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La pianta che non c'è, un animale che non c'è più e un mondo che va scomparendo


Borragine
Borago officinalis (foto: P. Curti).

Mentre mi deliziavo a leggere il 5° fascicolo del Bollettino della Letteratura Capracottese rimasi per un attimo interdetto quando appresi, dall'articolo "Iacci, salere e lamature", che il toponimo dello Iaccio di Vorraine potrebbe «riferirsi a un antico stazzo di grosse proporzioni contornato da Borago officinalis», perché questa è «una pianta erbacea piuttosto comune sul nostro territorio».

Trasalii.

Dopo qualche giorno ebbi il piacere di incontrare l'autore del testo, Francesco Mendozzi, e gli riferii le mie perplessità in merito. Gli espressi i miei dubbi sulla presenza della borragine a Capracotta e mi ascoltò interessato, tanto che, quando terminai, tra il serio e il faceto, accompagnandosi con un gesto, disse:

– Scrivi Pasquà, scrivi!

Aggiunsi alle mie argomentazioni ulteriori prove ma lui, serafico, mi ribadì l'invito. Un vero e proprio guanto di sfida che non potevo non raccogliere! Mai avrei immaginato di disputare con Francesco, di cui ammiro la scrupolosità delle argomentazioni, ma gli jeàcce sono una materia della quale, senza presunzione, sento di poter dire la mia. Iniziai così a raccogliere notizie, orali e scritte, a supporto della mia tesi.

È fuor di dubbio che la Borago officinalis sia una pianta erbacea preziosa. Cresce spontanea nei campi e nei terreni incolti e la si può seminare negli orti. Diffusa in tutta Europa ha innumerevoli proprietà: cura l'insonnia, il nervosismo, lo stress e la tosse. È diuretica, depurativa, lenitiva e cicatrizzante. Inoltre è usata per combattere il mal di gola, la gengivite, la febbre, l'artrite e i disturbi mestruali. È presente in cucina per frittate, insalate, zuppe e come ripieno per i ravioli. I fiori, di un bel colore azzurro intenso, sono utilizzati per guarnire le pietanze.

Anche Plinio il Vecchio, nel I secolo d.C., riteneva questa pianta capace di allontanare la tristezza e di donare gioia di vivere: per questo è chiamata anche "pianta del buonumore".

La borragine ha un solo difetto: si trova ad altitudini non superiori agli 800-900 metri! Quindi a Capracotta, ahimè, non c'è! Ho evitato di citare le fonti da cui ho attinto notizie per non appesantire il testo. Mi limito a citare soltanto "L'uso tradizionale delle piante nell'Alto Molise”, scritto da Paolo Maria Guarrera, Simone Medori e dal prof. Fernando Lucchese, responsabile scientifico, per conto dell'Università del Molise, del nostro Giardino della Flora appenninica sul finire degli anni '90.

Il nostro botanico locale Mariolino Di Rienzo, consultato in merito, dopo ampia e circostanziata disamina scientifica, ha concluso che tale pianta non trova dimora a Capracotta e che la parola vurràigna gli era sconosciuta. Il termine vurràigna non è riportato nemmeno nel dizionario di don Ninotto e Felice Dell'Armi ma è invece presente in quello di Agnone: verràina.

Dichiarazione che mi veniva confermata dal segretario dell'associazione "Vivere con cura" Antonio D'Andrea. L'assenza di borragine in quel di Capracotta mi è stata infine ribadita anche da Maria Ricci, dottoressa in scienze forestali.

Non restava che fare una capatina al Giardino della Flora appenninica di Capracotta. Qui ho incontrato la gentilissima dott.ssa Carmen Giancola che, interrompendo per un attimo l'amorevole cura che riserva alle piante, oltre ad informarmi dell'assenza di Borago officinalis in Giardino, mi ha confermato che l'habitat locale non ne consente la presenza.

Dopo queste testimonianze scientifiche (e non) ho fatto una riflessione: com'è possibile che i capracottesi - che han vissuto all'insegna del motto "tutte jèrve cuóglie, cuóglie e puó màgnatele che sale e uóglie!" - non conoscessero tale pianta? Poteva mai sfuggire agli occhi aquilini e al naso adunco di Lucia di Milione?

