Il diritto alla speranza
è la motivazione umana
più potente che conosco.
[Karim Aga Khan IV]
Una alla volta, giorno dopo giorno, le luci delle case dei nostri paesi si spengono. L'ultima solo qualche giorno fa. La morte, come un ladro di notte, è arrivata all'improvviso e inaspettata a prendere Lucia. E anche la luce della sua casa, che ogni sera vedevo trapelare dalle fessure delle sue persiane e che mi rassicurava, si è spenta. Quando, nei nostri paesi, si spegne la luce significa che in quella casa non abiterà più nessuno.
È la storia delle zone interne, che si stanno spopolando dal momento della grande ondata migratoria iniziata, e mai interrotta, subito dopo la seconda guerra mondiale che ha spinto altrove energie giovani, intellettuali impoverendo così un territorio che era ricco di vita e di attività. La mancanza di lavoro ha lasciato una cicatrice che sembra difficile che si possa rimarginare. La popolazione invecchia anno dopo anno con un ritmo accelerato, che provoca inquietudine e solitudine. Non è raro sentire dire da un forestiero di passaggio: «Come fate a vivere in questi paesi?».
Se, alla sera, provate a percorrere le vie deserte dei nostri piccoli centri vedrete uno spettacolo che vi farà male al cuore e provocherà tristezza: una finestra illuminata e tante, tantissime altre spente. E il più delle volte quella illuminata è di una casa abitata da una sola persona che non vuole abbandonare il proprio paese oppure non può, non avendo le disponibilità economiche per andare a vivere in una città. Anche questa è una nuova povertà del nostro territorio: persone che vorrebbero andare via ma non hanno i mezzi economici per farlo. E tutto questo può perfino cambiare la nostra natura, spingere alla depressione, muovere all'invidia dell'uno nei riguardi dell'altro, esaltare la cattiveria che si annida nel nostro cuore mettendo a tacere la nostra bontà.
La solidità e la sincerità delle relazioni erano una caratteristica formidabile del paese, si sostanziava con la reciprocità, la fiducia, la convinzione che l’azione ben fatta oggi avrebbe avuto il suo ristorno in quella ricevuta domani. E costituiva anche un elemento di forte unione anche con chi se ne era andato, che si portava appresso il rimpianto di aver abbandonato un patrimonio di umanità difficilmente riproducibile altrove, in altre dimensioni.
Nei piccoli borghi la solidarietà c'è ancora, ma ormai è solo quella "occasionale", che si esprime in circostanze circoscritte, come lutti o qualche avvenimento di particolare dolore. Ma poi tutto torna come prima. Ognuno torna a chiudersi dentro le proprie tristezze e i propri ricordi quando le vie del paese erano gremite, nel pomeriggio dai bambini che giocavano e la mattina correvano con la loro allegria per andare a scuola.
Oggi anche le piccole scuole di paese che per tanti anni hanno educato generazioni alla cultura, si sono chiuse. I pochi ragazzi sono costretti ad alzarsi presto la mattina per raggiungere la scuola in un centro più grande, attraversando strade dissestate, spesso interrotte da frane. Nella memoria degli anziani resta vivo il ricordo del profumo del pane appena sfornato che si diffondeva e entrava nelle case, sempre con la porta aperta. I piccoli greggi di pecore e capre che attraversavano le strade per raggiungere il pascolo. Le botteghe degli artigiani dove si lavorava il legno, il ferro, il rame, e poi i piccoli negozi di frutta e alimentari. Oggi, in molti paesi, tutto questo è solo un ricordo.
Nel 1992, dopo la pubblicazione del primo rapporto sull'andamento demografico dei nostri paesi promosso dalla Caritas diocesana di Trivento - è una delle più piccole diocesi formata da 58 parrocchie su una superficie di 1.234 kmq. che abbraccia due regioni, il Molise e l'Abruzzo e tre provincie, Campobasso, Chieti e Isernia, con un territorio prevalentemente montuoso -, un quotidiano nazionale, La Repubblica, pubblicò un articolo con questo titolo: "Ma nell'alto Molise nel 2030 regneranno i lupi". Sono passati ventotto anni e la profezia sembra essere sul punto di avverarsi.
