Poche fonti presenti sul territorio capracottese hanno la caratteristica di sgorgare dalla medesima sorgente o, per meglio dire, dalla stessa "vena d'oro blu": fra queste figurano la Fonte Fredda, utilizzata per l'approvvigionamento del serbatoio comunale, il pilone del Procoio (nuovo e vecchio), la Fonte del Cippo ed infine la Fonte di Santa Croce.
Il sostantivo "procoio" (o "procuoio"), di etimologia incerta, si riferisce certamente al recinto per il bestiame o comunque ad altri significati assimilabili a "mandria" e "cascina", la costruzione rustica con stalla per le mucche e attrezzata per la produzione dei formaggi.
Il vecchio pilone del Procoio, dopo aver donato il suo "sangue blu" per tantissimi anni, è attualmente in disuso, in quanto non riusciva a soddisfare la sete degli animali di grande taglia, poiché la sua vasca presentava uno scarso volume.
Negli '60 venne invece messo in opera, a circa 70 metri dal vecchio, un nuovo pilone che con le sue due vasche differenziate poteva soddisfare l'abbeverata di ovini, bovini, equini e persone, quali escursionisti o semplici contadini che lavoravano quei terreni di scarsa redditività, dovuta questa all'alta quota e alla presenza di venti gelidi che spirano inesorabilmente da settentrione.
A 1,5 km. dal centro abitato, dopo aver oltrepassato il vecchio fonte, ci si imbatte in una croce che accoglieva la speranza dei lavoratori di riuscire a ricavare qualcosa di buono dai terreni circostanti utilizzando coltelli fra i denti spuntati contro fame e povertà.
Chiamarli terreni agricoli è infatti un eufemismo, giacché queste erano terre d'alta montagna strappate alla pietra e liberate dai massi che spuntavano come funghi e che in molti casi venivano ridotti in briciole con l'uso delle polveri da sparo (residui dell'ultima guerra!) fatte detonare nei giorni di pioggia assieme a tuoni e fulmini, oppure a mezzogiorno in concomitanza col rintocco delle campane, di modo che coprissero l'assordante rumore dell'esplosione, preceduta spesso da un colpo di fucile.
Che contrasto tra quei perseveranti agricoltori, curvi, intenti a scavare con zappe, bidenti e mazze di ferro, quasi fossero i cercatori d'oro del Far West, e il vocìo dei bambini intenti innocentemente a giocare o ad aiutare i genitori nel trasporto delle pietre da porre sui confini.
Visto che le pietre non mancavano, infatti, lungo i confini degli appezzamenti venivano costruiti dei ricoveri da utilizzare come riparo momentaneo, utilizzati eventualmente anche nelle notti d'estate, e che contemplavano l'entrata a sud per avere l'opportunità di godere della luce e del calore solare. Sembrava quello un ambiente distensivo e armonioso dove la conduzione era prettamente familiare e... c'era sempre chi si crogiolava al sole.
Adesso attorno a quella croce e a quel pilone l'ambiente è surreale, solo il cinguettìo degli uccelli spezza il silenzio; a causa dell'emigrazione del dopoguerra, proseguita fino ai giorni nostri, la realtà circostante non è più quella di una volta.
I cadenti muri di confine e i ricoveri in pietra a secco, ormai degradati e abbandonati all'incuria del tempo, lasciano l'amaro in bocca per i sacrifici fatti dai nostri avi, i quali, sperando nella clemenza del tempo e in una qualche forma di abbondanza, cercavano appena di ricavare il "sangue rosso" dalle rape...
Queste costruzioni rurali - circa 200 sono i pagliai, i casotti e i tholos presenti sul territorio di Capracotta - potrebbero essere ripristinate, utilizzate per trascorrere periodi in perfetta solitudine, per ritrovare lo spirito interiore smarrito davanti a un PC, od anche per vedersi protagonisti di "un posto al sole" su un territorio semilunare, di certo non come semplici spettatori della celebre soap opera!
Filippo Di Tella