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Perché il passato possa vivere ancora


Capracotta neve
Panorama invernale di Capracotta (foto: E. Mosca).

Molti i ricordi nostalgici che affiorano alla mente dopo la scomparsa di mio padre; ricordi accompagnati dal rimpianto di non aver annotato i tanti aneddoti riguardanti la sua fanciullezza, Capracotta e i suoi abitanti. Come vorrei ascoltare di nuovo i suoi racconti, rivivere ancora quel mondo lontano, fare in modo che quello che fu possa vivere ancora per sollecitare la fantasia dei miei figli. Nelle lunghe sere d'inverno, mio padre, con gran divertimento, raccontava le sue marachelle goliardiche, molto spesso risultato dell'indigenza del tempo, comune a moltissime famiglie e in netto contrasto con l'alta moralità e rettitudine di cui è stato emblema durante la sua vita da adulto. Ricordo che una sera, mentre fuori imperversava una terribile bufera e i vetri delle finestre erano come finemente ricamati da un sottile strato di ghiaccio dalle mille forme, rallegrato dalla vivace fiamma del caminetto, con un largo sorriso, cominciò a raccontare una serie di aneddoti. Pendevo dalle sue labbra, la mia fantasia cominciò a volare immaginando mio padre come uno dei bricconcelli coprotagonisti di Charlot in alcuni suoi film.

 

La càndra

Benché la famiglia di mio padre non fosse tra le più povere del paese, solo raramente sul desco comparivano prosciutto, salsicce, salami e altri cibi prelibati, custoditi gelosamente da mia nonna nelle càndre (giare), per le grandi occasioni, per fare bella figura con i mietitori, nel periodo della trésca (trebbiatura), o pe re ualàne (per l'aratore coi buoi) durante la semina. Ai ragazzi l'acquolina in bocca saliva ogniqualvolta passavano dinanzi alla dispensa, dove erano stipate le panciute giare. Un giorno, mio padre non resistette: entrò di soppiatto, aprì uno dei recipienti e un odore di strutto lo pervase. Si scatenò un impulso irrefrenabile: con un coltello tagliò la patina di sugna che ricopriva le succulente salsicce, la mise su un coperchio e cominciò, dapprima, con timore, ad assaggiarne un pezzettino, poi, con crescente fame e avidità, ne mangiò diversi anelli. L'operazione fu ripetuta quotidianamente finché nella càndra non rimase altro che lo strutto solidificato tutt'intorno alle pareti, su cui, con grande perizia, riposizionò la patina che aveva tolto il primo giorno. Intanto si avvicinava il tempo della trésca, per lui temutissimo perché il suo furto sarebbe stato sicuramente scoperto.

Così fu! La madre, vedendo la càndra vuota, immediatamente capì chi fosse l'autore di tale misfatto: il figlio più piccolo, in quel periodo risparmiato dalle durissime fatiche del bosco, già artefice indisturbato di precedenti marachelle. Fu subito sgridato dalla madre, ma il timore più grande era suo padre, il cui solo sguardo lo inceneriva. Quella sera, quando tornò stanco dal lavoro, lo rimproverò duramente, ma si notò subito il tremolio del suo labbro superiore, che tradiva un celato sorriso.

 

