La bimbetta dai riccioli biondi raggiunse il ragazzo che, con circospezione, aveva finalmente attratto la sua attenzione, ebbero un breve dialogo, lui le consegnò una giacca da uomo, la salutò con una carezza visibilmente commosso. La piccina attonita, seguì con lo sguardo il ragazzo che indossava la divisa delle Schutz-Staffeln, le famigerate SS, e quando svanì alla sua vista corse dai genitori, consegnò la giacca al padre e, con precisione, riferì il sinistro messaggio che aveva appena ricevuto: dovevano immediatamente lasciare la casa e fuggire lontano perché "A sera casa kaputt!".
Era un giorno del novembre 1943 e a sera, dalla vaccaréccia dove si era rifugiata con la sua famiglia, quella bimba vide il susseguirsi delle esplosioni che dilaniarono tutti gli stabili nei pressi dello scalo ferroviario S. Pietro Avellana-Capracotta. Divampò un incendio che si propagò illuminando a giorno il borgo tanto che ru catuózze, sapientemente assemblato dai carbonai di Cervinara per trasformare la legna in carbone, e la fornace, con la sua ciminiera che sembrava quasi lambisse il cielo, continuarono a fumare per molti giorni a seguire. Era una guerra oltremodo atroce che aveva fatto emergere un mondo di barbarie e comportato alla popolazione civile le più assurde traversie.
Enrico, il padre della bambina, fissando il polveroso cumulo di macerie ed intercettando il punto in cui sorgeva la casa che lui stesso aveva costruito, ripensò alla sua vita e a quell'autunno del 1929 quando decise di trasferirsi, transitoriamente credeva, da Capracotta allo scalo ferroviario con la moglie e i figli, un riccioluto furfantello e due fanciulline, una ancora in fasce. La nuova sistemazione era dettata dall'esigenza di ultimare dei lavori nella zona e la cattiva stagione non gli avrebbe permesso di spostarsi agevolmente. Non si allontanava però a cuor leggero poiché avrebbe disertato gli incontri con i suoi fraterni amici, con i quali trascorreva il poco tempo libero che gli rimaneva, si trattava di preziose occasioni per parlare di letteratura, filosofia e politica e di tenersi informato sugli accadimenti del mondo che seguiva con molta attenzione. Un suo facoltoso amico poi, gli dava libero accesso alla sua fornita biblioteca e ciò gli aveva consentito di appassionarsi ad Hugo, Hegel, Dumas, Marx, Kant dai quali, insieme all'unico libro che possedeva, la Sacra Bibbia, prendeva spunto per le sue riflessioni che annotava su qualsiasi pezzo di carta.
In campo politico mal tollerava l'ideologia di quel periodo, non condivideva le scelte e non lo nascondeva, al contrario propendeva con vigore all'affermazione dei diritti dei lavoratori, quasi sempre calpestati, ed aveva simpatie per le dottrine che si andavano diffondendo nell'est europeo, pur manifestando una profonda fede cattolica creando così un evidente paradosso. Alla fine cercava di convincersi che lo scalo non era poi così lontano da Capracotta ed all'epoca era una località particolarmente vivace con i numerosi lavoratori della fornace e tutti quei passeggeri dei treni e del postale.
Maria, la moglie di Enrico, colpita dal gran traffico di gente e guardandosi attorno, capì che nella zona mancava qualcosa che soddisfacesse le esigenze di tutti quegli avventori ed ebbe un'intuizione: c'era bisognodi una locanda! Per lei però, con tre bambini in tenera età e con gli scarsi mezzi economici di cui disponeva, era impensabile intraprendere un'avventura simile. Provvidenziale fu la sorella che, accompagnata dal marito, scese allo scalo da Capracotta per farle visita, ad essa Maria partecipò la sua idea, vi fu un "summit" familiare, allargato alla cugina pugliese Caterina e a suo marito Marco, avente ad oggetto il definitivo trasferimento allo scalo con conseguente realizzazione delle rispettive dimore.
Nel confronto gli uomini ebbero la peggio, ma solo perché dotati di buon senso e consapevoli dell'ostinazione delle due sorelle, ed alla fine l'intuizione di Maria divenne realtà! A poche centinaia di metri dalla Stazione S. Pietro Avellana-Capracotta, mast'Enrico fabbricò uno stabile con tre portoni, a destra c'era la sua casa, a sinistra quella dei cugini ed al centro c'era la locanda di Olinda e Giulio, noti ai più come mamma Linda e papà Giulio.
