Roma, febbraio 1986.
Dopo giornate insolitamente miti, che facevano presentire l'arrivo di una primavera precoce, il tempo si è bruscamente cambiato e siamo rientrati nel cuore dell'inverno. Da due giorni, con rade alternanze di brevi soste, cade una pioggia battente, fredda. L'umidità penetra nelle ossa.
Da Capracotta giungono notizie poco rassicuranti. Sono carichi di neve. Qui tanta acqua, lì tanta neve. Da ieri la tormenta infuria rabbiosamente.
Evoco l'immagine, così consueta al mio ricordo, del paese avvolto nei turbini nevosi. Rivedo nella bruma grigia le case, le chiese, gli alberi, i muri imbiancati, emergenti come oggetti irreali dal bianco spolverio sollevato dalla bufera. Nelle vie deserte, cumuli di neve alti come poggi (montagne di neve chiamati iperbolicamente lassù), sui quali folate impetuose mulinano rapidi vortici.
Salgo col pensiero alla Chiesa Madre. Un'aria gelida grava sulle navate. Nella penombra si scorge l'impalcatura eretta per i lavori di ridipintura.
Non c'è anima viva, almeno cosi sembra. Con questo tempo chi si azzarda ad uscire di casa? Ma quando gli occhi si abituano alla fioca luce che piove dall'alto delle finestre, ecco che scorgi Natalino Comegna sull'impalcatura. Indossa il camice.
Lavora alla ridipintura. È nella navata sinistra. Come fa a resistere alla morsa del gelo? Furiose raffiche di vento, ad intervalli regolari, flagellano le vetrate dei finestroni sotto le volte. Natalino lavora in solitudine e forse in beatitudine.
Schiere di angeli, sotto il suo pennello, s'imbiancano e s'illuminano.
Qualche settimana fa andai in paese e salii in chiesa a dare una sbirciata al lavoro di ridipintura. Quel giorno il tempo era buono. La chiesa era silenziosa. Natalino in cima all'impalcatura pitturava la volta del transetto sinistro, canticchiando. Le pennellate scorrevano sulla superficie della volta, frusciando lievi come carezze.
Dicevo fra me: È solo a lavorare, quando finirà? Si tratta di pitturare migliaia di metri quadrati di superficie, con un'architettura poi cosi complessa: tutto un gioco alterno di sporgenze e rientranze.
Natalino scese e parlammo del lavoro. Mi confidò una riflessione su cui spesso tornava, lavorando. Mi disse che a contatto diretto con le strutture architettoniche della chiesa, poteva quotidianamente toccare con mano la solidità di quelle strutture e poteva, per così dire, verificare con quanta perizia e accuratezza erano stati eseguiti i lavori dai nostri antichi predecessori.
Mi colpì questa sua riflessione e quando lui tornò sul ponteggio, al lavoro, io girai lo sguardo all'intorno e, pervaso dal sentimento che mi era stato trasmesso, mi soffermai ad osservare tutto più attentamente e allora fui compenetrato, meglio certo che non lo fossi mai stato, dal misurato senso di equilibrio su cui si regge l'impianto architettonico del tempio. Guardai con occhio diverso; come se li vedessi per la prima volta i solidi pilastri delle navate con i bei capitelli compositi, le agili lesene che aggettano direttamente dagli altari laterali, le cimase sugli archi, le volte e le campate, i cornicioni e le mensole, i bei fregi a stucco e gli ornati, gli angeli e i putti degli altari laterali: tutte cose che io avevo "viste" tante volte, ma "guardate" veramente quasi mai.
A questo ripenso oggi, mentre qui la pioggia cade fredda e uggiosa e lassù, nel mio paese, nevica fitto e turbina la tormenta. Rivedo ancora con l'occhio dell'immaginazione, Natalino tutto solo a lavorare nella Chiesa Madre, intirizzito dal freddo, ma pervaso da un senso di pace intima, che gli viene dalla sacralità del luogo e forse dal filo invisibile che lo lega alle memorie del passato, i cui segni egli riveste di tempera chiara e, insieme, di affetto.
Capracotta, giugno 1986.
Sono tornato oggi nella Chiesa Madre, curioso di vedere a che punto è il lavoro di ridipintura. Sono entrato dal portone principale, che era spalancato. Con un colpo d'occhio ho abbracciato tutta la navata maggiore, ormai ridipinta. Il lavoro è pressoché terminato. Mentre guardo la Chiesa rimessa a nuovo, mi chiedo come abbia potuto fare una mano sola a rivestire una superficie così estesa e complessa. Una ridipintura del tutto inconsueta, a colori chiari; fondo giallo-ocra; orlature e filettature giallo-arancione; cornicioni e ornamentazioni varie bianchi; pilastri e lesene avana chiaro.
La prima impressione che si riceve, almeno dal mio punto di vista, è questa; lo spazio fra le navate si è prodigiosamente illuminato e ampliato. È scomparso sotto la nuova pittura a tinte chiare l'oro dei fregi e dei capitelli, dei medaglioni e degli altri ornati; è svanito il verde bruno dei pilastri e il grigio delle volte e delle pareti: e ciò può anche dispiacere. Ma l'esuberanza e la pesantezza delle linee barocche, sotto quel profluvio di colori chiari, quasi luminescenti, si stemperano, si diluiscono. Nel bagno di luce creato dalla chiarità della ridipintura, le curvature delle volute si ammorbidiscono, si distendono. Un nuovo rapporto di natura emozionale sembra che sorga con lo spettatore: più proporzionato e armonico, più raccolto, più gioioso.
Sui grandi pilastri ridipinti rilucono, quasi come oggetti sbalzati, nel loro colore originario verde e oro, ma ravvivato, i medaglioni della Consacrazione. Da essi l'occhio, in una rapida fuga, corre al grande organo che campeggia, rivestito degli stessi splendidi colori, su in alto, in fondo all'abside. Il verde-oro degli uni e dell'altro si fonde mirabilmente con i nuovi colori creando uno scorcio armonioso, pieno di equilibrio che dispone l'animo a quel nuovo rapporto emozionale cui si è accennato.
(1986)
Domenico D'Andrea
Fonte: D. D'Andrea, Sul filo della memoria, a cura di V. Di Nardo, D'Andrea, Lainate 2016.