La gallina

Mio padre, come era costume del tempo, viveva in una famiglia patriarcale con nonni, zii, cugini... e a volte anche con i vicini di casa. Egli ne era contento, perché molto cordiale, e aveva un ottimo rapporto con i fratelli, i cugini e... i vicini di casa. Tra i vicini, quello che maggiormente ricordo era Pasqualìne de Tòtta, figlio della madrina di mio padre, Pupettóna de Tòtta. Durante il giorno, quando gli uomini erano al lavoro e le donne nei campi, i ragazzi si riversavano nelle strade, la loro seconda casa, dove le galline beccavano indisturbate. All'epoca ciò che poteva infastidirle era solo il cigolio de r' traìne (dei carretti), che di tanto in tanto passavano. In quei tempi i bambini di quattro, cinque anni e così anche il mio papà, indossavano un camiciotto, tipo tunica, che arrivava fino al ginocchio e ai piedi i più fortunati avevano dei sandali. In un pomeriggio assolato, mio padre e il suo clan di amici e parenti decisero di rubare una gallina alla comare Pupetta. Al furto partecipò anche il figlio Pasqualino. I più grandicelli scelsero e catturarono la loro preda tirandole il collo e la nascosero sotto il camiciotto di mio padre, che fu messo sulle spalle del cugino più grande per meglio nascondere la refurtiva. Alle persone, che chiedevano spiegazioni del perché re cìtre (il bambino) fosse portato sulle spalle, rispondevano, accompagnati dal finto pianto di mio padre, che si era ferito ad un piede, per l'occasione scalzo. La loro bravata continuò nella stalla di Pasqualino, dove la gallina fu privata del suo piumaggio e arrostita. La comare scoprì dapprima le piume, poi, quando si accorse che le era stata rubata la gallina (i furti di animali da cortile erano frequentissimi in quei tempi) cominciò a maledire i furbastri, augurando loro di fare la fine del pennuto. A quel punto il figlio, mentre con piede lesto se la dava a gambe, la esortò a non jettà asctéme (augurare la malasorte), perché anche lui aveva partecipato al banchetto. La madre non profferì più parola; il figlio non si sa come fu accolto a casa la sera, ma di certo le galline mancarono ancora.

 

Mazza e panelle...

Tutte le sere, puntualmente, si recava a casa di mio nonno qualche signora a protestare per un misfatto delle "simpatiche canaglie". A iniziare l'interrogatorio era il fratello di mio nonno, z' Chiuvìtte, uomo dalla bassa statura e di corporatura esile. Quando il colpevole o i colpevoli venivano smascherati, cominciava l'espiazione della colpa; molto spesso si trattava di legnate a cui assistevano solo i membri della famiglia, ma quando la colpa da espiare era grave venivano messi alla gogna, i rei erano costretti a marciare a piedi scalzi per lunghi tragitti, anche impervi, scortati dal severissimo zio e dal suo implacabile bastone. Quando ancora bruciavano le ferite della punizione, le piccole pesti architettavano la ritorsione per colei che aveva osato andare a protestare. Molto spesso la attendevano in prossimità della loro casa (dove ora abitano Minguccio e Angela). Una volta avvistatala, come fulmini uscivano dal portone; con grande sincronia uno alzava le lunghe gonne e l'altro vi infilava sotto un cartone acceso, cosicché le frisciùte (ricche) vesti si incendiavano tra le grida e lo spavento della malcapitata. Per fortuna gli abiti del tempo non erano sintetici, altrimenti le povere donne sarebbero divenute delle pire umane! A quel punto alle punizioni già citate si aggiungeva quella del digiuno per più giorni.

 

L' péra all'acìte

Pupettóna aveva la figura di una vera e propria matrona: non molto alta, ma piuttosto robusta. Indossava sempre, sulla lunga sottoveste, una gonna altrettanto lunga e arricciata in vita, su cui poggiava un grembiule nero, che diventava di raso nei giorni di festa. Anche suo marito, compà Gianfeleppóne era di corporatura massiccia. Saccheggiare la loro casa era sicuramente un'attività molto redditizia, perché stipavano cospicue quantità di cibo. Comare Pupetta trattava mio padre come un vero e proprio figlio, che aveva libero accesso in ogni angolo della casa. Spesso la madrina lo incaricava di portare qualcosa nelle camere, dove conservava ogni ben di Dio. Il discolo, mentre stava assolvendo ad una commissione nella camera da letto della padrona di casa, scoprì una grossa pentola in terracotta nella quale erano conservate l' péra all'acìte (le pere sottaceto). Stava per mangiarne qualcuna quando fu interrotto dalla voce della padrona di casa che lo richiamava dal piano sottostante.

