Questo è il volto del mio paese.
E questa è l'anima che lo rende vivo poiché non soltanto per gli uomini ma anche per le cose il volto è lo specchio dell'anima.
Guardando gli orizzonti e la terra, le luci e i colori, le piante e le case si avverte un palpito ed arcane rispondenze si svegliano nel cuore di chi è nato qui.
La patria s'imprime negli uomini e li richiama sempre: li richiama da tutte le distanze, oltre ogni volgere di tempo. E le città antiche chiamano con voci più forti.
Questa è antichissima.
I Sanniti la prescelsero per capitale ma dovettero fondarla gli aborigeni, tenaci nella ciclopica fatica delle mura, che ancora oggi si vedono fatte con le pietre enormi appena rozzamente squadrate e innalzate a strapiombo lì dove il terreno più divalla all'improvviso.
In quei tempi gli uomini aprirono, nelle profondità della roccia, la prima via dell'acqua miracolosa di San Martino: un'altra ricchezza che si aggiunge a quella del clima e del paesaggio.
Del paesaggio non tennero soverchio conto i fondatori della Città, occupati duramente ad altre bisogna. Essi tennero invece conto delle strade; delle strade d'allora s'intende, che non erano come oggi levigate, alberate, fiorite, ma erano pur sempre delle vie e qui confluivano a fascio da tutte le direzioni.
E per chi dalle ricche pianure della Campania felix o dai pascoli sconsolati dell'agro romano volesse salire ai crinali dell'Appennino e scavalcarli per scendere poi alle marine adriatiche e andarsene pei litorali verso il nord o verso il sud; e per chi, senza abbandonare le vie della montagna, volesse risalire o ridiscendere le valli del Biferno, del Volturno, del Trigno, del Sangro; e per chi fosse costretto al viaggio lento delle migrazioni stagionali dietro l'incedere delle mandre o al viaggio affannoso, che la guerra imponeva con tragiche squille e sinistri lampeggiamenti, o al viaggio studiatissimo e redditizio dei mercanti, pur essi intimiditi, ansiosi per la vita e per le robe; per tutti, allora come oggi, Isernia era punto obbligato di transito.
Eccola la ragione delle sue fortune e delle sue sventure. L'ultima, la più tragica, le capitò addosso in quel mattino di settembre di dieci anni addietro mentre la gente, fatta tranquilla dalla notizia della guerra finita, stava a guardare una nuvola argentea e rombante di aerei. Le macchine volavano nell'azzurro sereno e pareva venissero per uno spettacolo di festa.
Invece piovvero le bombe e fu immensa la rovina e la morte.
Per undici volte, nei giorni seguenti le macchine tornarono e poi, nell'ottobre, le mine sgretolarono le macerie e le cannonate rimossero le sepolture.
Uomini stranieri giunsero in quell'apocalittico scenario e proclamarono che Isernia di lì era scomparsa per sempre.
Non era vero.
La gente del luogo è tenace: il paese ha il carattere di un vecchio mulo duro e testardo.
Da soli, affannati, laceri, gli esernini, cominciarono la fatica. L'inverno era giunto con raffiche di nevischio e le pietre bagnate laceravano la pelle delle mani. Ma tutte le pietre furono rimosse per ritrovare i morti e per rialzare le mura.
È il destino!
Altre rovine avevano fatto qui i soldati di Silla implacabili e le turbe urlanti dei Saraceni ed altre rovine ancora erano venute nei secoli del Medioevo ed altre ancora nel 1799, quando le truppe francesi trovarono impensate resistenze tra le case di questa città, e nel 1860, quando l'attaccamento ai Borboni spinse gli Isernini alla resistenza contro l'occupazione garibaldina. Ma dalle rovine sempre la città era risorta più grande, come dice il Ciarlante, perchè gli olocausti non sono mai inutili.
Anche oggi la resurrezione è in atto: cominciò con l'amara fatica dei derelitti, si va compiendo alla presenza di ministri, che non hanno però recato mai una medaglia d'oro per Isernia, che pure ebbe, più di ogni altra, bagnate di sangue le sue macerie.
Questa città non domanda medaglie; si tiene le sue croci! e la sua dignità, fatta severa nei secoli, non s'offende se piccoli uomini parlano senza rispetto del sacrificio immenso che la Patria impose.
L'omaggio non manca di certo.
Giunge continuamente e non dall'Italia soltanto.
Si ricordano d'Isernia soldati di tutte le razze, che qui sentirono al fondo di ogni tragedia della guerra il palpito insopprimibile della umanità; e se ne ricordano i profughi vagabondi, che qui, dove la vita era un miracolo, furono accolti e soccorsi nel nome di Dio.