Olinda e Maria erano le figlie di Pietro il fabbro che, rimasto vedovo, nei lunghi e rigidi inverni capracottesi per sbarcare il lunario, era costretto ad emigrare in Puglia portando con sé il figlio maschio e affidando le figlie alla signora Adelina che insegnava loro l'arte di condurre adeguatamente una casa e quella culinaria. Ciò tornò utile a mamma Linda per gestire la locanda prendendo letteralmente per la gola i clienti, anche i più esigenti, sopperendo così ai limiti del suo caratterino. Le peculiarità che emergevano nelle due sorelle, ereditate sicuramente dal padre, erano la pervicacia e la risolutezza, occorreva conoscerle profondamente per capire che la loro asprezza era il risultato di un vissuto doloroso, senza madre e con un padre particolarmente autoritario, al contrario la bontà, la saggezza e la flessibilità erano prerogative dei mariti che compensavano così le loro carenze.
Passarono gli anni e il tempo allo scalo trascorreva più o meno tranquillamente perché, insidiosi, arrivavano gli echi di quanto accadeva nel resto dell'Italia e dell'Europa, si cominciava a parlare di Hitler, di nazismo, di Asse Roma-Berlino fra Italia e Germania, mentre l'attività della locanda era oramai decollata e mamma Linda poteva annoverare fra i suoi clienti personalità di un certo rilievo, dal comandante della vicina Forestale, al Podestà e persino il Prefetto, con i quali era addirittura entrata in confidenza.
Quando mast'Enrico, per lavoro a Pantelleria, fu ospite delle patrie galere per le sue idee anti regime, mamma Linda lasciò la locanda, cosa che faceva raramente, e si recò personalmente a Campobasso, proprio dal Prefetto, per intercedere per quel buon uomo del cognato e grazie al suo intervento fu liberato. In seguito, con la sua grinta, lo metteva in guardia affinché non si trovasse in analoghe situazioni ed in effetti quell'esperienza lo aveva molto segnato ed avrebbe dovuto aspettare fino al 1947 per vedere garantito, all'art. 3 della Costituzione Italiana, il diritto di esprimere le proprie opinioni politiche.
Intanto in lui cominciava a montare l'angoscia, seguiva con preoccupazione gli eventi che vedevano come protagonista la Germania con le sue manie espansionistiche: rimase sbalordito quando nel marzo del '38 perpetrò l'Anschluss, ossia l'annessione dell'Austria, percepiva la pericolosità del Patto d'acciaio sancito con l'Italia che, a suo avviso, non aveva ben compreso che per i tedeschi quel patto militare significava fare la guerra senza riserve. Sbottò con gli amici di sempre che, come poteva, raggiungeva a Capracotta nel settembre '39, dopo la scellerata invasione della Polonia ad opera della Germania da cui ebbe origine la seconda guerra mondiale e, successivamente, nel giugno '40 con l'entrata in guerra dell'Italia esprimendo tutte le perplessità e i dubbi su quanto stava accadendo.
La guerra non risparmiò niente e nessuno, neanche quel paradiso che era il territorio di Capracotta tant'è che un infausto giorno, allo scalo ferroviario, arrivarono le SS. La prima cosa che fecero, dopo aver posizionato un carro armato proprio di fianco alla casa di mast'Enrico, fu quella di sequestrargliene una parte che divenne il loro quartier generale, questa volta le suppliche di mamma Linda presso le autorità caddero nel vuoto!
La non facile convivenza con la limitata libertà esasperava gli animi: in una stanza, dormivano, chiuse a chiave per precauzione, numerose persone e quando una notte i soldati tedeschi, in preda ai fumi dell'alcol, irruppero in casa di mast'Enrico in cerca di frauen. Il sangue freddo di Maria fu determinante: impose ai familiari silenzio di tomba... non dovevano quasi respirare finché il fracasso non cessò. Dopo quell'episodio mast'Enrico, che era sempre stato un fifone, se di notte udiva il minimo cigolio sentenziava:
– È giunta la nostra ultima ora!
La carenza di cibo di quei tempi li vide anche audaci: in assenza dei soldati tedeschi, papà Giulio trovò in cantina innumerevoli casse che contenevano polvere bianca, chiamò Maria e convennero che si trattava di farina, così ne sottrassero tre. Appena i tedeschi si resero conto dell'accaduto gridarono al sabotaggio perché avevano rubato esplosivo e, senza alcun indugio, sequestrarono papà Giulio, mast'Enrico e Marcucce. Mamma Linda, con un self control degno di una English lady, condusse i tedeschi alle casse per restituirle facendo loro capire che avrebbe voluto fare quel pane che, non di rado, avevano condiviso e questi, nonostante avessero compreso l'equivoco, per la liberazione dei tre malcapitati pretesero ed ottennero tre vacche che mamma Linda, Caterina e Maria si procurarono, con gran fatica, presso le masserie limitrofe.