Lo spopolamento prosegue, i lupi sono tornati a vagare sulle montagne e i cinghiali che nel 1992 erano quasi assenti sono oggi centinaia e al loro passaggio distruggono tutto, i pochi campi ancora coltivati e gli orti ai quali i pensionati ancora continuano a dedicarsi per arrotondare le misere pensioni.
Come l'orto che Lucia, insieme al marito morto solo pochi mesi prima, continuava a coltivare e che era stato, insieme alle piante degli ulivi e di altri frutti, uno dei sostentamenti della loro lunga vita.
Non posso dimenticare le parole che, con trepidazione, l'uomo mi disse quando finimmo di trapiantare dei vecchi ulivi, davanti alla nuova chiesa costruita in campagna: «Ora dobbiamo aspettare che la pianta si riannamori della terra». Non trovo parola più pregnante di questa: tornare ad innamorasi della madre terra. Ritornare alla coltivazione della terra, da noi abbandonata per "abbandonarci" allo sviluppo industriale, un processo che sembrava prometterci ogni giorno più benessere, più possibilità per migliorare le nostre condizioni di oggi e quelle future delle generazioni più giovani, ma che ora mostra invece solo tutti i suoi limiti e contraddizioni. E ci induce a capire meglio il senso del nostro passato ma anche le potenzialità che può riaprire per il futuro. È quello che Papa Francesco riassume, quando ammonisce: «Il restare del contadino sulla terra non è rimanere fisso; è fare un dialogo, un dialogo fecondo, un dialogo creativo. È il dialogo dell'Uomo con la sua terra che la fa fiorire, la fa diventare per tutti noi feconda».
Le luci si spengono, la neve non cade più sulle nostre montagne. La neve, appunto. Era diventata una piccola e preziosa risorsa turistica, una sorta di compensazione offerta dalla natura ai tanti disagi che le nostre comunità più isolate debbono affrontare nella loro vita quotidiana, dura soprattutto nei mesi invernali. La fine delle grandi nevicate è il manifestarsi da noi dei cambiamenti climatici che fanno impazzire le nostre stagioni e mettono in discussione l'adattamento che avevamo saputo costruire riuscendo, con saggezza, a ricavare da ogni asperità una possibilità da spendere per creare condizioni migliori e trovare una ragione per restare dove siamo nati e cresciuti.
Oggi, dicevamo prima, i lupi sono tornati a girare sui nostri monti, i cinghiali che invadono e distruggono tutto, si sono moltiplicati, non hanno paura di arrivare fin nelle nostre piazze, al centro dei nostri paesi, come se anche essi avessero perso il sentimento dei limiti, dei confini, di ciò che si può fare e di ciò che invece deve restare negato. Sono segni che ci raccontano la storia di un territorio abbandonato, perché la desertificazione antropica apre vuoti, ribalta equilibri. Queste catastrofi quotidiane, che si rivelano nelle parti marginali del nostro paese ma lo coinvolgono tutto, dovrebbero diventare il tema di una grande questione politica, il contenuto di un impegno civile capace di coniugare questione sociale con questione ambientale, difesa delle economie dei territori e delle loro positive, aperte, identità culturali. Ci vorrebbe una capacità di lettura dei segni della nostra epoca per governare il globale attraverso il locale; ci vorrebbe uno sguardo lungimirante abituato - forse anche grazie a un sentimento religioso - a vedere nel piccolo la promessa del grande, nel minimo il destino del massimo. La politica, che dovrebbe assicurare quella lungimiranza, trova in queste nostre terre la sua smentita più clamorosa.
È una politica, indifferente, cieca, sorda, «indegna di questo nome», come ha detto papa Francesco. È una politica che ha impoverito i nostri piccoli paesi e reso più fragili le nostre comunità, che offende, scoraggia, umilia la nostra gente per le tante promesse mai realizzate. Una politica che quando c'erano risorse da investire le ha dissipate, quando poteva non ha fatto nulla. E che adesso è incapace di attivare energie sociali nuove, proprio perché nei decenni passati le ha scoraggiate o ha tentato di addomesticarle ai propri disegni di potere. Oggi, in molti prevale il sentimento dello scoramento, della rassegnazione che porta a considerare inevitabile e inarrestabile lo spopolamento dei nostri borghi.
