Mio nonno, Valerio Carfagnini, si definiva "un credente scettico" e gli piaceva aggiungere: «Ho sempre ammirato l'apostolo Tommaso che, secondo me, è stato - nei Vangeli - trattato ingiustamente. Non ho mai considerato il dubbio un peccato, né la fede un merito, anzi: solo in nome della fede (e mai del dubbio) si sono compiuti e si compiono misfatti atroci, si scatenano guerre, sbandierando la fede per giustificare violenze, sopraffazioni, e persino genocidi. La storia lo dimostra. E non solo la storia con la S maiuscola, ma anche quella minuscola, di cui i libri non parlano. Quante nefandezze sono imputabili a una fede che non ha niente a che fare coi comandamenti di Dio!».
– Nonno, ma devi ammettere che ci sono anche fedeli buoni, quelli che si sforzano di ascoltare gli insegnamenti evangelici... che credono al Paradiso e all'Inferno, ai miracoli... sono tantissimi! Non credi anche tu che la fede vera sia quella degli umili, delle persone che non farebbero mai del male a nessuno, perché sono convinti che bisogna amare il prossimo, perdonare, non vendicarsi, ma porgere l'altra guancia?
Il nonno sorrise guardandomi:
– La fede degli umili, dici? Anche questo è un malinteso romantico, credimi, e ti racconterò un episodio di cui sono stato testimone, moltissimi anni fa.
Subito dopo la mia laurea in medicina fui costretto ad accettare un incarico a Capracotta, nella provincia di Isernia, il comune più alto dell'Appennino (oltre 1.420 m.s.l.m.). Il medico condotto del paese era morto da quasi un anno ed io avrei dovuto prendere il suo posto.
In famiglia mi avevano già dato il benservito dicendo: «Ti abbiamo mantenuto fino alla laurea: adesso arrangiati».
Non avevo scelta e accettai l'incarico "ereditando", oltre alla condotta, anche la casa-ambulatorio del defunto dottore, che era morto senza eredi.
Così partii da Montorio.
Arrivai a Capracotta in una tarda sera d'inverno, uno di quegli inverni feroci e impietosi a cui avrei imparato ad abituarmi negli anni seguenti. Nevicava.
Andai a bussare al portone della canonica (e dove altrimenti?).
Scossi il battente più volte, e finalmente la porta si aprì... vidi sbucare dal buio una donna senza età, tutta vestita di nero, con un viso pallido, vagamente caprino.
– Scusate, ma sono nu poco azzoppata – belò la donna, porgendomi l'estremità di un bastone, che riuscii a stringere fingendo che fosse la sua mano.
– Nun dicetemi niente! Lo so chi siete. Siete il nuovo dottore... ma entrate, entrate, che siete più morto che vivo!
Incoraggiato da così benevola accoglienza, entrai in casa, e la neve mi scivolò di dosso allagando il pavimento.
Quella specie di perpetua mi puntò il lume in faccia e mi fissò, e io fissai lei, sbalordito: e... sì... quella vistosa barbetta bianca sul mento, quella testa oblunga... era una capra travestita da donna?
E quando sentii belare e "zoccolettare" sul pavimento, non mi meravigliai più di tanto...
Se un paese che si chiama Capra-cotta, ci sarà pure una ragione, mi dicevo.
"Bee... bee..." ai miei piedi una capra vera, stava leccando la neve sciolta sul pavimento, e pareva gustarsela come se fosse suchemel, il caprifoglio, e mi leccava gli scarponi, strusciandosi contro le mie gambe...
– Buona, buona, Rosa, lascia in pace il dottore. Scusatemi tanto, dotto', questa... è Rosa, la mia caprettina. È buona assai! E pure intelligente.
– E voi come vi chiamate?
– Mi chiamo Rosa, pure io...
Le due Rose mi tenevano quasi bloccato sul pavimento, finché tentai di muovere un passo per tendere ancora la mano e stringere il bastone che la perpetua mi porgeva.
– Piacere, Rosa, io sono Valerio Carfagnini!
