La storia delle persone racchiude l'essenza della vita ed il racconto, come un vento che spira leggero, alita sul personaggio e ne abbozza il volto, ora corrucciato ora lieto; ne fa uscire la voce, altisonante o flebile; ne delinea il sorriso, mite o scanzonato, o persino beffardo; ne traccia le maniere, rudi o principesche, sino a disegnare un bel ritratto costruito su una speciale impalcatura di parole e di emozioni.
Le parole poi, ben assestate e scelte, dipingono l'interiorità, delicato involucro con tutto il mondo di idee e di pensieri che, sole, danno gusto e forza al vivere.
È certo un'arte difficile, non bastano poche pennellate per dipingere un personaggio ma occorre ricreare il miracolo di un'esistenza che continua ad avere forza oltre il vissuto ed emoziona quanti siano disposti a ricordare e a raccontare...
Non occorre essere stati famosi o avere compiuto gesta eroiche per entrare nel mondo della parola che si trasforma in racconto e che diventa storia, tra le tante piccole ed infinite storie, che avrebbero potuto essere scelte e raccontate.
Lucia di Milione, così soprannominata per la corpulenta stazza del padre Emilio, detto anche Emilione, prima ancora che un personaggio, era una persona che merita di essere ricordata, non solo per l'imponenza ed altisonanza della sua voce, ma per uno stile di vita particolare ed insolito. Volendola dipingere con accuratezza si potrebbe definire quasi la protagonista di una fiaba senza tempo; il suo mondo, carico di simbolismo e di spiritualità, è stato compreso solo a distanza di molto tempo da quanti, allora bambini, sono cresciuti ed hanno compreso che, nonostante le apparenze, la vera bellezza promana solo dall'anima.
Ancora oggi la identifico con i miei ricordi di bambina e con le paure infantili.
Si trattava di paure alimentate certo dalla sua presenza fisica, che poteva incutere anche molto timore, dalla sua voce potente, altisonante e cavernosa, e dalla costante frequenza delle sue visite presso la casa materna di Capracotta, ove pare che Lucia fosse solita portare le mercanzie dei boschi, precorrendo i tempi con una insolita forma di vendita porta a porta!
Lucia, instancabile lavoratrice, partiva al mattino presto e - con una sorta di rituale sacro - percorreva le belle strade di paese ed i vicoli ed i sentieri, si addentrava nei boschi e si inerpicava sui monti per raccogliere erbe e verdure, per poi sceglierle e selezionarle con cura.
Nella preparazione della sua mercanzia, Lucia impiegava una particolare attenzione: preparava dei piccoli mazzetti, li porzionava e li consegnava alle famiglie del paese che, numerose, richiedevano i suoi prodotti. Lucia, anche bendata, avrebbe potuto percorrere i tracciati dei sentieri di montagna e, anche bendata, avrebbe potuto riconoscere la vegetazione di ogni località intorno a Capracotta.
Lei, con ritmo musicale e sincronico, seguiva il continuo avvicendarsi delle stagioni e l'alternarsi dei prodotti della terra e portava sul suo capo, come trofei da esibire, grandi ceste piene di fasci di legna e di prodotti sempre freschi. Si può persino immaginare quale fosse il suo portamento con un simile addobbo! «La rr...óbba méja se vénne da sòla!» così era solita declamare in dialetto stretto e con un moderno slogan pubblicitario degno della migliore delle imprese multinazionali!
Mamma ricorda sempre questa frase e, nel pronunciarla, quasi involontariamente, mima la voce di Lucia, che era di intonazione e spessore vocale inimmaginabili! Ancora la ricordo. Una sorta di tuono in un cielo sereno che produce le sue vibrazioni anche a distanza, creando sonorità e percussioni tutto intorno.
La voce di Lucia si sentiva da lontano; al solo sentire della sua voce, io e mia cugina Anna, ancora piccole, correvamo a nasconderci sotto il letto di zia Fernanda, nella parte ultima e forse più nascosta della casa.
Lì restavamo senza nemmeno parlare e cercavamo di respirare piano, non so dire per quanto tempo, finché l'eco del suo vociare piano piano andava ad affievolirsi. Prima di fare capolino da sotto il letto dovevamo avere la certezza che la povera Lucia avesse definitivamente abbandonato l'edificio, e persino il quartiere di San Giovanni, perché tanta era la paura che provavamo al suo cospetto.
Io, poi, a differenza di mia cugina Anna, avevo ancora più paura perché nonno Giulio era solito scherzare e spesso mi ripeteva che Lucia era una mia lontana parente (in effetti il cognome è lo stesso!) e che dunque da grande avrei assunto le sue sembianze e avrei girato per i boschi con il capo coperto di fascine.
Solo con il trascorrere del tempo, quando le paure infantili cedono il passo alla trama inspiegabile della vita, ho compreso quanto Lucia potesse avere sofferto ad essere considerata lo spauracchio dei bambini: un'anima mite con una voce grossa che può essere capita solo da grandi e solo da persone ben addestrate a superare le inutili parvenze!
