nascere, crescere e ardere d'inconsapevolezza». Era il prato di tutti, grandi e piccoli, il prato della "comune", come il somaro di Papaiano, si diceva. Qui i bambini e le bambine imparavano a fare le prime capriole e le donne di San Rocco e della Chiesa sbattevano e piegavano i lenzuoli asciutti sull'erba. Quando l'aratro, rivoltando le zolle per trasformarlo in seminato, lo squassò da cima a fondo, si chiuse un'epoca della nostra vita. A poca distanza ecco il prato dell'arciprete, chiamato pure il prato della macchina vecchia perché durante la trebbiatura vi stazionava, per la trebbia, una delle due macchine del paese.

La trebbiatura! Che spettacolo grandioso si sono persi le nuove generazioni. Poche come questa ti danno la nostalgia del passato. Finita la trebbia e rientrata la macchina nel fondaco, il prato tornava ad essere campo di gioco per i ragazzi.

A primavera i prati di Conti e di Campanelli, a mezzogiorno, e i prati di Cesa, più a monte, a oriente, tutti così aperti al sole, così verdi, così turgidi d'erba, pullulavano di frotte di ragazzi in cerca di ciammarlotti e di selvaggi. Il verde gli si appiccicava addosso, sulle mani, sulla bocca, sui ginocchi.

Ma chi sono quei ragazzi che scendono in fila da San Rocco accompagnati dal tamburare di una tamburella? Sono i ragazzi della colonia che vanno al Tirassegno. Il suo lungo tappeto erboso, che correva tra due filari di acacie fino al Trione, si riempiva d'estate delle grida gioiose dei bimbi che prendevano il sole o giocavano sotto lo sguardo vigile delle assistenti, Ada e Dora. Zio Tanese preparava la refezione e zio Donato, il custode, gli dava una mano. A sera il vecchio Tatuccio rimarrà solo e sarà assorbito dal grande silenzio della notte estiva, lontano dall'abitato e sotto i grandi prati, e vigilerà sulle poche vettovaglie della colonia. Nel bel prato della Madonna, che si adagia ondulato, morbido, a ridosso della chiesa, gruppetti di bambini vanno in cerca di fiori e erbe che poi deporranno ai piedi dell'altare.

Viene il Corpus Domini e le distese della Guardata "protette d'azzurro" risuonano delle voci argentine delle ragazze in cerca di fiori per la festa.

Nei pomeriggi estivi gruppi di ragazzi e anche di giovani si sparpagliano nei prati con le loro merende. Uno dei luoghi preferiti era sotto il Cantone Grosso, sia per la posizione sia per la vicinanza della Fonte Brecciaia. Vi andavano anche famiglie intere a far merenda. Al Tirassegno vecchio, a due passi, andavano i giovani a giocare a bocce o a "palla stenda"’. Al Lago della Vecchia, a Colle Liscio, si andava per vedere le ranocchie. Nel grande prato di Monteforte ammucchiano il fieno che poi verrà ripartito con equità fra gli allevatori.

Spostiamoci a Prato Gentile. Vi sostavano boscaioli, pastori con le greggi, raccoglitori di funghi, gitanti. S'è presa pure lui la sua bella sballottata, ma è sempre il principe dei prati capracottesi. Si corona, nella corroborante aria di alta montagna, di una bellissima faggeta.

A questo punto facciamo un giro, a volo d'uccello, sull'agro del paese e tocchiamo una delle più note contrade che evocano prati e campi tramutatisi, dopo l'abbandono delle campagne, in un disordine di distese incolte, indistinte. E purtuttavia, nel groviglio di erbe e piante selvatiche, qua e là spunta un bel prato verde, un piccolo coltivo, residui delle ultime speranze contadine.

Nei prati di Sotto al Monte, tenuti ancora bene, brucano piccole greggi stanziali. Le praterie della Montagna erano fino a qualche anno fa pascolo esclusivo delle mandre del Gargano condotte da mandriani con pochi scrupoli per le proprietà altrui e per l'ambiente montano; ora d'estate ospitano piccoli ovili.

Le distese erbose dell'Addiaccio di Monte Capraro sono invase dai cardi. Ci si aspetta di vedere branchi di ovini scendere per il Calaturo dei Buoi, ma è solo un sogno. L'antico passaggio per gli armenti che dalla Piana scendeva giù all'Addiaccio e alle sorgenti è ostruito, invaso da viluppi di piante. Dalle alte radure della Piana un largo tracciato s'infilava tra faggi d'alto fusto. Sentivi le foglie secche, accumulatesi a strati, cricchiare sotto i piedi. Seguivi la traccia e t'immettevi nel canalone che procedeva scendendo fra spuntoni di roccia, anfratti e alberi. Un aspro dirupo, a mezza costa, t'induceva a camminare guardingo. Avevi tempo di riflettere e andavi col pensiero alle grandi fatiche dei vecchi bovari che col sole, con la pioggia, col vento, col freddo, conducevano a valle, nelle prime ore del mattino, il bestiame. Venivano dai pascoli alti, diretti all'abbeverata.