– Lo so, lo so – rispose una delle due Rose, e in quel momento entrò il prete: un omino tutto bianco, esile come un fiammifero, ma dal piglio deciso ed energico... Intanto era stato acceso un altro lume, e io vidi, in quel viso di cera, balenare uno sguardo sorprendentemente allegro, arguto, indagatore...
– Don Ciccio, vi presento il nuovo dottore – disse la Rosa n. 1 e don Ciccio scattò come una molla verso di me e mi strinse in un abbraccio vigoroso che non finiva più.
– Bene, bene! Sia benedetto Iddio! È Lui che ti manda, figlio mio, figlio mio benedetto...
E sciogliendosi finalmente dall'abbraccio che mi aveva quasi tolto il respiro, continuò:
– Non potevamo più aspettare... qui si ammalano tutti in continuazione, pure la capra, o per troppo freddo, o per il troppo caldo... vedrai, vedrai figliolo mio benedetto, in che inferno sei capitato!
A conclusione di questa incoraggiante accoglienza, mi stampò un bacio in fronte.
E quel bacio era come un timbro sulla prima pagina della mia nuova vita: ero diventato il medico condotto di Capracotta!
Mi sistemai, così, nella casa del mio predecessore, una specie di biblioteca-ambulatorio. La camera da letto era una mansarda, dal cui tetto spiovente vedevo crollare la neve con tonfi ovattati.
Da lì avrei imparato a osservare il mutare delle stagioni, le varie specie di uccelli, soprattutto notturni, e gli spazi lontani, riempiti dai colori mutevoli dei boschi, e i tetti delle case, che fumavano d'inverno e luccicavano dopo le piogge.
Non impiegai molto tempo a conoscere tutti in paese: il sindaco, pacifico anche se sempre indaffaratissimo e sudato persino d'inverno; il farmacista, con una moglie gelosa e sette figli sempre malaticci, e la maestra, donna Adelina, anziana, alta e ossuta, sempre con lo stesso vestito marrone scuro, lungo fino ai piedi e stretto stretto: per questo, e soprattutto per la capigliatura raccolta, che finiva con un ciuffo a punta sulla fronte, pareva proprio una matita con le braccia.
La mattina ricevevo i pazienti in ambulatorio, e il pomeriggio lo dedicavo alle visite a domicilio. Per recarmi nelle case più lontane usavo un calessino, tirato da un cavallino, Lindoro, intelligente e instancabile (altra "eredità" del defunto dottore).
Ma il più delle volte, se il tempo me lo permetteva, giravo a piedi. Mi piaceva camminare per quelle stradine di sassi, quasi sempre spazzate dal vento che mi portava gli odori dei campi, dei cortili, delle case... (origano, cardi e caprifoglio, peperoni e pomodori arrostiti).
Mi adattai facilmente alla nuova vita e, dopo una certa diffidenza iniziale, sentivo che i miei pazienti avevano cominciato a fidarsi del nuovo dottore.
Devo ammettere, però, che gli abitanti di Capracotta, rispetto a quelli di Montorio, erano più riservati.
Le donne mi parevano taciturne, schive, riluttanti alla confidenza, ma sempre rispettose, riguardose persino.
Ma ero fin dall'inizio rimasto colpito soprattutto dalla devozione di quelle persone: era quasi palpabile, persino ostentata (immagini di santi e tabernacoli nelle case, lumini sempre accesi nel cimitero, chiesa sempre gremita alle funzioni, e addobbata con diligenza e... persino con un certo sfarzo).
C'era, nel duomo, la statua di un santo (non ricordo il nome... S. Rocco? S. Costanzo?) in una nicchia a sinistra del fonte battesimale. A grandezza naturale. Tutta di gesso, fuorché i sandali, che erano di vero cuoio. Aveva un'aureola fiammeggiante di rame, incollata alla testa, e dal collo gli pendeva una matassa enorme di corone e collane (alcune anche di valore). Tutti ex voto.
La nicchia era costantemente illuminata da tre ceri, che venivano spenti la notte e accesi il mattino.
I fedeli si rivolgevano a lui, più che a Dio, mi confidò una volta don Ciccio, forse perché potevano guardarlo mentre gli parlavano (così gli aveva spiegato Rosa).
