L'applauso più lungo che si ricordi, in uno studio televisivo italiano, è quello che accolse Gary Cooper al "Musichiere" a fine anni Cinquanta. Il duetto con Mario Riva iniziò a sorpresa.
Appena seduto sullo sgabello, l'attore accese una sigaretta, un gesto proibito nelle dirette da via Teulada. Gelo e imbarazzo in sala e dietro le quinte, che il conduttore risolse imitando subito l'ospite: «Se fuma Gary Cooper, vuoi vede' che non posso fuma' io?». Roma ha sempre amato, contraccambiata, il divo americano. C'era già venuto subito dopo la guerra, diretto a Cassino e Mignano di Montelungo, un paese incuneato fra Lazio e Molise, martoriato per nove mesi dai nazisti: qui incontrò la bambina Raffaella Gravina, che aveva adottato a distanza attraverso il Foster Parents Plan per l'assistenza ai "War Children". A Roma tornò tante volte, anche pochi mesi prima della morte. Si spense cinquant'anni fa a Beverly Hills per un tumore. Era nato nel Montana nel maggio 1901 e, da una settimana, aveva compiuto sessant'anni. Nel maggio '59 era stato battezzato nella religione cattolica dopo una conversione maturata gradualmente. Finito il tempestoso amore con Patricia Neal, che scandalizzò l'America benpensante, si era riunito nella fede e nella vita alla moglie Veronica "Rocky" Balfe, nipote dello scenografo Cedric Gibbons, vincitore di undici Oscar, l'artista che aveva disegnato la celebre statuetta. A Roma Cooper aveva incontrato Pio XII: «Quando il Papa venne al suo fianco –, ha raccontato la figlia Maria, – papà ha voluto inginocchiarsi per baciargli la mano e ha perso l'equilibrio tanto da incespicare nella scarpa scarlatta e nel lembo del mantello». Rosari, santini e souvenirs, dei quali si era caricato le braccia, caddero tutti a terra.
Ma a Roma ci furono anche incontri profani. L'americana Dorothy Dentice di Frasso, sposata a un conte italiano, s'innamorò dell'attore, lo "requisì" a Villa Madama dove abitava e ne divenne la "maestra d'eleganza": buttata l'orribile giacca verde mela dell'attore, convocò per lui barbiere, camiciaio, calzolaio e lo accompagnò dall'inarrivabile Ciro Giuliano, che dettava legge dalla sua sartoria in corso Italia dopo essere arrivato a Roma da Capracotta, a quindici anni, come apprendista. Indro Montanelli lo ha immortalato nei suoi "Busti al Pincio", fissandone «il profilo reso aristocratico dal naso aquilino, la riservatezza e la soavità dei modi da diplomatico vecchia scuola, il metro pendulo dalla spalla destra e la mezza sigaretta di marca nazionale incombusta fra le labbra... Era un ometto di statura un po' inferiore alla media, magnificamente, ma anche quietamente vestito, curvo di spalle e con un volto mansueto e malinconico sotto una folta chioma di capelli lisci e lievemente argentati». Inventò uno stile nuovo: appoggiava le giacche alle spalle del cliente, senza imbottiture, e le lasciava cadere per gravità, sciolte e leggere, invece di rialzarle con telette rigide e imbottiture di bambagia. Montanelli ebbe «il più bel vestito che mai avessi portato sino ad allora». Gary Cooper anche.
Le foto mostrano l'attore mentre percorre via Veneto a piedi, in blazer blu, e perfino a cavallo, nei pantaloni di pelle francese confezionati da Mammini, lo specialista di abbigliamento per equitazione che vestiva i fratelli D'Inzeo. Elegantissimo, ma il viso ormai sciupato dalla malattia. Nell'aprile '61 James Stewart ritirò per l'amico l'Oscar alla carriera che, in punto di morte, si aggiungeva a quelli vinti per "Il sergente York" ('41) e "Mezzogiorno di fuoco" ('52). Si racconta un episodio dell'infanzia: una sera, Gary fissava incantato la fiamma del camino; la madre entrò nella stanza e, notando lo sguardo assorto ma pieno d'espressione, gli chiese: «A che cosa stai pensando?». «A niente, mamma». E lei, di rimando: «Tu puoi diventare un grande attore».
Pietro Lanzara
Fonte: P. Lanzara, Un sarto per Gary Cooper, in «Corriere della Sera», Milano, 18 settembre 2011.