Andremmo volentieri a rivisitare le belle radure dell'Acquasantera, del Coppo della Madonna, della Netta di Vallesorda, ma i sentieri che vi menavano si sono cancellati. Dietro alla Crocetta, all'Ospedaletto, sulle ondulate distese erbose, nessun mandriano passa più con la sua mandra, nessun pastore. Qua e là, ruderi di vecchi casotti, segni visibili dell'antica attività bucolica.

Eccoci ai prati di Monteforte, anch'essi deserti. Per le Coste della Cerreta e giù alla Spogna vagola qualche cercatore di funghi.


Lama Capracotta Monteforte
I prati di Monteforte visti dalla Lama (foto: F. Mendozzi).

Scendiamo a Verrino e qui c'è una fiorente azienda pastorizia, depositaria, per così dire, dei valori di una delle più antiche attività della gente capracottese.

Passando per il Posaturo, risaliamo al Trione. Dappertutto distese di campi incolti, un guazzabuglio di erbacce, di steli, siepi di rovo, ortiche. Stessa cosa a Spinete, alla Piana di Matteo, alla Fonte del Cippo, al Vallone della Terra, al Precorio.

Le poche radure, fresche e morbide, che dalla Selletta scendono alla Fonte dei Carovilli, le cui polle sorgive si sono pressoché disperse, erano una volta meta di gite. Il vecchio sentiero non si è cancellato del tutto: segno che qualche patito delle nascoste bellezze della montagna vi passa ancora.

Era bello andarci dalla parte di Portella Ceca, sul Campo. Seguivi l'antico sentiero che scende dal Guado, di traverso, rigando con le sue tracce ormai labili i fianchi del monte. Vi andavamo tutti gli anni almeno una volta, anche due qualche anno. Lo facevamo anche in senso inverso, dalla Cannavinella al Guado. Ci andammo una volta col cielo incerto, foriero di pioggia. Le prime gocce ventate ci investirono sulla piana del Campo. Tirammo diritto. Una volta ci andammo con Cicciotto di don Checco. Lui non c'era mai stato, ma quando glielo proponemmo, acconsentì volentieri, senza titubanze. Salimmo la costa di Santa Lucia conversando cordialmente. Con lui, così ricco di esprit, la conversazione filava che era una bellezza. Quando arrivammo al guado, ci sedemmo su una roccia beandoci nell’ammirazione dello stupendo panorama che si gode di lassù. Poi ci rimettemmo in cammino. Al guado, all'inizio, c'è un passaggio difficile, che costringe a camminare mani e piedi e crea perciò qualche problema. Cicciotto non se l'aspettava. «Ma guarda dove mi hanno portato questi oggi!»; forse ti dicesti ma «ma io ho i miei settanta e passa anni». Nascondesti il turbamento, stringesti i denti e superasti il mal passo. Poi tutto andò liscio e tu fosti contento di questa sfacchinata fuori tempo e fuori luogo per i vecchi, impervi sentieri della parte opposta di Monte Campo.

La Valrapina, oltre l'Addiaccio dell'Orso, sulla china del Monte, a est, con i muretti di confine anneriti dal tempo che spuntano dal mare d'erbe, coi suoi silenzi, nella solitudine dell'ampia plaga, evoca, come pochi altri luoghi, il sentimento delle passate stagioni e l'avvicendarsi delle generazioni di contadini e allevatori.

Altri luoghi ci scorrevano davanti, altre contrade, un giorno distese ordinate di coltivi e di prati, ferventi di vita agricola: le fresche Cimalte, l'assolato Orto Ianiro, la Macchia fertile, il Pescheto sassoso. E ancora: la Gravara, l'Ara di zi Lullo, il Parcone, la Preta Lata, Vallon Ricotta, Mulinella, Colle Pecoraro. E qui ci fermiamo perché ci siamo allontanati troppo dai prati della Vicenna e della Madonna.

Prati della campagna capracottese, pur così come siete oggi, ben riconoscibili nelle vicinanze dell'abitato e ancora in ordine, o sommersi in un indistinto grigiore nelle lontananze del territorio, siete sempre nel nostro affettuoso ricordo, perché di voi è ancora intrisa la nostra vita. Che sentimenti di pace intima ci viene dalle vostre linee ondulate o distese!

La Guardata. Uno sguardo tutto particolare merita questa bella plaga della campagna capracottese così amata, così frequentata negli anni verdi, rimasta indenne dai manufatti spesso orrendi delle innovazioni. Una grande macchia di roveti, pruneti, arbusti e ciuffi di alberi fra le radure: carpini, aceri, corbezzoli, ginepri, perastri, pini, ontani anche, e ancora, pungitopi, agrifogli.