Ogni tanto, in particolari ricorrenze liturgiche, lo caricavano su un carro col baldacchino, e lo portavano in processione perché benedicesse i raccolti, tenesse lontana la grandine e... i lupi.
Sì, i lupi.
Certe notti d'inverno io percepivo la loro presenza, e mi affacciavo alla finestrella della mansarda, e li vedevo: erano in branco, una striscia nera fugace e silenziosa.
A volte, invece, li sentivo ululare lontano.
Quando la fame, d'inverno, li spingeva verso le case, le stalle e i cortili, il giorno dopo si veniva a sapere che, senza un gemito o un rumore, era sparita qualche pecora, o qualche gallina...
– Quelli non sono lupi, ma diavoli, dovete credermi dotto' – diceva Rosa costernata, abbracciando la sua omonima.
La vita non era facile per nessuno, a Capracotta, dove la terra era quasi l'unica fonte di guadagno, assieme alla pastorizia, e bastavano una grandinata o una siccità prolungata a vanificare un anno di fatiche.
Un anno prima che io partissi per tornare a casa, a Montorio (un grave lutto aveva sconvolto la mia famiglia) fui testimone della vicenda di cui ti ho parlato.
Dopo un inverno estremamente mite per quell'altitudine, con scarse nevicate, era arrivata, con largo anticipo, la primavera. La terra, arata e seminata, aspettava la pioggia, che non veniva.
Giugno esplose in un'ondata di caldo secco ed estenuante.
Pareva che una febbre cattiva stesse lentamente divorando tutto il paese. Persino i boschi parevano esausti e sbiaditi.
Dai pozzi l'acqua evaporava inesorabilmente. L'arsura, come una maledizione, bloccava quasi il respiro.
Io stesso non avevo acqua sufficiente per le mie necessità.
La gente bolliva e ribolliva l'acqua usata. Lavarsi era diventato un lusso proibito.
E allora gli abitanti di Capracotta si rivolsero al loro santo: era bastato che durante la messa don Ciccio recitasse, a voce più alta del solito, l'atto di dolore, seguito dal mea culpa, perché in ognuno di loro si insinuasse la certezza che quella siccità era un castigo per i loro peccati. Ne erano sicuri. Nessun dubbio sfiorava le loro menti, né le loro coscienze: erano tutti peccatori.
La siccità era un castigo di Dio e il santo doveva intercedere per loro.
Così iniziarono le processioni.
Un pomeriggio di luglio il santo fu prelevato dalla sua nicchia, caricato su un carretto di legno, senza baldacchino (perché potesse guardare verso il cielo), e fu portato in giro per il paese, per i campi, fino al confine coi boschi.
Davanti il prete, col sindaco, dietro gli uomini, e poi le donne e i bambini. C'erano proprio tutti compresi i vecchi e i bambini piccolissimi (ma io non c'ero). Scalzi in segno di penitenza, recitavano litanie, e si battevano il petto chiedendo perdono per chissà quali peccati e promettendo sacrifici e offerte per gli anni a venire.
Don Ciccio ogni tanto spruzzava acqua benedetta, e si fermava, affranto, dove trovava un'illusione d'ombra.
Allora tutta la lunga fila di fedeli sembrava immobilizzarsi per sempre, come se si stesse trasformando in un muro di sabbia in procinto di crollare... e invece resisteva... resisteva.
Quando il sole tramontò, il santo fu riportato finalmente in chiesa!
Il giorno dopo non piovve.
Ci fu un'altra processione.
Nessun segno di pioggia.
Un'altra processione ancora: niente da fare! Il sole pareva prendersi gioco di tutti quei disgraziati che adesso lo maledicevano.
Per nove giorni di seguito a Capracotta la gente, con un'ostinazione oramai vicina alla follia, portò in giro il santo sotto un cielo beffardamente sereno.
Il decimo giorno non ci fu nessuna processione.
"Sono tutti morti!" pensai.
Non venne nessuno in ambulatorio.
Nel pomeriggio non incontrai nessuno per strada. Gli usci erano chiusi.
In chiesa trovai le due Rose davanti alla nicchia del santo. Le candele erano spente.
– Dotto', nun ce resta chiù niente da fa'... salvo una cosa... – mi bisbigliò Rosa.
