Le donne, in genere, sono loquaci; quelle del popolo, specialmente, perché piene d'impulsività, sono facili all'amore ed all'ira, onde, per una parola, per un gesto, per un malinteso trascendono subito all'alterco, all'insulto, che finisce in rissa. L'arma della donna è la lingua e con questa accanitamente combatte. Le offese, limitate dapprima alle loro poco rispettabili persone, si estendono ben presto ai parenti vivi e morti.
– La faccia téia è capace de chésse e chiù de chésse, ca nen tié unóre e manche vergógna e tutte ru munne è ru tié.
– Chigna? Ertù, dissiparróbba, iuste tu vuó parlà, che nen te sié saputa fa mieà re cunde e nen piénze che a fa panunte e vèvete de vine?
E qui, mentre una delle protagoniste seguita la diatriba feroce, e voi credete che sia il principio della fine, ecco che la terribile avversaria ricompare dall'alto della finestra, con una compagna invero poco ragguardevole,... la scopa, che lascia penzoloni di fuori, non senza farsi sfuggire, evidentemente soddisfatta, un:
– Parla che chésta, ca è la para téia.
Oreste Conti
Fonte: O. Conti, Letteratura popolare capracottese, Pierro, Napoli 1911.