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Il risveglio


Monte Campo Capracotta
La croce sulla cima di Monte Campo (foto: A. Mendozzi).

Ho vissuto per molto tempo il mio rapporto con Capracotta come un grumo di sentimenti di natura essenzialmente familiare: mia madre Maria, mio padre, mio fratello, le mie due sorelle.

Ma proprio il rapporto con la mia famiglia mi ha, via via, restituito quel senso di appartenenza che va oltre. E ti riporta alle origini: l'odore del fumo della legna; i tunnel scavati nella neve davanti ai portoni per poter raggiungere la strada ghiacciata; i pentoloni di rame chiusi ermeticamente per cuocere le patate. E il gioco della pignatta, quando, bendati ed emozionati, ci si diverte con un po' di apprensione per appropriarsi, in un colpo solo, di un tesoro di dolcetti. E poi e poi... quell'ascoltare i discorsi delle donne sedute così vicine al camino da farsi tradire dal fuoco che, attraverso le pesanti calze di lana, disegnava sulle loro gambe le vesciòle, vescichette acquose da curare con la camicia dell'aglio.

Tante di loro lavoravano la dura terra per spremerne patate o lenticchie, le uniche risorse di questi nostri luoghi, o raccoglievano nel bosco fascine che trasportavano poi sulla testa, in miracoloso equilibrio sulla spara, una ciambella di stoffa. Per portare tutto quel peso, dovevano camminare dritte dritte, con la testa alta e il busto eretto che metteva in evidenza i seni formosi, così che la caratteristica espressione austera della nostra gente poteva sembrare, qualche volta, ammorbidita da un pizzico di nascosta civetteria sostenuta dalla salubre prosperità dipinta nel colorito bianco e rosso. Apparivano, insomma, forti e, nello stesso tempo, femminili, perfettamente a loro agio come mogli e madri. E poi cantavano, e si rimpallavano le battute a doppio senso, nel linguaggio allegro di certi stornelli carichi di scherzoso erotismo. Ma non erano solo stornelli. Certe volte scoppiavano fra loro forti liti, e volavano parole pesanti quando, camminando e camminando con la mina di legno o con le canestre di vimini ricolme, andavano a lavare i panni al vallone - un torrentello stagionale formato dallo sciogliersi delle nevi di Monte Campo, là dove oggi sono gli impianti sportivi - o addirittura al fiume Verrino. Una corsa contro il tempo per prendere il posto più in alto, per lavare e risciacquare meglio e più in fretta nell'acqua chiara. E, poi, mi colpiva tanto il loro parlare della vita di ogni giorno con la stessa naturalezza con la quale si scambiavano i tanti ricordi di leggende fantastiche e di eventi misteriosi, «[…] il poetico fardello delle credenze popolari che racchiudono un capitolo della storia del pensiero […]», come ci ha insegnato George Sand.

Eppure, giovanissima, volevo scappare da quei luoghi per studiare, e non solo per me ma - me lo dicevo sempre - per donare ai miei familiari anche la forma di una dignità di cui possedevano già la sostanza. Mi costò tanto prendere le distanze da quella cultura che era anche la mia, e dai giochi "poveri ma belli" con mia sorella Emilia, piena di fantasia e "leader" non solo per me; dai balli improvvisati negli spazi lontani da occhi indiscreti; dalle letture con un'amica. Anche dal mio primo grande amore e da tante altre cose preziose. Un contrasto di sentimenti per tanti anni rimasto irrisolto e, nei primi anni, attenuato dall'affettuosa generosità con la quale mi ospitarono a Lucera, Marietta, la mia sorella maggiore (davvero una "seconda mamma") e il suo carissimo marito Vincenzo (per tutti: Cenzitto). Gliene sarò grata per sempre. Ora che ho imparato l'italiano e parlo un dialetto un po' addomesticato, ammiro chi lo conosce bene e lo sa anche scrivere come Lina de Cellìtte, donna colta e amabile.

Una sera della scorsa estate stavo proprio pensando a queste cose quando, come per magia, mi trovai davanti quella caratteristica sagoma del mio paese, lunga e adagiata, dalla fluente chioma di faggi di Monte Capraro ai lunghi piedi di sassi e sterpaglia di Monte Campo. «Salve, come va?», gli faccio un po' smarrita, sopresa per la surreale naturalezza del mio stesso saluto. «E come vuoi che vada, con tutti questi anni addosso! Vado avanti», risponde. «Tu sei la figlia di Tonitto e Maria "la Caccia"», sentenzia con soddisfazione, «e qui da me ci vieni poco… però da un po' di anni ti vedo più spesso, evviva!». È irritante, e lo sa. Allora, per recuperare, si complimenta furbescamente con me per le parole spese per lui nel mio piccolo romanzo. Si stabilisce una tregua. «Ma, per caso, mi vuoi intervistare? Beh, potrebbe essere lìoccasione giusta − dice, col tono vanesio di chi si aggiusta la chioma −, perché oggi sono proprio di buonumore. Ho saputo che in tanti racconterete di me…». Vanitoso. Ma subito (e con non celata malizia) riprende a stuzzicarmi: «Però… cominciamo da te, piuttosto… non avrai mica paura dei tuoi ricordi! Tuo padre e soprattutto tua madre ti hanno nutrito delle loro vite e di quelle dei loro vecchi». Coglie subito nel segno, naturalmente. «Lo so, lo so. Dopo la tua "fuga" ti sei sentita addosso il peso di certe critiche banali e ingiuste di alcuni… lo so. Molti ti hanno frainteso e ferita, ma mi pare che hai avuto la forza di fregartene e di andare per la tua strada…». Sento il sapore di un certo sarcasmo, e decido di considerarlo comprensibile, in fondo.