Con grande sconforto fu costretto a rimettere tutto a posto e con quattro salti fu presto giù. Nella sua mente subito si delineò il piano per gustare una simile prelibatezza. Aspettò pazientemente la sera tarda e piano piano si recò nella camera da letto, cominciò a mangiare una pera matura, dolce e acre nello stesso tempo. Quando sentì che il compare e la comare stavano andando a dormire, con l'agilità di un grillo, in men che non si dica, si infilò sotto il letto. Assistette alla svestizione del compare, che con un tonfo fece sobbalzare il letto fin quasi a schiacciarlo. Il povero bimbo, impaurito non osava respirare. Con piccoli movimenti, riuscì a portarsi in corrispondenza del posto della comare, che non aspettò molto a coricarsi. Con il cuore che batteva all'impazzata e tutto tremante aspettò che i suoi padrini fossero nel regno di Morfeo, ma il sonno tardava ad arrivare. Gianfilippone si girava e rigirava nel letto, Pupetta aveva una tosse tremenda e di tanto in tanto si alzava per bere. Ogni loro movimento era amplificato dal rumore delle frùsce (foglie di granturco) del giaciglio e faceva aumentare la tachicardia del loro figlioccio. Dopo molto tempo, finalmente si addormentarono. Al buio e in punta di piedi mio padre uscì dalla stanza, ma chiudendo l'uscio, fece un tale rumore che i due si svegliarono di soprassalto. Il monello prontamente imitò la voce del figlio Pasqualino, che era uscito, rassicurandoli e i due si addormentarono tranquilli. Non c'è che dire, la pera sottaceto non fu solo aspra, risultò anche indigesta!

 

Beato te...

Compà Pasquale, zizì compà per me e mio fratello, carissimo amico di mio padre fino alla fine dei suoi giorni, non amava molto andare a scuola. Ogni mattina inventava un malanno nuovo per non assolvere al suo compito di scolaro. In un giorno d'inverno, quando i cumuli di neve raggiungevano i primi piani delle case, la madre di compare Pasquale, esasperata, andò a chiamare il maestro, perché esercitasse opera di convincimento su quel figlio così poco amante dell'istruzione e del suo sistema. Il finto malato si trastullava beatamente nel letto. Quando udì la severa voce del maestro, senza esitare, mise le scarpe, inforcò gli sci e uscì di corsa dalla finestra. La sua latitanza durò pochissimo, fu subito catturato e, mentre recalcitrante veniva condotto a scuola, udì i grugniti disperati di un maiale che veniva barbaramente macellato. In lacrime, urlando e singhiozzando disse:

Vieàt'a te, puórche, ca nen vieà alla scòla! (Beato te, maiale, che non vai a scuola!).

 

R' melóne

Le scorribande non finivano mai! Erano un po' tutti in paese a mostrarsi... ehm... vivaci. Un anno, prima della Seconda guerra mondiale, in occasione della fiera dell'8 settembre, i venditori ambulanti, come loro consuetudine, con i loro carretti, giunsero a Capracotta la sera prima. Rimasero a dormire all'aperto, in un cantuccio, per fare la guardia ai prodotti della loro terra. Tra questi c'era un contadino che vendeva i cocomeri di sua produzione. Una combriccola di giovinastri gli si avvicinò cercando di mercanteggiare il prezzo di un cocomero. Non raggiunsero alcun accordo e, ben presto, decisero che avrebbero rubato il cocomero durante la notte. Quando fu buio, mentre alcuni facevano la guardia altri si avvicinarono al carretto. Le angurie erano state coperte da un telo piuttosto pesante. Si guardarono intorno e, non vedendo nessuno, misero le mani su una forma tondeggiante ricoperta dal telone. Grande fu la sorpresa nel costatare che non si trattava del cocomero ma... della testa del contadino! Ci furono urla e colluttazioni. In aiuto del coltivatore arrivarono altri commercianti. Volarono frutti e furono rotolati cocomeri, dopodiché i giovani spavaldi corsero a nascondersi nelle loro case. Fu esposta una denuncia verso ignoti, ma l'anonimato durò pochissimo. Furono presto individuati perché per le strade cantavano a squarciagola:

Vulavàme arrubbuà r' melóne, ma era la còccia de r' padróne... (Volevamo rubare il cocomero, ma era la testa del proprietario...).

Condotti in caserma, dopo poco furono rilasciati, con la promessa di non commettere più simili azioni.

 

È proprio vero ciò che recita un noto aforisma africano: "Ogni anziano che muore è una biblioteca che brucia".


Rosalba Carnevale

 

Fonte: R. Carnevale, Perché il passato possa vivere ancora, in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. I, Cicchetti, Isernia 2011.

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