top of page

I pulcini impauriti ai Giochi della Gioventù


Giochi della Gioventù

L'inserimento dei Giochi della Gioventù nel sistema scolastico fu una vera rivoluzione che coinvolse e influenzò un'intera generazione di studenti. A trarne i maggiori benefici furono certamente coloro i quali abitavano nei piccoli centri, e Capracotta rientrò di diritto in questa casistica. I Giochi produssero benefici ludici ma soprattutto sociali. In quegli anni la vita che si svolgeva nel nostro piccolo centro era prossima all'isolamento più totale rispetto anche ai paesi del circondario. Fu grazie alle numerose gare che si svolsero prima a livello comunale e poi regionale che potemmo confrontarci con coetanei i quali, malgrado vivessero a pochi chilometri da noi, ci consideravano talmente diversi da creare un clima di diffidenza mista a ostilità tra i rappresentanti delle diverse scuole. Questa convinzione svanì ai primissimi approcci. Miracolo dello sport che fin dall'antichità ha sempre avvicinato i popoli, anche i più diversi e distanti tra loro, figuriamoci se poteva fallire tra ragazzi divisi solo da qualche piccola montagna! In sintesi i Giochi anticiparono la funzione svolta dal servizio militare negli anni del dopoguerra quando i giovani dell'epoca, grazie al servizio di leva, poterono sperimentare la vita lontano dalle proprie case a contatto con coetanei di diversa provenienza, estrazione socialee culturale. I Giochi determinarono una vera e propria rivoluzione perché oltre a strapparci dall'isolamento in cui vivevamo, ci permisero di conoscere altre discipline sportive, quali la pallavolo, la pallacanestro, la ginnastica, il ciclismo e tutte le specialità dell'atletica leggera, oltre i soliti calcio e sci. Lo spirito dei Giochi della Gioventù era quello di coinvolgere la totalità degli studenti alla pratica sportiva anche in assenza d'impianti sportivi. A Capracotta l'obiettivo fu largamente raggiunto, infatti furono coinvolti quasi tutti gli alunni della scuola media nelle varie discipline. Questo importante risultato fu possibile conseguirlo grazie all'impegno e alla competenza del professor Michelino Potena, vero volano di tutto il movimento sportivo capracottese, che in quegli anni toccò livelli mai più raggiunti per partecipazione e piazzamenti e, cosa ancora più importante, per il numero di ragazzi coinvolti. Nella sua opera fu appoggiato da altri volontari i quali senza alcun interesse, sottraendo anche del tempo alle loro attività, resero possibile la nostra crescita sportiva. Mi corre obbligo rammentare coloro i quali hanno reso possibile questo sogno: il professor Michelino Potena (il quale in quella stagione insegnava a Trivento, ma tornava a Capracotta), mastro Peppino D'Andrea, il professor Angelo Conti, il professor Mario Comegna, il professor Oreste Ianiro, Vincenzino Comegna, il professor Vittorio Giuliano, Pasqualino Di Vito. A questi e altri che involontariamente non ricordo va, anche se tardivo, il mio più sincero ringraziamento. L'episodio di seguito raccontato si colloca negli anni 1968-69 durante i quali frequentavo la scuola media. I fatti si svolsero pressappoco nel seguente modo. Durante l'inverno del 1968 nell'ambiente scolastico si cominciò a parlare di un argomento del tutto nuovo: i Giochi della Gioventù. Tutti noi studenti mostrammo grande interesse per questa novità senza peraltro sapere di cosa si trattasse. Con l'approssimarsi della primavera e con il completo scioglimento della neve iniziarono le varie gare che consentirono la selezione dei rappresentanti della nostra scuola alla fase regionale. Per lo svolgimento delle diverse competizioni, oltre al campo di calcio, furono utilizzate le strade e le piazze cittadine che in quei giorni si trasformarono in un vero e proprio impianto sportivo, sotto lo sguardo compiaciuto della popolazione adulta. Finalmente giunse il giorno delle gare regionali da svolgersi a Campobasso. La sera precedente, presso lo Sci Club, che era la base operativa di tutte le manifestazioni sportive, ci fu una riunione di tutti i qualificati