«Ma andiamo avanti», continua. «Tu lo sai che qui quasi tutte le famiglie hanno un soprannome che le caratterizza? Se cerchi di Pina Monaco, pochi sanno di chi si tratta. Ma se dici Pina "la Caccia" sanno chi sei e dove abiti. Così per quelli di Paciglie, Precuorie, Zappitte, Barabba, la Scturna, la Pizzuta, Ciummenera e, a San Giovanni, Caine, Trasciotta, Furchitte, Sguglize, Trieane e tanti ancora. Vedi che ricchezza, come dite voi oggi! Forse manco lo sai come nascono questi soprannomi...». Silenzio da parte mia. Prosegue: «Alcuni provengono da cognomi o nomi più o meno storpiati come: "quelli di Trotta", "quelli di Trieane" (che sta per Adriano), proprio come la famiglia di tuo cognato; altri si riferiscono a mestieri, caratteristiche di questa o quella famiglia», conclude con pazienza.

La mia espressione un po' inebetita è l'immagine di quanta fatica io stia facendo per riconoscere tutte le famiglie citate. Decide che ci vuole una nuova zampata, e mi fa: «L'origine de "la Caccia", almeno, la conosci, si o no?!». «Sì… – ma la mia incertezza ce l'ho stampata in faccia −, me ne ha parlato mamma, e a lei nonna Mariuccia e poi...». «Vabbè, ho capito. Allora te la racconto per bene, perché tu non c'eri, ma io sì...». «Cavolo, quanto è tronfio», penso irritata. Ma la cosa m'intriga assai e sull'irritazione prevale la curiosità e un sentimento profondo che sento affiorare sempre più forte. E così, attacca con la storia del trisavolo di mio padre. «Si chiamava Carmine. Era alto, robusto. Un bell'uomo. E anche un po' prepotente. Aveva scelto come sua futura sposa una delle ragazze più belle della Terra Vecchia. Una ragazza con i capelli rossicci, proprio come tua zia Nenna, quella di Villa S. Maria, e con la pelle chiara come la luna. Non come quelle che andavano a zappare e avevano la faccia cotta dal sole. Lei passava il tempo della sua gioventù ricamando e sognando di sposarsi. Carmine, come tutti i giovani, sapeva che era stata promessa a un altro. Non mi guardare così. Non lo sai che, allora, quasi tutti i matrimoni erano combinati dalle famiglie? Lui però era furbo. In occasione della festa della Madonna di Loreto incrociò in chiesa lo sguardo di lei, stretta tra la madre e la nonna. E poi ci rifece, mentre andavano a vedere il gioco della fune al quale lui avrebbe partecipato. Per l'occasione spese tutte le sue forze. E di forza ne aveva! Lei, sempre scortata dai genitori, rimase turbata e diresse lo sguardo altrove per nascondere il rossore del viso. È fatta, pensò Carmine. Baldanzoso e spaccone, non rispettò le regole, pur sapendo che lo scontro con la famiglia di lei sarebbe stato feroce. Così, con alcuni amici scavezzacollo come lui, attuò il suo piano. Sapendo che la ragazza dormiva con la nonna - e conoscendo la finestra della camera -, una sera organizzò una sorta di torre umana: un ragazzo sulle spalle di un altro e di un altro... le case erano piccole, non ci vollero molti uomini, e quando arrivò al davanzale gli applausi e gli evviva si sprecarono, mentre alte grida si levavano dall'interno della casa. E vogliamo parlare dei commenti vivaci - più o meno inventati - che il giorno dopo dilagarono per tutto il paese? Pensa... si disse che lui l'aveva vista in camicia da notte!

Ma poi si sposarono e così lei non perse la "sorte", come si diceva delle giovani che avevano "dato confidenza" a qualcuno senza poi potere o volere sposarlo. Allora erano guai: considerate di "facili costumi" potevano restare zitelle per tutta la vita, o dovevano accontentarsi di un matrimonio di "serie B" con uno più vecchio, o particolarmente brutto, o povero o sfortunato… ma loro si sposarono e, da allora, lui fu "la Caccia". Si sposarono, però… al di fuori della tradizione, come capirai tra poco».

Ascoltavo sempre più coinvolta, e pensavo a mio padre, a papà Tonitto che, per convincere i miei nonni, aveva scelto una strategia di persuasione più garbata ma non meno determinata, organizzando, con altri giovani, una serenata con il suo organetto e con un repertorio ricco di canzoni che, per "far colpo", erano anche in castigliano, essendo nato e avendo vissuto da piccolo in Argentina. Insomma - pensavo -, vengo proprio da una famiglia di "dongiovanni"!