Ma torniamo al mestiere di Lucia. Una piccola e fantasiosa ditta individuale costituita dalla sola Lucia, che aveva dedicato tutta la sua vita a quella particolare arte della raccolta delle erbe: la cicoria selvatica, l'iperico (detta anche erba di San Giovanni), l'origano, l'achillea, gli spinaci selvatici, le foglie di tarassaco, erano questi alcuni dei suoi prodotti destinati al mercato locale.
Quella particolare arte (in dialetto definita arte di ammacunà, ovvero arte di arrangiarsi), mescolata con sapienza ad antiche e preziose logiche, le consentiva di vivere con molta semplicità: la logica del baratto e del dono ha permeato l'esistenza di Lucia e la riconoscenza, verso quanti erano disposti a darle qualche spicciolo per le sue verdure ed i suoi funghi, era la principale caratteristica di questa donna, così diversa dalle altre e perciò unica.
La storia di Lucia è di inimmaginabile spessore umano e raccontare questa donna, servendosi delle sole parole, non aiuta a fare luce sulla profondità della sua anima.
La sua esistenza potrebbe essere musicata su un adagio degno di una colonna sonora di musica sacra, intensa e drammatica al tempo stesso. Lucia infatti amava cantare canti di chiesa; raccoglieva le erbe e cantava; sapeva appena leggere e scrivere eppure intonava lo Stabat Mater con intensa drammaticità, segno di un vissuto doloroso e di un encomiabile abbandono alla Provvidenza. Il latino certo non era il suo forte ma dal canto, con le sue note altisonanti, promanava il fiducioso abbandono a Dio nella tempesta della vita.
Mamma ha sempre raccontato che, durante l'officio delle quaranta ore, Lucia era solita declamare a gran voce una preghiera particolare, che consisteva nel totale affidamento a Dio di tutte le angustie della propria anima e così, scandendo ogni sillaba, ripeteva ed intonava al cospetto della platea atto-nita: «In questo guazzabuglio dell'anima mia»...
Il guazzabuglio, poi, veniva pronunciato con enfasi, raddoppiando vocali e consonanti così da ottenere un vero e proprio guazzabbugglio degno di una vita complicata e dolorosa ma, al tempo stesso, degno di una fiducia e di un abbandono nell'esistenza che solo i grandi uomini sanno avere.
Ecco già che nelle mie intenzioni comincia a delinearsi il volto di Lucia; la sua esteriorità a dir poco incuteva timore: pettinata alla moda dell'epoca con i capelli grigi raccolti, la lunga veste sempre grigia, di stoffa non raffinata, le scarpe grosse, dilatate e sformate dai molti sentieri percorsi, il volto dai lineamenti irregolari e distorti, solcato dalle numerose rughe e invaso dalla peluria, la facevano somigliare ad un personaggio fiabesco e non proprio ad una principessa.
Eppure, discostandosi da quella superficiale apparenza, si svelava una donna carica di entusiasmo e di passione per la vita, che conduceva la sua esistenza vagando tra i boschi e scrutando i segni premonitori del tempo così da conoscere alla perfezione il momento in cui rincasare per evitare la tempesta di neve o la pioggia o la vòria (bora).
Lucia aveva tre fratelli, Fiore, Irene ed una sorella della quale si sa poco o nulla. Il fratello Adamo Fiore fu vittima di un ordigno bellico. Lucia, poveretta, nella qualità di collaterale di Adamo Fiore, provò anche ad ottenere il riconoscimento della mitica pensione di guerra che forse avrebbe cambiato la sua esistenza.
Le autorità dell'epoca, in persona del Ministro del Tesoro, nella rigorosa, doverosa e stretta applicazione della legge 10 agosto 1950 n. 648, visto l'art. 71, non accolsero la domanda per difetto dei presupposti sicché Lucia continuò ad arrangiarsi senza nemmeno poter contare su una modesta pensioncina di guerra!
Il fratello Adamo Fiore è stato una delle tante vittime civili della guerra.
In occasione del recente conferimento al Comune di Capracotta della medaglia di bronzo al valore civile, ho provato una particolare emozione nel sentire menzionato il nome di Adamo Fiore tra i caduti.
La memoria di una storia dolorosa può essere di monito e di esempio a quanti siano disposti ad avere compassione anche di eventi non vissuti, ad emozionarsi sino a comprendere il significato autentico di certi gesti e di taluni avvenimenti. È il simbolo della vita che si dipana nella storia e che fa rivivere gli anni e con essi i personaggi.
Nello scrivere ciò, mi viene in mente l'introduzione de "I promessi sposi" e l'antico manoscritto del Seicento che definisce l'«Historia come una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl'anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia».