Bene, assodato questo, resta l'incognita del toponimo dello Iaccio di Vorraine. Potrebbe derivare da un animale? È improbabile! O dal fiume Verrino che scorre non molto lontano? Appare insolito il fatto che lo stazzo, solitamente usato d'estate e in altura, prenda il nome da un fiume che scorre a valle! E se derivasse invece proprio da una pianta? È possibile!

Su Voria, il giornale di Capracotta, riportai il nome di una pianta: la merruoàina, suggeritami da Americo Sozio (1912-2014). Una pianta erbacea, mi disse, buona contro l'inappetenza e che ai suoi tempi era ampiamente utilizzata per curare re varlìse, ossia le piaghe che gli animali da soma si procuravano a seguito dello sfregamento del basto.

Ho provato ad avere conferma parlando con alcuni paesani che hanno posseduto animali da soma. Luigi Carnevale (1941-2020), recentemente scomparso, mi disse che per guarire re varlìse si usava rimestare la paglia all'interno del basto con l'intento di rimuovere il grumo che aveva procurato la piaga o, in alternativa, il vescicante, un unguento che preparava il veterinario di allora, don Giuseppe Turchetti. Questi rimedi mi sono stati confermati da Filippo "la Pezzuta" Mendozzi, da Carmine "Dolce" Santilli ed infine da Mario "Ze Schina" Carnevale. Stavo per perdere le speranze quando, interpellato Davide "Davione" Carnevale, mi disse che conosceva la merruoàina e che suo padre la usava, giustappunto, per curare le escoriazioni degli animali.

Non solo! La andavano a raccogliere alla Guardata nei pressi del Cuandóne Gruósse. Aggiungeva che è presente in molte zone di Capracotta, anche nei pressi della sua casetta di legno allo Iaccio di Vorraine.

Era proprio quello che volevo sentire! Da merruoàina a verruoàina il passo è stato breve!

La dott.ssa Giancola, informata della ricerca, mi ha riferito che la nonna Ermelinda Fantozzi, figlia di Carmela Dei Cenna (famiglia "Cianone"), le raccontava che a Capracotta usavano la merruoàina per curare le ferite da basto degli animali. Bene, dopo aver acquisito anche il supporto della scienza botanica, potevo sentirmi soddisfatto!


Orso marsicano
L'orso bruno marsicano.

Per quanto riguarda lo Iaccio dell'Orso, è chiaro che l'orso che terrorizzava le nostre montagne - stando alle parole di Giuseppe Altobello - era quello «bruno marsicano, endemico dell'Italia Centrale». Probabilmente la sua presenza nei pressi di quello stazzo diede il nome a re jacce. Disporre gli stazzi in montagna esponeva le pecore a pericoli mortali, causa la presenza di lupi ed orsi, ma tali rischi venivano compensati dalla qualità e varietà di erbe che i pascoli, a quelle altitudini, offrivano. Tali erbe conferivano ai formaggi proprietà organolettiche eccellenti. I pastori sapevano bene, come narra Elvira Santilli nel suo "Oltre la valle", che «la pecora che si pasce nei prati ondulati e nei pendii scoscesi di Capracotta, ha la possibilità di brucare erbe che sono privilegi dei pascoli di alta montagna e può offrire un latte ricco di sostanze nutritive e di sapore speciale».

A differenza dell'orso, il lupo era il nemico più sanguinario e più temuto dai pastori. Una volta entrato in un branco di pecore - narra Antonino Di Iorio - questo «non si limita a sgozzarne una, per portarsela via, ma ne sgozza a decine perché si sfama anche succhiando il sangue delle pecore uccise». L'orso, invece, incurante delle grida e minacce dei pastori e dei latrati dei cani, avanzava con passo sicuro all'interno dello stazzo e, carpita con le potenti zampe una sola pecora, se ne andava via, come se quel tributo gli spettasse di diritto.

Spesso, da ragazzo, insieme ai miei fratelli, ascoltavo a bocca aperta le storie che vecchi pastori quali Gaetano Perruzzi (1894-1973) o Domenico Mendozzi (1905-1986) raccontavano a mio padre nel loro tipico italiano pastorale. Sostenevano che in quei frangenti era pericoloso avvicinarsi all'orso perché, se infastidito, poteva lasciare la pecora e attaccarli. Era lui il re della montagna e, da buon re, nolente o volente, pretendeva la tassa di occupazione temporanea. Nonostante non sia più presente sulle nostre montagne, l'orso incute ancor oggi timore e paura ed è oggetto di tabù.