– Quale cosa? – le domandai.
– È nu segreto, e se ve lo dico non funziona... non posse chiù parlà! Statevene zitto pure voi e tornatevene a casa!
– Questi sono tutti pazzi – pensai tornando a casa.
Quella notte cercai di capire quale soluzione stessero escogitando, e mi addormentai. Sognai Capracotta che bruciava, la città di Troia in fiamme, il santo che usciva da un cavallo di legno... ma non era di legno, era un cavallo vero che galoppava sul tetto...
Mi svegliai di colpo: sul tetto spiovente pareva che scalpitassero cento cavalli: l'acqua entrava dalla finestrella con gioiosa prepotenza...
Guardai fuori: sotto un cielo di piombo Capracotta si lasciava investire da una pioggia scrosciante, sghignazzante, benefica e ristoratrice!
Corsi in chiesa a chiedere notizie alla perpetua, o a don Ciccio, che di solito a quell'ora aveva già celebrato almeno tre messe (era domenica).
Mi aspettavo di trovare la chiesa piena di gente osannante felice... e di vedere bambini allegri sul piazzale a farsi lavare da tutta quell'acqua!
E invece non vidi nessuno.
La chiesa era deserta.
La nicchia del santo... vuota!
In un angolo, dentro una cesta, giacevano le matasse di ex voto, e i sandali di cuoio del santo.
Andai in canonica a cercare Rosa, e la trovai in cucina, seduta alla finestra con la capra in braccio, pallida e inebetita.
– Rosa! Sei contenta? Hai visto che bella pioggia?
– Bee... Bee... – risposero entrambe, e Rosa n. 1 mi fece cenno di tacere.
– E don Ciccio?
– Don Ciccio dorme.
– Ma è quasi mezzogiorno!
– Be... be... lui dorme. Non sarà mica proibito?!
– Ma sta bene?
– Sta bene... sta be... be... bene...
Don Ciccio russava, pallido come il lenzuolo. Gli tastai il polso, e capii che quel sonno era dovuto a un sonnifero.
Tornai in cucina, ma le due Rose erano sparite sotto quel diluvio che prometteva di non finire più...
Piovve per tanti giorni, e poi, lentamente, la vita tornò alla normalità... ma nessuno parlò più di quella notte...
Se io provavo a entrare in discorso... si ammutolivano tutti, persino i bambini, come se qualcuno avesse loro imposto l'ordine tassativo di tacere.
Col passare delle settimane la nicchia vuota, in chiesa, mi pareva a volte una bocca aperta per un urlo, a volte per uno sbadiglio, a volte per un sogghigno dissacrante.
Continuò a piovere per tutto il mese, anche se a intervalli... e finalmente il sereno arrivò con un ottobre fresco, dorato e rilassante.
I danni della lunga siccità diventarono un ricordo...
Restava il segreto su quella nicchia vuota, come un muro di diffidenza nei miei confronti...
Imparai a conviverci... e finii col non pensarci più.
Persino don Ciccio evitava di parlarmene, anche se, da come mi guardava, pareva volesse scusarsi di non poterlo fare... (mi voleva bene davvero, quel prete!).
Una mattina arrivò in ambulatorio un bambino trafelato:
– Dotto', venite! Rosa sta male! Sta molto male...
– Quale Rosa? La capra o la donna?
– Tutte e due, currete!
Lasciai l'ambulatorio e corsi in canonica: Rosa giaceva su un divano, stringendosi alla capretta, a cui assomigliava sempre di più...
– Che ti succede, Rosa?
Feci per staccarle la capretta dalle braccia... "Bee... Bee". Gemettero entrambe.
La guardai, e capii subito che la povera perpetua era completamente disidratata.
– Da quanti giorni non bevi? – chiesi accostandole un bicchiere alle labbra.
– Nooo! – Urlò come una forsennata! – Non posso bere quell'acqua. Ci sta il gesso, dentro... è acqua maledetta!
– Ma di che gesso parli?
– Il gesso... il gesso del santo.
– Che significa? Parla per amor di Dio!
E Rosa mi guardò disperata:
– Neppure la mia Rosa può bere. Dobbiamo morire tutte e due... ma io lo merito, Rosa no!
