La partenza per Capracotta avvenne da S. Nicandro Garganico, con il carretto della famiglia Potena. I Potena erano imprenditori di industria boschiva, residenti a Lesina e Poggio Imperiale, sempre nel Foggiano.
Guidavano il carretto i figli di Raffaele, Domenico e Marco; il carretto era trainato da un cavallo che faceva da timoniere, ed un mulo che aveva la funzione del volanzino, dalla parte destra guardando la strada da percorrere.
Il carretto era carico di masserizie varie, probabilmente qualche sacco apparteneva anche a noi con dentro qualche coperta, lana per materassi, oppure qualche litro di olio, tutto materiale di sopravvivenza.
Con mia madre e mia sorella, che aveva quasi un anno, eravamo stivati verso la fine del carretto. Il viaggio durò quattro giorni con tre pernottamenti in una delle taverna dove di solito si fermavano anche i pastori durante la traversata del tratturo, che da Capracotta raggiungevano o tornavano dalle Puglie.
Arrivati alla taverna, di fronte all'entrata, a circa trenta metri di distanza, vi era una piccolissima casetta, anche con il tetto ed una finestrella con il vetro oscurato; incuriosito andai subito a visitarla, anche per dare sfogo alla fantasia, pensando che fosse una casa per bambini.
Nulla di quanto pensavo, appena aprii la porta, che era senza chiave dall'esterno, osservai con sorpresa, rimanendoci male, che si trattava di un bagno tipo latrina.
Era sicuramente un segno di accoglienza, pulizia e civiltà della taverna, per il periodo in cui si viveva, perché altrimenti bisognava andare per la campagna, per soddisfare i propri bisogni fisiologici. Questo avveniva appunto durante il cammino della giornata, quando dovevano far mangiare o riposare i cavalli e capitava che gli uomini si allontanassero per la campagna per adempiere ai propri bisogni.
Sul carretto alloggiavamo solo io, mamma e Lina, non ricordo se mio padre veniva con noi, mentre gli altri camminavano a piedi, oppure di tanto in tanto con una mano attaccata al carretto interrompevano la fatica del lungo viaggio.
La sorellina aveva indosso una specie di giacca di seta abbottonata sul davanti, fatta di un filo recuperato da un paracadute americano, e con delle stelline colorate ricamate sullo spallone del davanti, lavoro fatto ai ferri da mamma e ricamato dalla zia Rosa. La stessa maglietta fu poi indossata dall'altra sorella nata nel '49, e poi passata alla cuginetta, figlia di zia Rosa, anche lei dal nome Lina come la sua nonna. In più aveva delle scarpe fatte a sandali di colore avorio e bianche, che ogni tanto se ne uscivano, perché fatte fare di una misura più grande dal calzolaio per la crescita.
Mamma raccontava spesso che avevano fatto grossi sacrifici per farle fare quelle scarpe su misura: allora non vi erano negozi con scarpe pronte per bambini, almeno in quei paesi.
Più di una volta abbiamo dovuto interrompere il viaggio, perché una delle scarpette era caduta fuori dal carretto, fino al punto di dovergliele togliere, per non dare troppo fastidio ai vetturini, ma soprattutto per paura di perderle.
Non ricordo l'arrivo a Capracotta, ma l'abitazione provvisoria dei nonni Sebastiano e Pasqualina era una stanza a piano terra vicino alla nostra, diroccata e ridotta a maceria. Era rimasto in piedi solamente il muro della facciata posteriore della casa, ma tutto annerito dal fumo.
Quella stanza era di proprietà di Peppina Caporicci, donna molto anziana che aveva vissuto la sua lunga vita a Napoli con il marito, che faceva il conduttore di tram, senza avere figli. Dopo la morte del marito, si era ritirata a vivere a Capracotta.
Non avevo mai visto una stanza così buia e priva di luce, anche se vi era una piccola finestra tipo buccìtte, che dava sulla strada.