alla fase regionale. Ci furono consegnate delle vecchie tute ginniche. Tute una diversa dall'altra, taglie grandi e che sicuramente erano state utilizzate prima di noi da altri atleti dello Sci Club. Presi dall'euforia non badammo molto all'apparenza, né considerammo l'impressione che avremmo fatto l'indomani, agli occhi degli osservatori, con quelle tute, vecchie e variopinte. Si stabilì l'orario di partenza e il saggio mastro Peppino D'Andrea, utilissimo collaboratore nell'organizzazione della spedizione, suggerì a Michelino di anticipare la partenza, perché alcuni di noi avevano segnalato sofferenza di mal d'auto. Ed è per questo che mastro Peppino, come suo solito mentre parlava si aggiustava i pantaloni tirando su la cintola, ci raccomandò, tassativamente, di non mangiare prima della partenza pensando che, a stomaco vuoto, si potesse evitare il mal d'auto. Il mattino seguente ancora prima del sorgere il sole ci ritrovammo in piazza, dove sempre il solito mastro Peppino invitò quelli che soffrivano il mal d'auto a prendere posto sulla sua 500 giardinetta. Inoltre Peppino anticipò la sua partenza per compensare qualche inevitabile sosta. I rimanenti salimmo sulla 500 di Michelino. Così ultimati i preliminari, finalmente, ci avviammo anche noi, ma appena oltrepassata la fontana di Fonticelle, a poche decine di metri più avanti, scorgemmo la sagoma della 500 giardinetta ferma sul ciglio della strada. Mastro Peppino inveiva verbalmente verso i due marciatori, Lucio Fiadino (di Fiore) ed Enrico Palomba (detto Ottantotto), i quali erano poggiati con le rispettive teste a un palo della segnaletica stradale "vomitando anche l'anima". Il motivo della ramanzina da parte di Peppino ai due compagni era il supposto loro mancato rispetto della consegna di non toccare cibo prima della partenza. A nulla valsero i giuramenti dei due, doppiamente sfortunati, convincere il loro burbero autista di aver rispettato alla lettera tutto quanto gli era stato raccomandato. Sfogata tutta la sua contrarietà Peppino si avvicinò alla nostra macchina per ragguagliare il capo spedizione formulando anche una previsione ottimistica. Per il seguito del viaggio, a suo dire, una volta svuotato lo stomaco, i due non avrebbero avuto altri problemi. Mai un pronostico fu così disatteso. Da quella fermata fino alla discesa di Castelpetroso, che immetteva al lungo rettilineo verso Bojano, le soste forzate causate dall'indisposizione dei due furono parecchie durante le quali si crearono situazioni che raggiunsero picchi di pura comicità alimentate dalla schiettezza e semplicità di mastro Peppino e dalla complicità di Michelino. Ormai il sonno aveva lasciato il posto all'euforia che si era impadronita di noi e già azzardavamo pronostici sulle prove che ci attendevano. Noi, in gara, eravamo convinti di poter fare carta straccia dei nostri avversari. Il nostro accompagnatore, però, conosceva le nostre reali capacità e cercò in tutti i modi di stemperare la nostra euforia spiegandoci che ci saremmo dovuti cimentare in discipline a noi del tutto sconosciute fino a qualche settimana prima e confrontare con ragazzi più allenati di noi. Intanto imboccammo il lungo rettilineo che poneva fine al tratto di strada più tortuoso dell'intero percorso. Il che indusse Michelino ad affermare che da lì in poi non avremmo dovuto avere più intoppi, ma ancora una volta quest'ottimistica previsione fu smentita dai fatti, perché in lontananza scorgemmo, circa all'altezza di Bojano, la sagoma della giardinetta di mastro Peppino e avvicinandoci stentammo a credere ai nostri occhi perché notammo che i due marciatori si erano avviati a passo di marcia in direzione di Campobasso. Mastro Peppino intanto si rapportò a Michele e gli confidò di aver loro suggerito di approfittare dell'ennesima sosta per fare un po' di riscaldamento. Cosa che difficilmente avrebbero avuto la possibilità di svolgere prima della gara, considerando il forte ritardo che avevamo accumulato, e terminò il suo rapporto con la seguente domanda:

– Che dici Michele, ho fatto bene?