I rovi, i pruni e la marmaglia di cespugli e "rocchie" hanno invaso le radure e i sentieri da quando gli armenti si sono ridotti a poche decine da centinaia che erano. E tuttavia le rocchie non "pungicano" più nessuno perché i ragazzi hanno altro per la testa che andare alla ricerca del sapore agrodolce e della fragranza dei "ravascini". E poi come farebbero a districarsi fra i pungichi?

La luce chiara e tenue del primo mattino non ha ancora sbiadito il contorno delle cose. Le corone delle fronde nella luce mattinale contrastano marcatamente con le loro ombre lunghe proiettate nelle radure. In alto sovrasta la grande cupola del cielo, terso, turchino, «così bello quando è bello», così in pace, come il cielo di Lombardia del Manzoni.

La giovane pineta che ricopre le groppe una volta glabre e sassose di Colle Cornacchia si è fusa con la vegetazione e le radure della Guardata. Si ode il suono dei campani dei pochi armenti al pascolo. I pali della luce e del telefono, affondati nel verde, corrono in doppia fila, serrandosi in lunga prospettiva verso Prato Gentile. La loro presenza non è avvertita come corpo estraneo: fanno parte del paesaggio. Spuntano gli spioventi rossi di un piccolo tetto, forse della vecchia vacchereccia ristrutturata: s'intonano all'ambiente. Non s'intonano invece i due edifici dell'Orto botanico, strutturalmente incongrui, estranei.

I grossi macigni che dal Tirassegno salgono fino alle pendici del Campo, sotto il dirupatoio della cima, stanno in perfetta armonia col paesaggio. Precipitati a valle, forse in seguito ad un cataclisma nelle ere primordiali. sono rimasti là dove s'erano fermati, con la base affondata fra un intrico di vegetazione cespugliosa, come dadi lanciati da un bussolotto e caduti casualmente in lunga fila.

La parte superiore è occupata dal Giardino di Flora appenninica, chiamato anche Orto botanico. Vi vegetano molti esemplari delle piante spontanee locali, indicati da cartellini coi nomi in vernacolo e in latino. I sentieri appositamente tracciati ti guidano alla scoperta. Si va dall'umile selena italica alla bianca betulla. Spiccano nei viluppi erborei il violaceo, il giallo, il purpureo, che fanno una sinfonia di colori. Dal ramo di un albero secco, reciso, fuoriesce un getto di acqua fresca.

Le groppe di Colle Liscio, sotto il serbatoio, movimentano la Guardata. Rari i cespugli, molti i cardi. Negli avvallamenti a primavera ristagnano le acque delle nevi in scioglimento formando piccoli stagni dove gracidano le rane.

Il pascolo non vi è più praticato. D'inverno i suo pendii pullulavano di piccoli sciatori. Ora per loro ci sono i campetti attrezzati alla Vicenna.

Sopra il Colle, oltre le Croci, c'è il casino Potena, da poco ristrutturato da Agostino. Si affaccia sulla strada e si apre, dall'altra parte, a mezzogiorno, sulla tenera convessità di un bel prato protetto da un muro di cinta. I ragazzi, quando andavano nei prati di Cesa, rivolgevano passando un'occhiata al casino solitario con un sentimento misto di soggezione, di desiderio e di mistero. Nessuno si era mai spinto oltre il cancello.

Vi sono entrato per la prima volta oggi, invitato dal proprietario, e finalmente quell'antico sentimento, forse non mai rimosso del tutto dal subcosciente, si è dissolto. Il casino è come ce lo figuravamo nell'infanzia: intimo, discreto, familiare. Il prato è tutto una fioritura di achillee, alte sugli steli, con le corolle candide, ricamate. Ciuffi gialli di ranuncolo occhieggiano un po' dappertutto. Dell'achillea e dei suoi valori terapeutici non sapevo nulla, né sapevo che i "ciammarlotti" e i "selvaggi", di cui, ragazzi, si facevano scorpacciate, hanno avuto un ruolo importante nella nostra dieta infantile, ricchi come sono di proteine e di vitamine. Agostino, il mio informatore, me li mostra, fioriti, ed io li colgo e li stringo in mano con amore. Ecco la "foglia lassa", ecco la cicoria, la malva, pure esse spigate, i cui sapori fortunatamente non si sono ancora persi. Altre erbe commestibili e officinali mi mostra Agostino, ma chi si ricorda il nome? Poi, parlando della Guardata, vengo a sapere che ci sono stati, nei periodi di grassa, fino a 3.200 capi di bestiame. Gli armenti avevano un loro settore di pascolo: qui le vacche, là i cavalli. I maiali più giù nella... porcilaia. Le capre alle Coste della Ruchetta. E in tal modo l'equilibrio ecologico era salvo e la Guardata non si degradava.

Rientro. Su una cantonata, alle prime case, leggo: via dei Faggi. Bene, penso: forse anche la Guardata avrà un giorno una via a lei intestata.


(1997)


Domenico D'Andrea

 

Fonte: D. D'Andrea, Sul filo della memoria, a cura di V. Di Nardo, D'Andrea, Lainate 2016.

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