Sul camino, che veniva acceso quotidianamente dal mattino alla sera sia per cucinare che per scaldare l'acqua, ricordo che c'era quasi sempre il chettùre di rame appeso alla catena; anche quando non si cucinava, si usava per sfruttare il fuoco e nello stesso tempo si aveva sempre l'acqua calda a disposizione. Il camino era anche un luogo di raccolta per i famigliari, perché ci sedevamo in semicerchio intorno al fuoco.
Al posto del camino vi era messo davanti al buco uno sblandóne di zinco che terminava ripiegato, che fungeva da mensola.
Il fumo era più quello che usciva dai lati di quello che entrava nella canna fumaria: le pareti erano completamente annerite. Probabilmente, vivendo da soli, e anziani per l'epoca, non si rendevano conto della stanza così angusta. In un angolo della stessa, sempre con una tenda appesa, c'era il letto matrimoniale dei nonni. Papà e mamma avevano affittato una stanza al primo piano dalla parte posteriore rispetto all'entrata del portone, sempre di Peppina Caporicci, di cui mia madre si prendeva cura, essendo Peppina molto anziana.
In breve tempo mio padre fece costruire il camino dal muratore dando una imbiancata con la "calce spenta", che dava contemporaneamente anche una disinfettata. La stanza riacquistò luce e vivibilità. In questa abitazione siamo rimasti tutto il periodo necessario per ricostruire la nostra casa, anche se quando andammo finalmente ad abitarci l'intonaco era ancora umido sulle pareti: in quell'occasione tutti in famiglia ci prendemmo una bella bronchite.
Quando iniziammo la ricostruzione della casa la struttura portante fu affidata alla ditta Antonio Pettinicchio, cugino in seconda di nonna Pasqualina. La seconda fase fu fatta in economia ed i lavori ce li faceva Nicolino di Tanna detto "la Tosca". Questo nomignolo gli fu dato perché amava la musica lirica. Nel lavoro sapeva fare un po' di tutto, anche la pittura.
Durante questo periodo chi aveva parenti negli Stati Uniti riceveva dei pacchi contenenti soprattutto vestiario e scarpe.
Nonna Adelina Battista aveva una sorella in America, a Burlington, nel New Jersey. Si chiamava Antonietta ma noi la chiamavamo Mamma Ninetta perché aveva tenuto a battesimo mia madre. Era partita nel 1921 e una sola volta nella sua vita è tornata in Italia, nel 1960, in occasione delle Olimpiadi.
Avendo lasciato diversi parenti in Italia, doveva accontentare un po' tutti, ma da quando scrivevano la lettera che avevano inviato il pacco, passavano altri due mesi prima che arrivasse a casa: il viaggio avveniva con nave mercantile che si fermava in diversi porti prima di giungere a destinazione.
Nel pacco che inviò alle famiglie Sanità e Battista vi era abbastanza merce, non tutta utilizzabile e troppo raffinata per il momento che si viveva.
Vi erano due abiti, forse per le zie, di colore diverso, in velluto dévoré; scarpe con il tacco un po' alto (nonna le teneva sotto il letto e quando mia sorella Lina andava da lei le metteva sempre per gioco). Sapendo che c'erano due bambini in famiglia, pensarono anche a noi e ci mandarono due palle di gomma del diametro di 10-15 centimetri di colore rosa; erano molto particolari, avevano nella mezza sfera raffigurato un viso di una donna. Di queste due palle una la perdemmo (o ce la rubarono), l'altra, dopo qualche anno, mentre giocavamo nella nostra cucina molto piccola, andò a finire nel fuoco; non si bruciò, ma si afflosciò da non poterci più giocare.
Anche al Comune arrivavano pacchi dagli U.S.A. da distribuire alla popolazione. Era naturale che gli addetti alla distribuzione, gli impiegati comunali, forse i consiglieri facessero la prima cernita. A mio padre toccò un bel cappotto a quadri sul marrone, che fu rigirato e aggiustato da Giovanni Borrelli, il quale mise due giuntine al giro della spalla del dietro per portarlo alle sue misure.
