Ehi! Mi ascolti? Villa bianca dei ciliegi,
accendi ancora le tue luci per te, per me.
E rimandami le immagini di allora...
[I. Graziani]
In un precedente "sbuffo di polvere" ho raccontato di come mi trovai nella cantoria della Chiesa Madre alle prese con l'organo ridotto in uno stato pietoso: funzionante ma solo fortunosamente e ormai prossimo al collasso.
I tentativi di restauro precedenti si erano basati su una lavorazione facilona e a volte demolitiva: la scomparsa delle "uccelliere" ne era il segno patognomonico. I vecchi organisti e cantori, tra cui Angelo Ianiro e Natalino Comegna, mi raccontavano inoltre di un tentativo, da loro fatto fallire a brutto muso, operato da parte di un sedicente restauratore che cercava sottrarre, di nascosto e per mancanza di controllo, parti dell'organo, tra cui molte canne. Non poche volte avrei dovuto provvedere alla riparazione di guasti anche gravi.
Per fortuna i miei maestri di organo mi avevano anche fornito di basi di tecnica organaria, argomento che andavo via via approfondendo anche dal vivo.
Prima di tutto, conscio di mettere una semplice "toppa", acquistai un grosso e lunghissimo cavo elettrico autoestinguente per l'alimentazione dell'elettrosoffiatore con un sicuro interruttore posto sulla consolle e, finalmente, agganciato in maniera autonoma al quadro elettrico della Chiesa: la prima "linea organo".
Venne così rimossa la piattina da 0,5 dal pavimento della cantoria e l'interruttore da abat-jour entrambi ad estremo rischio di cortocircuito. Provvedemmo anche ad installare una prima via di illuminazione elettrica delle ripide ed antiche scale lignee che, fino ad allora, venivano illuminate nelle veglie notturne con le candele, cosa che ogni volta mi provocava serie crisi di ansia vedendo fiamme libere a così breve distanza da strutture ad altissima infiammabilità.
Una leggera lastra di latta, modellata a tendina, venne applicata sul leggio a coprire la nuova lampadina anch'essa dotata di un nuovo interruttore per illuminare la consolle senza abbagliare l'organista.
La manutenzione delle parti interne mi obbligò ad un attento rispetto: era necessario evitare di applicare materiali moderni su opere antiche e quindi utilizzavo al bisogno pezzi d'epoca o metodi tipici degli organari coevi come pelli finissime e colle da legno per chiudere fessure dove il "vento" si disperdeva.
L'antico organo seicentesco della Madonna di Loreto, preda dell'incuria e dell'abbandono, era stato da poco demolito e qualche rottame, tra cui anche pochissime canne, ancora non tutti gettati via nella scarpata dietro l'abside della chiesetta, giacevano abbandonati nella canonica del Santuario. Una pia ed ignorante illusione di non addetti ai lavori che pensavano di poter ricostruire lo strumento ormai disintegrato con quattro pezzi di risulta e mi "spiegavano" anche come si poteva fare...
Per me, invece, una miniera di ricambi! E muovendomi come un ladro nella notte restituivo un po' di vita a qualcosa che stava morendo, prendendo da una parte e installando nell'altra.
Ancora oggi quei pezzi lavorano nel cuore del Principalone, mentre una canna di flauto dell'organo della Madonnina fa mostra di sé nella sezione della mia libreria dedicata all'interpretazione organistica e all'organaria: unico compenso per 28 anni passati di servizio in tutte le chiese del paese e ricordo di una bella avventura.
Con vernici dedicate verde e dorata decorai le ferite alla base delle paraste dove due toppe di compensato grezzo turavano malamente il vuoto lasciato dall'amputazione delle uccelliere.
Tralascio di raccontare cosa ho dovuto fare per ridurre il danno delle scritte ed incisioni (del tipo "Don Checco passò di qui nel 1492") sulla cassa dorata.
E qui iniziarono gli sfottò: "pensa a correre appresso alle gonnelle e lascia perdere l'organo" (avevo 18 anni), "che ci fai lì in Chiesa a perdere tempo appresso ai preti", come se un'opera d'arte così importante non fosse vanto della Comunità. Certe volte i capracottesi mi sembravano autolesionisti: vantarsi della Tavola Osca parlandone fino alla nausea ma dimenticando che quella stava al British Museum (menzionata come "Tavola di Agnone") mentre le opere d'arte sul territorio venivano sminuite e trascurate.
Abbondarono anche gli incoraggiamenti: "ma chi te lo fa fare?". Per le accuse di voler fare "passerella" ed i sorrisetti di superiore finta compiacenza riservati ai minus habens, venuti anche da chi non mi sarei mai aspettato, farò forse un capitolo a parte.
Il musicista interprete disperde nel tempo e nel vento la sua opera a differenza del letterato o del pittore: questi ultimi nella credenza popolare (ma anche tra i "colti") sono "veri" e "nobili" artisti a differenza dell'organista, un banale "sonatore", una tappezzeria liturgica. Molti addirittura ignorano ancora oggi l'esistenza di un corso specifico (anche molto lungo) per diventare organisti pensando che sia sufficiente studiare un po' di pianoforte.
Nel frattempo cercai, con alcuni amici fidati, di ripulire la cassa e le decorazioni ma fu necessario rimuovere anche calcinacci e tappi di ragnatele che ostruivano non poche canne. Dopo anni il Do1 del Contrabbasso (la canna maggiore) cominciò a far vibrare nuovamente la cantoria.
Le ragnatele ormai pluridecennali si erano impregnate della polvere e si stendevano tra le canne anche di facciata come lugubri lenzuola nere.
Vi confesso la mia commozione nel vedere le scritte a matita originali per le numerazioni dei ventilabri (le valvole poste sotto le canne) e la firma di Francesco D'Onofrio, il costruttore, insieme alla data "1779" sulla tavola delle riduzioni (le leve di trasmissione) quando per la prima volta smontai il pannello frontale della consolle per rimettere in tensione alcuni elementi della catenacciatura (il sistema di fili e regoli che collega i tasti ai ventilabri).
Il capotasto malamente ricostruito in semplice legno venne verniciato in nero lucido per un aspetto più dignitoso della tastiera. Una lampada allo iodio fu installata dietro il crocifisso dell'altare maggiore illuminando così tutta la struttura e facendo risaltare le dorature.
Tutti i lavori elettrici vennero realizzati in prima persona dal compianto Loreto Curdìsche Di Nucci.
Qui devo ricordare ancora una volta la pazienza e l'acume di don Geremia che nutriva cieca fiducia paterna nei miei confronti affidandomi la gestione dell'organo, cosa che avrebbe fatto anche con documento ufficiale qualche anno più tardi. Conforto e sostegno vennero dai maestri Giuseppe Di Lullo e Vincenzo Sanità.
Ognuna delle persone fin qui menzionate mi ha insegnato qualcosa anche semplicemente con l'esempio. A loro la mia riconoscenza. Ma più si andava avanti più ci rendevamo tutti conto che questa manutenzione non bastava: era necessario un vero restauro.
Francesco Di Nardo