Mi perdoneranno quei pochi lettori se ho preso in prestito parole ben più illustri delle mie tuttavia - giunti a questo punto del racconto - mi sembrano le uniche parole per spiegare che il mondo di pensieri, di idee e di emozioni ben traspare dalla storia della povera gente, che solo in apparenza nulla ha da tramandare ai posteri!
Continuiamo con la storia di Lucia e della sua famiglia. La mamma di Lucia, Maria Rosa Ianiro, detta Marosa (nome ottenuto dalla contrazione di Maria Rosa), sul finire dell'Ottocento, sposa tale Emilio De Renzis, il quale, poveretto, muore in seguito ad un violento attacco di mal di pancia. La morte del padre costringe Lucia ad arrangiarsi ed a sperimentare la forma più autentica dell'abbandono a Dio: la Provvidenza.
La sua religiosità non era certo di facciata: nel ripercorrere i suoi sentieri ed i suoi pellegrinaggi si sperimenta un'esperienza di fede autentica, vissuta oltre le apparenze.
I pellegrinaggi erano molti: a Sant'Onofrio, Casalbordino, Castelpetroso, a San Luca, a Castel del Giudice, a Montenero Val Cocchiara. Lucia era dappertutto. La processione a piedi verso Sant'Onofrio si faceva in primavera e Lucia camminava e cantava in prima fila con la sua voce grossa e cupa; il pellegrinaggio verso Casalbordino richiedeva più impegno perché occorrevano tre o quattro giorni di cammino; si partiva la mattina presto, si dormiva per la via e si invocava la buona sorte.
La devozione dei capracottesi per la Madonna di Casalbordino ha una tradizione piuttosto antica e Lucia ne era ben consapevole.
Dopo una fortissima scrosciata d'acqua, con un cielo che lasciava ancora intravedere il tumulto della tempesta ma già aperto ai colori dell’arcobaleno, la Madonna apparve al contadino Alessandro e lo pregò di andare dal parroco del paese perché invitasse tutto il popolo ad affollare la messa per pregare ed onorare e rispettare Dio. Era il mese di giugno e, da allora, ogni anno, a Casalbordino si celebra questo evento e Lucia certo non perdeva l’occasione per mettersi al seguito dei pellegrini capracottesi camminatori.
Ai capracottesi infatti spetta uno speciale privilegio: il trasporto della Madonna di Casalbordino.
Particolare devozione poi per la Madonna di Castelpetroso: era la meta preferita di Lucia, che nel percorso cantava inni prodigiosi alla Madonna di Loreto e qui il suo cuore si scioglieva in un canto poderoso.
Era tutto un intrecciarsi di lodi e preghiere, di salmi e di canti, con il fiducioso abbandono che solo il cuore dei semplici sa riporre nella Provvidenza e nella infinita misericordia di Dio.
Nel racconto di Lucia si possono aggiungere altri particolari intensi quasi a voler musicare il suo cammino, nel pentagramma della vita, con le note appropriate e con la giusta intonazione.
Lucia era nata e cresciuta in una piccola dimora nei pressi dell'antica chiesa madre, in quella che ancora oggi viene definita la "terra vecchia" di Capracotta.
Uno scorcio antico di paese, all'ombra del bel campanile; un angolo nascosto, al quale si accede da un piccolo arco che si dilunga fino a formare un andito in pietra che, a sua volta, conduce ad un cortile interno, dal quale si dipanano gli accessi alle case.
Uno spazio intimo e custodito, che ha conservato negli anni inalterato il fascino dei piccoli cortili di paese, dove a parlare sono ancora le pietre di un tempo che, posizionate dai vecchi "mastri", non si sono mai scomposte.
La casa, collocata all'interno del piccolo cortile, era tutta annerita dal fumo ed una scaletta in legno conduceva al piano superiore dell'abitazione, anch'esso tutto affumicato e scuro.
La dimora di Lucia, durante la Seconda guerra mondiale, fu requisita dalle truppe polacche di liberazione e fu utilizzata come "gabinetto" non certo per le funzioni ministeriali!
E pensare che Lucia aveva riposto tutti i suoi piccoli tesori in quella casa!
Dopo molti anni, il "tesoretto" di Lucia è venuto alla luce: alcuni piccoli sacchetti, ben inseriti e custoditi all'interno delle travi di legno del soffitto, con tante piccole monetine, tutte oramai fuori corso!
Sembra una storia d'altri tempi e persino una fiaba e - come in ogni fiaba che si rispetti - la morale traccia il percorso del cammino: dal cuore dei semplici sgorgano ricchezze ineguagliabili e dalle sofferenze preziose lezioni di vita.
I frutti delicati e preziosi di ogni vita vanno saputi cogliere per non disperdere quel patrimonio di umanità che sempre si cela nel "guazzabuglio" dell'anima!
Luisa De Renzis
Fonte: A. D'Andrea, La pecora che miagola perde il boccone. L'immensa eredità di Lucia di Milione: strega, amazzone e sacerdotessa di Capracotta, Youcanprint, Lecce 2019.