E cominciò a singhiozzare...
Allora le dissi che solo se mi avesse spiegato tutto avrei potuto aiutarle, e farle guarire.
E fu così che, tra un singhiozzo e l'altro, venne fuori la verità su quella nicchia vuota.
Dopo il fallimento delle nove processioni, avevano tutti deciso che il santo meritava un castigo, ma don Ciccio non doveva assolutamente saperlo, perché non avrebbe mai e poi mai permesso che si commettesse il sacrilegio che avevano in mente di compiere.
Così lei si era incaricata di procurare il sonnifero, rubandolo dal mio ambulatorio quando veniva a fare le pulizie.
Quella sera ne aveva messo una bella dose nel latte che lui beveva per cena, e don Ciccio era piombato in un sonno profondo.
In silenzio, durante la notte, quattro uomini erano entrati in chiesa, avevano staccato la statua dalla nicchia dopo averla spogliata delle matasse di ex voto, e averle tolto i sandali, e l'avevano portata fuori dalla chiesa, dove tutti gli abitanti erano arrivati per dare al santo la lezione che si meritava.
Lo avevano caricato sul carretto per condurlo al luogo dell'esecuzione.
In una processione silenziosa, biascicando ciascuno ogni genere di insulti e di maledizioni, avevano trascinato il condannato a morte fino al pozzo grande, e lo avevano scaraventato giù.
Aveva avuto quello che si meritava!
Non era più un santo protettore, ma un demone malefico, e quindi solo con la sua distruzione poteva finire la siccità e infatti... il giorno dopo non era venuta la pioggia?
Poi, tutti in silenzio, convinti di aver fatto la cosa giusta, erano tornati a dormire, dopo un solenne giuramento: nessuno di loro avrebbe mai riferito a don Ciccio, né al dottore, quello che era successo.
Ora, però, Rosa temeva la perfida vendetta della statua: lei infatti aveva somministrato il sonnifero a don Ciccio, e l'acqua che bevevano lei e la capretta era contaminata... avvelenata dal gesso...
Per questo aveva smesso di berla.
La povera perpetua aveva concluso il racconto supplicandomi:
– Dotto' mi sono confessata con voi! Ora datemi l'assoluzione e liberatemi da questa maledizione... Forse io merito di morire, per aver dato il sonnifero a don Ciccio, ma Rosa mia non ha fatto niente di male...
E singhiozzando baciava la sua capretta...
Impiegai ore a convincerla che non ero io che potevo assolverla, ma solo il prete, e don Ciccio avrebbe certamente capito, perdonato e assolto.
Un po' confortata, Rosa mi baciò le mani, prese in braccio la capra, le diede da bere e poi bevve anche lei.
Quanto a don Ciccio, mi confidò che aveva avuto il sospetto... ma che in fondo in fondo quel santo non gli era mai stato simpatico.
– Devi capire, figlio mio: qui la fede non è sempre quella che tu e io vorremmo che fosse...
Da allora la nicchia in chiesa rimase vuota, e uno alla volta i "miracolati" di un tempo, o i loro parenti, erano venuti a riprendersi gli ex voto... e i ceri rimasero spenti per sempre.
Quanto a me, me ne sono andato senza grandi rimpianti: a Capracotta, nonostante tutto, non mi avevano mai veramente considerato uno di loro, proprio perché nessuno dei "fedeli" che avevano scaraventato la statua nel pozzo, era mai stato sfiorato dal dubbio che il santo non c'entrasse proprio niente con la pioggia, o con la siccità, o con la grandine, o coi lupi... come avevo vanamente (e rispettosamente) tentato di spiegare, quando ne avevo avuto l'occasione, durante il periodo delle processioni... mentre curavo orribili vesciche ai piedi e ogni genere di sintomi da colpi di calore...
Alla ragionevolezza del dubbio avevano preferito la comoda irrazionalità di una fede (o non sarebbe più esatto dire superstizione?) che tutto spiega e tutto giustifica...
Ecco perché mi è simpatico san Tommaso, e neppure lui, per colpa di quel "se non vedo non credo" era stato considerato dagli apostoli uno di loro.
Mirella Sotgiu