Scrivono. Ritornano. Mandano parole di meraviglia; arrivano e sono colpiti vedendo le case, le strade, la gente, la vita.
Li accoglie un'ospitalità così cordiale da indurli a prolungare il soggiorno e la ritrovata dimestichezza con l'ambiente li rende lieti.
Ma anche chi non è venuto mai, si ferma volentieri!
Ai Cappuccini, in quella specie di pontile che la città protende per l'approdo dei forestieri fra le vicinissime valli del Sordo e del Carpino; oppure sulla piazza Andrea d'Isernia assorta nella contemplazione della catena delle Mainarde; o sull'altipiano della Stazione, ch'è una vasta tolda in un mare di verde, il forestiero si ferma.
Lo ferma il paesaggio.
Stanno ai lati della città due valli intensamente coltivate.
Dalle quadrettature variopinte degli orti sorgono possenti muraglioni di pietra; ad essi Isernia si affaccia con i suoi campanili, i suoi palazzi, i suoi giardini. Seguendo lo slargarsi della valle si scopre una strana galoppata di colli, come una cornice di macchie oscure di boschi, di grigie pietraie, di manti argentei di uliveti, di verdi pendii di prati.
Più lontano stanno i monti altissimi, coperti di neve, in uno sfarzo immacolato, nella grande luce del sole.
A chiamare i nomi delle montagne è come un fatidico rosario: le Mainarde, Monte Marrone, Monte Cavallo, Monte Mare, la Meta, la Metuccia e più oltre le cime che nascondono Capracotta e Roccaraso: sembrano tutte vicine, affiancate. Di fronte, sull'altro punto dell'orizzonte, s'alza il massiccio del Malese, dominato dalle vette ardue e solitarie di Monte Miletto.
E, più vicine, stagliate contro un cielo più azzurro, le montagne di Pesche e di Miranda.
Nella conca immensa di questo incomparabile scenario si sentono solo le canzoni dei fiumi, che salgono dalle gole di pietra scavate dall'acqua attraverso i millenni.
La contemplazione avvince, dà a1lo spirito le estatiche serenità del paesaggio. Inattesi conforti vengono dalle immagini di tanta bellezza! Quando il forestiero riparte Isernia gli ha già messo nell'animo così, furtivamente, un pizzico di simpatia per questi luoghi: l'ospite è innamorato!
Ecco l'arcana ragione di questa strana fortuna della città molisana, che piace tanto anche a chi non v'è nato.
A Isernia si lavora molto e si lavora volentieri nelle botteghe e nelle case perché se gli uomini sono abili nell'arte del ferro battuto, del rame a sbalzo, del legno intarsiato, del marmo scolpito, dell'argilla smaltata, abilissime sono le donne nel creare delicati merletti, vaporose trine coi fili e coi fuselli.
Si racconta che ad insegnare la difficile arte alle fanciulle della città siano state le suore benedettine del Convento di Santa Maria delle Monache.
Molte di quelle che vi stettero nel XVI secolo erano di origine spagnuola. E forse a calmare la nostalgia della loro terra lontana, a riempire il monotono scorrere della clausura, fatta densa dall'ombra e dal silenzio, esse istruirono le giovani dame isernine nell'arte del tombolo.
ll merletto tipico è a motivi floreali, ha un carattere barocco ma è di una ingenuità casalinga anche se appare ricco e qualche volta presuntuoso persino. L'altro, quello modernizzato, affida tutta la sua bellezza alle volute capricciose di una fascetta sempre eguale, che segue gli arabeschi di un disegno che varia da lavoro a lavoro. Da questi delicati prodotti di mani femminili l'antica città sannitica, romana, medioevale e moderna riceve la fama più gentile.
Onesta e laboriosa la gente di questo paese; ama anche la buona mensa e gli svaghi sereni. Ha pur'essa i suoi sogni e le sue speranze ma sa attendere.
Giustificate, legittime aspirazioni di tutto il popolo non provocano insofferenze, convulsioni: tutto viene per chi sa aspettare!
C'è una grande saggezza nel cuore degli isernini; una saggezza affinata dalla esperienza, una saggezza che tante volte gli estranei non riescono a comprendere.
E sia questo modo intelligente di vivere, sia l'aria salubre ed il clima mite, sia il paesaggio con la sua luminosa bellezza, sia l'esperienza di tante vicende, sia quel senso quasi religioso con cui accetta la sorte felice o la mala ventura, essa, la gente, è buona;
Questo è il volto del mio paese.
E questa è l'anima che lo rende vivo.
Franco Ciampitti
Fonte: Città d'Isernia, 10 settembre 1943-1953, Tip. Riva, Novara 1953.