Così si esprime in proposito Matteo Righetto ne "Il passo del vento", scritto insieme a Mauro Corona: «preconcetti e superstizioni arcaiche fanno di questo splendido mammifero il capro espiatorio per eccellenza di tutti i pericoli insiti nella montagna, in un mondo che, pur di rendere tutto domestico e artificiale, sarebbe disposto a rinunciare alla bellezza della natura».

Ma anche la figura del pastore, al pari dell'orso, sta scomparendo!

Mi piace ricordare quanto questa categoria di lavoratori abbia dato al nostro paese. Oreste Conti, nella sua "Letteratura popolare capracottese", li descriveva «bella gente, sana e forte, fiera e onesta, un po' rozzi, ma cordiali». Fu soprattutto grazie alle loro elargizioni, a cui si unirono quelle dell'intera popolazione, se la chiesetta della Madonna di Loreto, come sostenne Luigi Campanelli, divenne da «piccola e rozza a vero e proprio Tempio».

I pastori nutrivano una forte devozione per la Madonna. A Lei si rivolgevano per la protezione prima di avviarsi per la transumanza e dagli inizi del '600 cominciarono ad offrirLe doni d'ogni genere: terre, animali, oro. La confraternita che amministrava l'ingente patrimonio della Madonna di Loreto riuscì, pertanto, ad iscriverla alla Regia Dogana delle pecore di Foggia per ottenere il diritto, in quanto locata, d'una estensione pascolativa di terre del Tavoliere. Nel 1700 questa contava ben 21.210 pecore. Divenne una vera e propria industria armentizia, dando lavoro e benefici a molte famiglie. Successivamente, grazie ai suoi finanziamenti, fu possibile non solo ristrutturare la vecchia "Casa della Madonna" in modo da renderla utilizzabile come asilo infantile (oggi dimora dell'omonima residenza per anziani) ma soprattutto ricostruire ed ampliare la Chiesa Madre, vanto ed orgoglio di ogni capracottese.

In conclusione, voglio scusarmi con Francesco se questi miei appunti possano urtare la sua sensibilità: non è assolutamente nei miei proponimenti ma non posso tacere di fronte a un'imprecisione che rischia di scalfire l'impegno che sempre profonde nei suoi studi.

A coloro che non condividono quanto asserito, rispondo come fece Francesco con me:

– Scrivi Pasquà, scrivi!


Pasquale Paglione

 

Bibliografia di riferimento:

  • G. Altobello, Fauna del Molise e dell'Abruzzo, Pasquini, Livorno 1925;

  • L. Campanelli, Il territorio di Capracotta. Note, memorie, spigolature, Tip. Antoniana, Ferentino 1931;

  • O. Conti, Letteratura popolare capracottese, Pierro, Napoli 1911;

  • M. Corona e M. Righetto, Il passo del vento. Sillabario alpino, Mondadori, Milano 2019;

  • A. D'Andrea, La pecora che miagola perde il boccone. L'immensa eredità di Lucia di Milione: strega, amazzone e sacerdotessa di Capracotta, Youcanprint, Lecce 2019;

  • A. Di Iorio, La pastorizia transumante, Grafikarte, Roma 2007;

  • O. A. Di Lorenzo e F. Dell'Armi, Piccolo dizionario del dialetto di Capracotta. La dolce favella del "scì", Rotostampa, Nusco 2011;

  • P. M. Guarrera, S. Medori e F. Lucchese, L'uso tradizionale delle piante nell'Alto Molise, Tipar, Roma 2009;

  • F. Mendozzi, Iacci, salere e lamature, in «Il Bollettino della Letteratura Capracottese», II:5, Capracotta, 4 luglio 2020;

  • D. Meo, Vocabolario del dialetto di Agnone, Cicchetti, Isernia 2003;

  • P. Paglione, Voccarusce 'mpanicce: la ricetta, fatti, aneddoti e..., in «Voria», I:2, Capracotta, ottobre 2007;

  • E. Tirone Santilli, Oltre la valle, Pagine, Roma 1993.

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