La soglia dell'emergenza è stata superata ed è molto difficile contrastarla. Ma noi sappiamo che la rassegnazione non è una parola che possa trovare posto nel vocabolario di un cristiano. Siamo obbligati a sperare, per chi ha deciso di restare, per i giovani che vogliono investire qui e non altrove le loro intelligenze e le loro energie.
E dobbiamo avere l'umiltà, un'umiltà operosa, che ci faccia individuare nella tavola delle nostre "piccole" questioni i punti su cui attaccare, quelli che possono invertire la tendenza, arrestare la deriva.
Dobbiamo riaprire le questioni della sanità pubblica e della presenza di presidi ospedalieri adeguati, che siano messi nella condizione di garantire il diritto alla salute anche a chi vive in montagna. Bisogna riparare, con urgenza, le disastrate strade di montagna, letteralmente impercorribili per grandissimi tratti. Le famiglie e le attività dei pochi imprenditori rimasti andrebbero aiutate con una legge che preveda una fiscalità di vantaggio.
Abbiamo bisogno di lavoro per fermare l'emigrazione dei nostri giovani e per far tornare a vivere la gente nei nostri paesi. Un lavoro che abbia rispetto dell'ambiente, dei nostri meravigliosi monti, boschi, fiumi.
Noi come Chiesa continueremo ad "alzare il nostro grido" perché questo grido e le tante sofferenze che vuole rappresentare arrivino a coloro che hanno la responsabilità di ascoltarlo e li induca a intervenire, a trovare una risposta risolutiva, e onesta. E questo non domani, ma subito perché domani sarà tardi e le luci si spegneranno per sempre.
Papa Giovanni Paolo II che venne nella nostra diocesi, a parlare di umanità e lavoro, il giorno di San Giuseppe del 1995, ci esortò: «Non arrendetevi di fronte ai gravi problemi del momento e non rinunciate a progettare il vostro futuro!».
Noi non ci siamo arresi.
Abbiamo tentato di mettere a dimora i semi per un progetto di futuro, perché sappiamo che ogni frutto ha bisogno della sua preparazione e di chi possegga l'antica arte di "riannamorarlo" alla terra.
Oltre venticinque anni fa abbiamo puntato sulla crescita di una nuova cultura politica, fondando una scuola di Formazione all'Impegno Sociale e Politico intitolata a Paolo Borsellino. Lo scopo era quello di aiutare i giovani a scoprire la politica come servizio reso all'uomo, cominciando dall'uomo che vive, con le sue difficoltà, sul nostro territorio.
La nostra scuola opera ancora oggi, ha vissuto delusioni ma ha saputo sopportarle, ha avuto successi ma ha saputo non inorgoglirsene, la sua missione resta attuale.
La Caritas diocesana ha costituito la grande cornice di generosità all'interno della quale sono nate e si sono giocate tutte le scommesse di resistenza e riscatto delle nostre comunità.
Abbiamo messo in cantiere e realizzato tanti progetti volti a lenire il bisogno, ad aiutare le persone in difficoltà, ma anche a dare loro strumenti, cultura, mezzi per crearsi da soli le condizioni per non ricadere nella povertà e nell'apatia, che è il risultato della perdita della speranza.
Abbiano agito sulle piccole dimensioni, consapevoli che una strategia vincente può attuarsi anche con la forza dell’esempio, con la moltiplicazione delle azioni locali, agite all'interno di una prospettiva globale.
I nostri piccoli segni per riaccendere le luci delle case dei nostri paesi possono apparire come azioni di una benefica "guerriglia" sociale.
È poco?
Forse, non possiamo essere noi i giudici delle nostre iniziative.
Ma la storia ci ha insegnato che qualche volta anche la "guerriglia" è riuscita a vincere le grandi guerre.
Alberto Conti
Fonte: P. Beccegato e R. Marinaro, Ci vuole un fiore. Dal degrado alla cura dell'ambiente, EDB, Bologna 2020.