Nella seconda metà dell'Ottocento, come anche nei primi anni del Novecento, molti furono i capracottesi eccelsi, nel campo dello studio, dell'arte e nel duro e poco redditizio lavoro della pastorizia e dell'agricoltura, tutta gente onesta e coraggiosa com'è la vera indole del cittadino di Capracotta. Le difficoltà della vita di quell'epoca e del tempo inclemente, costrinsero molti di loro ad emigrare per terre lontane come l'America o l'Argentina ed anche in Europa, mentre tanti altri, la maggior parte, poiché pastori, ogni anno andavano e tornavano dalla lontana Puglia percorrendo lo storico "tratturo", restando così fuori dal proprio paese e da tutta la famiglia per ben otto mesi ed anche di più. Quelli che invece ebbero la possibilità di dedicarsi allo studio, divennero avvocati, senatori, onorevoli, dottori, industriali e grandi maestri artigiani.
Il mio modesto contributo nel ricordare uno di loro che ha fatto la storia di Capracotta, mantenendone alto l'onore, ha inizio in una sala dell'ospedale S. Giovanni di Roma trenta anni or sono. Una mattina decido di andare a salutare i chirurghi riuniti, è un giorno come tanti per loro, i quali discutono sui vari interventi da effettuare in giornata. Mentre parlano qualcuno sembra li stia osservando in silenzio: si tratta di un loro amatissimo e stimatissimo collega venuto tragicamente a mancare a soli 54 anni; una gran bella foto incorniciata ed appesa alla parete rende vivo il suo ricordo: trattasi del caro professore Antonio Conti, la cui improvvisa scomparsa brucia ancora nell'animo di tutti coloro che gli vollero bene.
Figlio di Capracotta, Antonio non si vergognava delle sue origini "montanare", tanto che per lui erano come un biglietto da visita. Fin da ragazzo aveva sempre amato il suo paese e le sue montagne; non c'era un anno in cui non ritornava tra quei verdi e ridenti paesaggi, in quella sua grande casa e per stare insieme ai tanti paesani. Nelle sue vene scorreva sangue capracottese, amava ripetere spesso, e quando arrivava da Roma, lo vedevi vestito con pantaloni di felpa ed un rosso maglione che poi erano la sua divisa. Tutti erano felici di poterlo salutare, non senza strappare anche qualche consiglio medico e, se c'era un caso complicato, dava a ognuno appuntamento a Roma. La sua bontà, la sua cultura e la sua grande specializzazione, ebbe modo di dimostrarle negli ospedali romani, come il Santo Spirito e il San Giovanni. Se non c'erano posti letto, dopo mezz'ora uno già era disponibile. Tentò anche di lavorare in uno studio privato, ma presto abbandonò perché preferì tornare nei suoi ospedali, tanto che un giorno mi confidò:
– Ho studiato medicina e chirurgia perché la mia deve essere una vera missione.
Oltre che lontani parenti con don Antonio c'era anche il San Giovanni, essendo lui stato il padrino della mia prima figlia, e il giorno di sant'Antonio decisi di passare all'ospedale per gli auguri, sapendo che smontava da una notte di lavoro. Salii al quinto piano ed incontrai la caposala, sempre poco affabile, la quale mi fece comunque entrare. Da una cameretta sentii solo ridere e parlare in dialetto capracottese; mi affacciai e con grande gioia trovai sei donne, tutte paesane ricoverate, che circondavano don Antonio, il quale invece di essere già a casa dopo la nottata di lavoro, era seduto al centro di quella cameretta e si dilettava con le signore ascoltando storie ed aneddoti di gente di Capracotta. Sembrava di assistere ad una vera terapia del sorriso come oggi lo è la "Patch Adams".
Tutte da lui operate, quelle donne ridevano e scherzavano con il suo contributo, e così fu che il San Giovanni divenne l'ospedale dei capracottesi, mentre la caposala, ogni volta sempre meno ospitale, borbottava. Quella mattina da cui ho iniziato il mio piccolo racconto salutai tutti i colleghi del professor Conti e mi avviai verso l'uscita dell'ospedale; l'immancabile caposala mi bloccò sulla porta e, guardandomi, esclamò:
– Capracò, è finita per voi, perciò kaput! – quasi a voler rimarcare il fatto che, senza don Antonio, al San Giovanni non potevamo più entrarci.
Maména, mia zia adottiva, d'inverno ammazzava il maiale, come tutti d'altronde, e quando appendeva salami e salsicce alla pertica per farli essiccare diceva sempre di non toccare le prime due paia di soppressate, perché erano di don Antonio, quando poi sarebbe tornato l'estate. Quand'egli arrivava da Roma e passava da casa, saliva sopra al Colle a salutare, trovando sul tavolo una mappìna con sopra soppressata e caciocavallo; usava in quel modo fare lo spuntino e ogni tanto lo accompagnava con una bevuta d'acqua prelevata dalla tina con il maniero.
Spesso papà mi accompagnava a far visita all'amata famiglia Conti nella casa romana omaggiandoli con qualche nostro tipico prodotto; Antonio spesso ripeteva:
– Paluccio, Paluccio, come e quando ci potremo sdebitare con te?
Davanti all'Albergo Vittoria, in compagnia di mia moglie Lena, appena sposata, incontrai don Antonio con la sua famiglia e, dopo i saluti, mi chiese se avevo con me una cinepresa; risposi che avevo solo una macchina fotografica, pensando che potesse servirgli in quei giorni di ferie. La mattina dopo, invece, si presentò a casa con un pacco regalo e con mia grande sorpresa, una volta aperto, vi trovai una cinepresa, che ancora conservo. Rimasi così senza parole, tanta la gioia che ancora oggi non riesco a dimenticare quel momento.
Ora che questo grande uomo ed emerito chirurgo non c'è più da oltre trent'anni, il paese ha pensato di rendergli eternamente omaggio con un busto che, tra la Chiesa Madre e il Belvedere, sorride ancora, com'era sua abitudine, a tutti coloro che passando ricordano quanto grande fu l'opera sua e quanto onore diede orgogliosamente ai suoi paesani, alla sua tanto amata Capracotta.
Pasquale Mosca
Fonte: P. Mosca, Personaggi capracottesi, uomini e donne della nostra storia, in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. V, Proforma, Isernia 2014.