E l'interpellato, che a stento si tratteneva dallo scoppiare nella sua proverbiale e fragorosa risata, rispose con altrettanta schiettezza:

– Ma certo Peppino, hai avuto un'ottima idea!

E mentre il fedele collaboratore, con malcelata soddisfazione, si avviò verso il proprio mezzo noi tutti ci lasciammo andare ad una irrefrenabile risata troppo a lungo repressa. Finalmente arrivammo a destinazione e scorgemmo l'imponente sagoma del "campo scuola di atletica" di Campobasso. Una struttura che comprendeva gli spogliatoi al piano inferiore, mentre al piano superiore erano posti gli uffici, da dove un altoparlante impartiva annunci in continuazione. Ci sembrò veramente troppo dover gareggiare in un vero campo di atletica, per chi (come noi) era abituato a svolgere le attività sportive lungo le strade del paese perché il nostro campo sportivo era utilizzabile poco a causa di lunghi e ripetuti lavori che non approdavano mai a niente. Di colpo le nostre certezze e i nostri propositi svanirono facendo posto a un senso di vuoto dal quale fummo immediatamente sottratti da un organizzatore della manifestazione che ci sollecitò a prepararci per gareggiare. Indossammo quelle buffe tute e quando ci trovammo a contatto con gli altri atleti, risaltò ai nostri occhi in modo evidente, la differenza di abbigliamento. La nostra iniziale convinzione di fieri guerrieri si era ormai trasformata in quella di pulcini impauriti.

La prima gara che si svolse fu la marcia e i nostri due rappresentanti erano Lucio ed Enrico le cui condizioni psicofisiche, considerando il digiuno e le sofferenze del viaggio, erano tali da sconsigliare qualsiasi competizione sportiva, ma erano sorretti da una determinazione infinita. I due formavano una coppia poco omogenea: il primo, un piccoletto scuro di pelle molto similea un boscimano africano, il secondo un lungagnone lentigginoso con due lunghe e ossute gambe da fenicottero. Parte la gara, e i nostri, ancora sorretti dall'adrenalina accumulata, sembravano tenere il passo ma già dopo il primo giro, i postumi del viaggio incominciarono a far sentire i loro effetti. Il primo a cedere fu Lucio che senza alcun preavviso si avvicinò al prato e si accasciò al suolo tenendosi il ventre. Intanto noi, in attesa del nostro turno, seguivamo la gara dal bordo pista, abbandonando al proprio destino il povero Lucio. Intensificammo il nostro accanito tifo a favore di Enrico il quale, nonostante il nostro sostegno, incominciò anche lui a manifestare chiari segni di cedimento, causati da forti dolori all'addome che lo costringevano quasi a fermarsi. Gli piombammo alle spalle come dei falchi e con le nostre grida, che erano un misto d'incoraggiamento e rimprovero, lo costringemmo a riprendere la gara. Enrico, per recuperare il terreno perso era costretto a correre perdendo il passo della marcia, inducendo il giudice di gara a richiamarlo, diverse volte, a eseguire la giusta tecnica della marcia, pena la squalifica. Penalizzazione questa mai attuata perché, dopo qualche decina di metri, il povero Enrico stramazzò sulla pista contorcendosi per il dolore di pancia. La nostra delusione fu talmente grande che nessuno pensò di confortarlo, ma addirittura Emilio Paglione (Brielùcce), il più invasato e il più deluso della performance del nostro compagno, lo aggredì con veementi rimproveri concludendo il suo sfogo con una frase alla quale ricorreva ogni qualvolta voleva esprimere tutta la sua contrarietà nei confronti di qualcuno:

Vatte a abbuttà de sciùre cuótte. Finita la gara di marcia ognuno di noi altri, si diresse al settore del campo, dove eseguire la gara alla quale era iscritto. Io ero stato selezionato per il salto in lungo. Quando raggiunsi la pedana del salto, gli atleti con i quali mi dovevo confrontare avevano già eseguito diversi salti di prova per riscaldamento. Io ebbi appena il tempo di togliere la tuta che fui chiamato a eseguire la mia prima prova. Dopo una lunga rincorsa spiccai un bel salto. Un giudice di gara mi venne vicino e mentre m'invitava ad uscire dalla buca mi confermò ciò che già immaginavo e cioè che purtroppo il salto non era valido perché allo stacco sulla pedana avevo, anche se di poco, oltrepassato la linea bianca. Quando provai ad alzarmi crollai di nuovo nella sabbia perché accusavo un forte dolore all'inguine. Dopo ripetuti tentativi, constatata l'impossibilità di potermi mettere in posizione eretta, da solo, fui preso di peso dai giudici e accompagnato nell'infermeria della struttura, dove un medico spiegò a Michelino che avevo subito uno strappo all'inguine. Così restai disteso su un lettino, con un batuffolo di ovatta imbevuto d'acqua poggiato sulla parte dolente della gamba, fino a quando le gare giunsero a termine. A fine manifestazione, dopo esserci ristorati sufficientemente, riprendemmo la strada del ritorno. Alla sofferenza del mal d'auto dei marciatori si aggiunse la mia, perché l'angusto spazio offerto dalla 500 accentuava il mio disagio. Arrivato a casa, fui sistemato a letto e da quel momento iniziò una lunga convalescenza. Un pomeriggio fui accompagnato presso l'ambulatorio del dottor Antonio Di Nardo il quale, insieme al dottor Gervasio Evangelista, mi sottoposero ad una accurata visita. Tra l'altro con un metro misurarono la distanza tra l'anca e la rotula delle mie due gambe per stabilire l'entità dell'allungamento della gamba infortunata. I tempi di recupero furono molto lunghi. Intanto, giunse il giorno degli esami di terza media. Quando non trovavo un mezzo che da casa mi portasse a scuola, la raggiungevo a piedi e durante questo tragitto passavo davanti l'abitazione di Mario Paglione (Nigghióne) il quale, ogni volta che mi vedeva, mi canzonava con la seguente frase:

Ecche Ughétte de Piesculanciàne.

Ughétte era un signore di Pescolanciano, commerciante di stoffe, assiduo frequentatore del mercato settimanale del lunedì a Capracotta. Ricordo che era di corporatura esile, scuro di pelle e di capelli, con una voce nasale e un paio di baffi sempre ben curati, non si separava mai da quello che era il suo strumento di lavoro, un metro per sarti, che portava poggiato su una spalla e che gli scendeva lungo il corpo. La sua peculiarità era il suo modo di camminare, determinato da una probabile malattia congenita ad una gamba. Ad ogni passo compiva un ampio giro, verso l'esterno, col piede della gamba offesa, associando a questa azione del piede una flessione del busto in avanti. Era un po' simile a questa l'andatura che l'infortunio mi aveva imposto. Durante questo periodo dovetti subire gli sfottò di tutti i miei amici, oltre che di Nigghióne.

Questi furono gli approcci con i Giochi della Gioventù. Nelle prime manifestazioni non raggiungemmo risultati rilevanti, soprattutto perché scontammo la totale assenza di esperienza alla competizione, ma negli anni successivi molti di noi raggiunsero traguardi anche importanti accompagnati da grandi soddisfazioni, oltre che nello sci, nella ginnastica, dove la squadra si qualificò alla fase nazionale di Roma, e il citato Ottantotto realizzò il sogno nella marcia presso lo Stadio dei Marmi classificandosi all'ottavo posto. Per quanto mi riguarda, abbandonato il salto in lungo, mi dedicai con assiduità alla pallavolo. Anche in questa disciplina, da brutti anatroccoli che eravamo, nel volgere di pochi anni ci trasformammo in un'imbattibile ammirata squadra nella provincia di Isernia e dintorni. Ancora oggi a distanza di tanti anni sono riconosciuto, con soddisfazione, un elemento di punta di quella squadra.

A Lucio il marciatore ho chiesto adesso, a oltre quarant'anni dall'accaduto:

– Ti ricordi di quella gara di marcia ai Giochi della Gioventù a Campobasso?

Mi ha risposto:

– Certo! Ricordo molto bene il "riscaldamento" fatto sul rettifilo di Bojano!

E scoppiamo a ridere tutti e due.


Lucio Fiadino

 

Fonte: L. Fiadino, I pulcini impauriti ai Giochi della Gioventù, in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. III, Proforma, Isernia 2013.

bottom of page