Invece a zio Nicolino "la Tosca", nel pacco che gli toccò, trovò anche una giacca da camera tipo smoking, che qualche volta veniva indossata per andare alla Società. Successivamente la metteva per lavorarci, constatata la poca praticità. Certo, era singolare vedere un muratore che lavorava con lo smoking...
Sempre in quel periodo ricordo un uomo, sempre presente e laborioso, di nome Domenico Di Giovanni detto Pappascióne. Di lavoro faceva il netturbino o, come si dice oggi, l'operatore ecologico.
Quando passava davanti casa nostra in via Santa Maria di Loreto 30, avendo assegnata quella zona, per Domenico il lavoro era più lungo, soprattutto nei giorni in cui cadevano le foglie dagli alberi. Con il ramone che lui stesso si fabbricava con le vétiche, riuniva le foglie in tanti mucchietti, per poi incendiarle.
Non portava mai fiammiferi nelle tasche, e se c'era il sole usava sempre una lente solare per dare fuoco, stessa cosa avveniva quando si sedeva sul posto di pietra accanto al nostro portone per accendersi la pipa di creta con la cannuccia lunga e curva.
Se il sole mancava si faceva prestare un po' di fuoco da noi oppure dal vicinato, essendo il fuoco sempre acceso.
In quel periodo l'immondizia che producevano le famiglie era quasi zero: non si buttava via nulla. La plastica non esisteva, le bottiglie erano di vetro, quel poco di carta per gli involucri, insieme ad eventuali gusci di noci e scorza di arance e mandarini, si mettevano al fuoco cosicché lasciavano una scia di profumo.
Le scorze delle patate o le bucce della frutta (per chi se la poteva permettere) si mettevano insieme alla vrénna per farla mangiare al maiale.
Le rare volte in cui si produceva immondizia era per la cenere del fuoco o quando si faceva la culàta, praticamente il bucato fatto con la cenere. L'acqua che usciva dalla culàta era la lusciòla, ottima per lavare i capelli.
In questo caso, con una carriola di legno con l'interno a forma di V, dopo averla caricata la si andava a buttare sotto a l'acila terra, dietro alle stalle di Paglione detto re Lióne.
Mi piace poi ricordare zio Peppino (Giuseppe Mosca). Faceva il pastore, ma amava filosofare. Parlava sempre in italiano e quando si recava alla Società dei Pastori, che era unita a quella degli Artigiani, i suoi colleghi erano sempre attenti ai discorsi e alle cose che diceva; a volte con l'invidia e la strafottenza di qualche artigiano.
Tutti i pastori avevano una sana cultura contadina ma in taluni era speciale: alcuni sapevano interpretare il rutilio, altri conoscevano un latino appena abbozzato, il cantoniere Nicolino Cacchione scrisse dei versi che, a suo dire, erano come la Divina Commedia. Il suo pensiero era anche rivolto ad un figlio morto ragazzo.
Zio Peppino si dedicava allo studio dei binocoli, aveva sempre delle lenti dentro le tasche della giacca e degli abbozzi di telescopio.
Una volta vicino alla fontana-abbeveratoio di fronte la casa di Giuseppe Del Castello, gli era caduta una lente: essendo vetro non era facile ritrovarla e lui portava gli occhiali ed era già anziano. Chiese a me di ritrovargliela, cosa che feci. Appena riconsegnata la lente, dalla tasca interna della giacca egli estrasse il portafoglio e, apertolo alla piegatura, estrasse una sigaretta che mi regalò.
Non fumava ma io rimasi sorpreso e felice del nobile gesto, tuttavia, essendo piccolo, la portai subito a mio padre.