Le preoccupazioni però per Enrico e Maria si estendevano anche sul fronte familiare infatti, con l'entrata in guerra dell'Italia, il loro unico figlio maschio che era cresciuto, ma riccioluto e discolo era rimasto, con sempre maggior insistenza manifestava l'intenzione di arruolarsi. Enrico, che nel primo conflitto mondiale era stato reclutato come combattente nelle fila del patrio esercito, con molta pazienza, cercava di fargli capire l'inutilità e la crudeltà della guerra ma anche che non aveva l'età giusta per poterla fare, con Maria, invece, erano veri e propri litigi. Sembrava che quel ragazzo provasse soddisfazione a fare il contrario di ciò che era giusto oppure a dire di no solo per far dispetto al suo interlocutore, forse perché non voleva essere considerato accomodante.
Fu per questo che quando in età adulta divenne un apprezzato personaggio pubblico (con grande stupore di tutti!) era considerato un abile negoziatore? Fuggì per "andare a fare la guerra" ma, secondo pronostico, fu rispedito a casa dove continuò a combinarne delle belle...
Oltre ai soldati tedeschi, allo scalo, arrivarono anche quelli francesi, inglesi, turchi ed i polacchi e, dopo l'iniziale reciproca diffidenza, incominciarono a manifestare l'esigenza di stabilire dei contatti con la piccola comunità locale, avevano nostalgia delle proprie case, delle famiglie, delle loro abitudini. I soldati polacchi, ogni sera, si riunivano alla locanda per recitare il rosario tutti insieme, quelli tedeschi mostravano le foto delle fidanzate, delle mogli o dei figli ma se mast'Enrico le guardava immedesimandosi nelle loro sensazioni di tristezza, suo figlio, sfoderando un sorriso a trentadue denti esclamava:
– Madonna gnà è brutte, pare nu ciucce! – suscitando ilarità nei presenti che avrebbero potuto pagarla anche cara, a niente valevano le raccomandazioni dei genitori.
Si sfiorò la tragedia quando un giorno il ragazzo si imbattè in una camionetta di soldati tedeschi travestiti da inglesi, mast'Enrico che aveva compreso l'inganno cercava invano di richiamarlo a sé, il ragazzo con gran foga li esortava a raggiungere i tedeschi per "ucciderli tutti", li avrebbe condotti lui, e per farglielo capire mimava una mitragliatrice. Questa "performance" gli costò una lunga permanenza in un nascondiglio in montagna, dove lo condusse papà Giulio, per timore di eventuali ritorsioni.
La piccola di casa frattanto, che aveva solo cinque anni, memorizzava quanto le accadeva attorno, solo anni più tardi avrebbe compreso che quel mezzo in cui si calava per riemergere con il bavaglino pieno di leccornie, cioccolato e dolciumi vari, che le donavano i soldati tedeschi e che poi divideva con il resto della brigata familiare, era un carro armato delle SS e che il messaggio del soldato che incontrò quel mattino del novembre '43 avrebbe, inevitabilmente, deviato il corso della vita della sua famiglia.
Qualche giorno dopo i terribili fatti, mast'Enrico decise di trasferirsi, lui che era nato al mare pensava di raggiungere la costa con la sua famiglia; con le pochissime cose che riuscì a recuperare e a caricare su ru traìne, dopo tre giorni di cammino, fece sosta in una cittadina del centro Abruzzo dove si incontrò con alcuni paesani che lo convinsero a non continuare il viaggio poiché, generosamente, gli avevano trovato un alloggio e, allettato dalla presenza delle scuole superiori grazie alle quali avrebbe potuto garantire un'adeguata istruzione ai figli, si convinse a fermarsi.
Rimase legatissimo a Capracotta, tant'è che quando ne parlava riusciva a trasmettere la magia e l'ardore che si impadronivano di lui. Tornò allo scalo per ricostruire lo stabile che per bieca logica militare era stato distrutto ed oggi, dopo 70 anni, è ancora là con quel che resta dell'insegna a bandiera della locanda di mamma Linda.
Alda Belletti
Fonte: A. Belletti, "A sera casa kaputt!", in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. IV, Proforma, Isernia 2013.