«Beh, bisogna dire − continua − che gli uomini de "la Caccia" sono stati tutti piuttosto belli e, soprattutto, intraprendenti. Ma non tutti avevano la tendenza alla provocazione. Stai pensando a tuo fratello Gaetano, vero? Anche lui era alto, bello, con lineamenti decisi, in quella divisa che sembrava disegnata su misura per lui. Ma aveva lo sguardo dolce di chi ha sofferto la guerra da piccolo e distribuiva sorrisi a tutti, giovani e anziani. Era stato anche lui assediato da molti sospiri amorosi, ma era mite e lagato alla famiglia proprio come tuo nonno, Gaetano pure lui». Sento un dolce e delicato alito del vento profumato di Capracotta asciugarmi i nascenti lacrimoni. Poi, con una specie di colpo di tosse, riacquista il suo recitato distacco.

«Ma non lo vuoi sapere il resto della storia? Carmine, come ti ho detto, riuscì a sposare la sua Carmela e non ho mai saputo di dissapori tra loro, anzi! Eppure rimase in lei un cruccio grande: la mancanza del cerimoniale tradizionale che si svolgeva, a quei tempi, prima del matrimonio», concluse - mi sembrò - con un pizzico di indulgente severità.

«Scusa, di quale cerimoniale parli?». «Ma allora le hai dimenticate le tante tradizioni che, certo, non hai vissuto (risatina soffocata) ma dovresti aver conosciuto dai racconti e dalle letture di cui ti fai tanto vanto, anche a proposito delle nostre donne! O pensi che certe tradizioni riguardassero altri luoghi − specie del "Sud del mondo" – e non il tuo paese?» Incuriosita, mi dispongo dunque all'ascolto di nuove rivelazioni.

«Allora, se due giovani decidevano di sposarsi si facevano la "promessa" al municipio. Insomma si svolgeva lì una specie di pre-matrimonio con tanto di firma, a cui seguiva una festicciola. Passavano poche settimane prima del matrimonio e, nel frattempo, la famiglia della sposa allestiva le stanze con oggetti di valore, biancheria e persino vestiti che pendevano dalle pareti. Ma già tempo prima i genitori della sposa avevano stilato l'impegno solenne del duddieàrie - la lista, più o meno ricca, della dote - con l'elenco dettagliato dei quattrini sonanti e soprattutto degli oggetti - ciascuno col relativo valore: quante paia di lenzuola, quanti asciugamani, quante tovaglie, quanti materassi, quanti mobili, quanti gioielli e quanto oro, ecc. - che la sposa avrebbe portato con sé». «Lo sai − intervengo, orgogliosa di poter dire la mia e con un pizzico di saccenteria − che mio cognato Adriano ha conservato quella di sua madre Carmela per tanti anni, addirittura dal 1921, e me ne ha fatta vedere una copia? Non credevo ai miei occhi! Pensa che rispetto amorevole per le tradizioni e per la sua famiglia!», concludo un po' commossa.

Lui resta per un attimo silenzioso. Ma non vuole darmi soddisfazione, e continua imperterrito il suo racconto. «Il giorno del matrimonio le spose vestivano di bianco, e sulla testa avevano una corona semplice semplice dalla quale discendeva un ampio velo. Le più fortunate - diciamo pure le più ricche - ricorrevano alla sarta, ma tante altre il vestito se lo facevano prestare». «Ma anche qui, il giorno dopo la prima notte, c'era la verifica dell'avvenuta perdita della verginità?». «Certo, il lenzuolo nuziale veniva esposto alla finestra». «Che tortura – replico − e che barbarie!». E penso ai tanti riferimenti letterari che mi era capitato di incontrare al proposito. Non mi tengo: «E quanta disuguaglianza sociale, a quei tempi! Più di oggi, e ce ne è ancora tanta!». E quello: «Non esagerare, adesso. Le usanze sono usanze e, poi, le persone non correvano appresso a tutte quelle idee che hai in testa tu. E già, ma tu sei figlia di Tonitto, che era comunista come te!». Mi irrito sul serio, stavolta, e sto per rispondergli per le rime ma, come se mi avesse letto nel pensiero, mi anticipa presumendo di darmi una lezione di saggezza: «Bada, Pina "la Caccia", io sono tutto e tutti voi. Sono conservatore e rivoluzionario, e voi siete tutti, tutti figli miei!». Spiazzamento, emozione e… risveglio. Vidi le valige pronte, detti uno sguardo all'orologio e, confusa ma più serena del solito, balzai giù dal divano dove mi ero assopita trascorrendovi tutta la notte e, sorridendo dentro di me, mi affrettai a prepararmi. Mi sentivo un po' stanca, ma dovevo partire per Capracotta. Era già tardi. Ma non troppo tardi.


Pina Monaco

 

Fonte: P. Monaco, Il risveglio, in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. I, Cicchetti, Isernia 2011.

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