Fu in questo periodo che accompagnavo nonno Sebastiano con l'asinella, nella zona di Fonte Malcorpo, dove vi era una cava di pietre dalla quale si rimediava anche qualche liscia per il tetto. Nell'andare alla cava mi mettevo dietro al nonno sulla groppa dell'asinella, mentre al ritorno venivamo a piedi accanto alla vettura carica di pietre.
L'asinella era di colore beige, che dava sul grigio, era molto mansueta ed io le passavo anche sotto la pancia quando era ferma; era un po' vecchia di età e non poteva portare grossi carichi di soma. Abitando di fianco alla nostra casa in ricostruzione mi intrufolavo nel cantiere dei lavori che avvenivano quotidianamente e così avevo modo di ascoltare i ragionamenti che si facevano. Seppi che per rifare la casa contribuiva il Genio civile, per completare la casa qualche volta si barattava il lavoro del "la Tosca" o con quello di papà che gli spaccava la legna da ardere oppure con patate e legumi.
Sempre in quel periodo si usavano le tessere, sia per acquistare il pane che la pasta. Erano di colore giallo scuro per gli adulti e per noi bambini erano celesti. Somigliavano un po' alle schede elettorali di oggi ma non ricordo la durata del tempo, vi era scritto su ogni scheda in tanti piccoli rettangolini varie volte "pane pane pane", "pasta pasta pasta", ed ogni volta che si andava al negozio di Rosa Mendozzi, dopo averci dato la quantità stabilita, tagliavano con le forbici un rettangolino con la scritta di pane o pasta ad ogni tessera del componente della famiglia.
Nell'autunno 1945 iniziai a frequentare l'asilo d'infanzia dalle suore del Sacro Cuore di Maria, in un bellissimo edificio tutt'uno con la scuola elementare, risparmiato dalla devastazione bellica.
La decana e più conosciuta delle suore si chiamava suor Assunta Posso, che ha vissuto un lunghissimo periodo in questa casa. La madre superiora o presidente dell'asilo noi ragazzi non la vedevamo quasi mai perché si dedicava alla scuola di ricamo che tante giovani donne del posto frequentavano.
Facevamo il tempo pieno e quindi il giorno mangiavamo nella mensa. Ricordo questi tavoli lunghissimi alla mia vista, dove ogni quaranta centimetri vi era un buco, che serviva per infilarci il fondo dei piatti, in modo che stessero fermi, senza la possibilità di rovesciarsi.
Era la Chiesa che mandava questi aiuti all'asilo per sostenere i ragazzi, specialmente quelli delle famiglie bisognose.
Fu un anno interessante e fruttuoso per me, c'erano le regole di convivenza, con tutti gli altri bambini, l'accostamento alla religione, i canti, le piccole poesie, il saggio finale ed infine, a noi più grandicelli, ci fecero riempire un quaderno di "bastoncini" e di vocali.
Poi c'era Seppa, l'aiutante delle suore, donna tuttofare che a volte aiutava anche con qualche ceffone (cosa naturale in quel periodo) a gestire i ragazzi: erano anzi i genitori stessi che sollecitavano gli educatori a comportarsi in un modo così energico. Seppa aiutava i più piccoli a mangiare, ad andare nel bagno e a pulirli quando se la facevano sotto.
Aveva trascorso la sua vita con le suore; mio padre mi raccontava che era stata anche la sua bidella durante la sua infanzia nell'asilo.
Quando, nel giugno del 1946 l'asilo chiuse per le vacanze, ricordo che mamma mi venne a prendere, forse dopo il saggio di fine anno, e in quella occasione le venne consegnato il quaderno a quadretti con la copertina nera, con tutte quelle vocali scritte a matita. Mamma fu felicissima, salutò e ringraziò suor Assunta.
A me diede un forte abbraccio con un bacio.
Vincenza Di Rienzo
Fonte: V. Di Rienzo, Il ritorno a Capracotta, in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. IV, Proforma, Isernia 2013.