Da piccolo, quando tornavo a Capracotta per trascorrere quasi tre mesi con mia zia Elena, ritrovavo un caro amico, Giacomo, di uno o due anni più grande di me. A differenza mia, che trascorrevo le vacanze giocando e oziando, Giacomo non aveva vacanza perché lavorava aiutando i suoi genitori, contadini, nei lavori agricoli. Per esempio lo vedevo spesso, con un suo cavallo, trasportare ora grano ora fieno. E mi raccontava le sue attività e avventure in campagna e il fatto che non avesse mai un attimo per giocare. Già, perché giocare era un privilegio dei figli dei capracottesi emigrati in città. Essendo maschietti noi dedicavamo molto tempo a giocare a pallone; meglio sarebbe dire "lottavamo al pallone", attività tristemente esaltata dalla TV e dai mass-media e considerata scuola di vita. In realtà, con il senno di poi, quella occupazione fatta passare per ludica ed educativa, non era altro che dannazione e perversione; scuola di lotta, rude, banale e violenta, che non insegnava nulla se non lo scontro e la rivalità. "Gioco" in cui i corpi dei giovani piuttosto che essere amorevolmente curati e coccolati sono messi alla prova in una lotta continua al solo scopo di vincere e sopraffare gli avversari ricorrendo spesso a inganni e furbizie. Purtroppo il mio genitore, Marino, investì molto denaro per trasformare un fertile terreno coltivato a patate e orzo in un campo, conosciuto come il "campetto", per far "giocare" - pardon "lottare" - al pallone. Nonostante quelle vite così differenti io e Giacomo eravamo amici e mi piaceva la sua autenticità di giovane contadino di montagna, anche se avvertivo una certa durezza di vita e mi imbarazzava la mia condizione falsamente privilegiata. Poi non ci siamo più visti per tanti anni ma in questi ultimi quattro-cinque, da quando cioè sono tornato a vivere a Capracotta, mi è capitato di incontrarlo spesso e di frequentarlo, non fosse altro per la vicinanza delle nostre case. Talvolta l'ho incrociato alla Masseria Campanelli dove abitavano i suoi suoceri Michelina e Dantuccio, che andavo a trovare ogni tanto. E così raccontandoci tanti episodi e ricordando vite di antenati venne fuori la storia della Crocetta che mai avevo sentito e che continua a intrigarmi e, autorizzato dal mio amico, la racconto con la collaborazione dell'amica Anna Montaruli di Ruvo. Ecco la storia. Giacomo aveva il nonno paterno che si chiamava come lui ma siccome c'era l'uso del dialetto e quello di dare i diminutivi, quest'uomo veniva chiamato Giacomuccio, abbreviato Muccio, in gergo Mucce. Ricordo che mia madre mi raccontava di lui quando, sfollati durante la seconda guerra mondiale e rifugiati nel cimitero di Capracotta per alcuni giorni, Mucce si mise due bastoncini, due pezzetti di legno, tra la gota e le sopracciglia per tenere gli occhi aperti durante la notte e restare sveglio; non so, per timore dei morti o dei topi o di possibili furti o di incursioni di tedeschi o soldati. E ogni tanto mia madre lo ricordava come un vero contadino di montagna, infaticabile ed energico, arguto, saggio e felice del suo lavoro e della sua vita anche se dura e in balia della natura. Mia madre, evidentemente apprezzandolo, spesso mi diceva che il suo vero desiderio era di vivere in campagna e fare la contadina. Ma torniamo a Mucce. Accadde che in una notte del 1923 fa un sogno particolare: gli appare Gesù che gli dice - come fosse un ordine - di costruire una croce in un punto di Capracotta da cui si possano vedere tre paesi: Capracotta, Agnone e Vastogirardi. E aggiunge che questa croce doveva essere finanziata da lui, dal Parroco di allora, mi pare un certo don Antonio, e da una certa signora Colomba, benestante.
Nei giorni successivi il nostro protagonista si premura di raccontare il sogno alle altre due persone coinvolte. Mucce e la signora Colomba sono d'accordo per realizzare la richiesta ma il sacerdote tentenna e, mese dopo mese, alla fine non se ne fa niente. Passa un anno e una notte torna in sogno a Mucce Gesù che rinnova la richiesta di costruire una croce. Durante quei dodici mesi era morto il sacerdote don Antonio e la signora Colomba aveva perso un figlio, mi pare nella guerra d'invasione della Libia o Eritrea. Aveva perso anche molti animali, essendo proprietaria di armenti. Gesù aggiunge che se non sarà eretta la croce i danni saranno maggiori. Mucc si premuradi andare da Colombaa raccontare il sogno e questa voltai due si attivanoper installare una croce di ferro alta circa due metri in un punto da cui in teoriasi dovrebbero vedere i tre paesi anche se attualmente questa vista è interdetta, essendo la zona per una parte circondata da alberi. A detta del nipote Giacomo, il nonno si indebitò perché la croce venne a costare tanto, mi pare 50 mila lire: una fortuna per quei tempi. Non si sa da dove fu fatta arrivare e fu molto impegnativo anche portarla e conficcarla nel terreno. E per di più ogni anno richiedeva pulizia e manutenzione. Comunque fu messa lì dove si trova tutt'ora, a cavallo tra Monte Capraro e Monte Cavallerizzo in una località che si chiama "La Crocetta" - in dialetto "Crucétta” - a ridosso di un crocicchio di sentieri, alcuni che portano nei boschi e uno che porta al vicino paese Vastogirardi. Secondo un amico rabdomante di Venafro, che si chiama anche lui Giacomo, Giacomino per gli amici, sotto quel crocevia scorre una vena d'acqua e quindi è un luogo particolarmente carico di energia vitale, insomma un posto magico, avrebbero detto i sacerdoti osci che, secondo l'antropologa Lorena Bianchi, proprio lì vicino, sul monte Cavallerizzo, avevano il loro centro di direzione spirituale dentro a quelle che sono conosciute come mura ciclopiche. Questa storia della Crocetta, dopo diversi mesi, mi è stata ripetuta ancora da Giacomo proprio lì, dove era intento ai lavori di cura della croce, attività della quale si occupa personalmente. Qualche settimana dopo ho sentito il bisogno di realizzare una video-intervista che raccontasse del sogno e della sua realizzazione; tanto volevo essere sicuro di non aver sognato anch'io. E quando poi mi è capitato di raccontarla in giro per Capracotta nessuno la conosceva, tanto meno i sacerdoti. Certo si sa, la Chiesa in circostanze come questa è sempre un po' scettica e diffidente, anche perché l'evento non è solo legato al sogno ma ha come protagonista la figura di Gesù, quasi sminuita dalla figura del povero e forse analfabeta contadino al quale è ordinata addirittura una croce. Ma queste cose non sarebbe meglio che il figlio di Dio le chiedesse direttamente ai Suoi ministri? Per non parlare poi dei segni quasi "punitivi" della morte del parroco e della disgrazia accaduta alla signora Colomba. Come se la punizione si abbatte sul parroco che non ha creduto al sogno di un povero di spirito e alla donna benestante che non ha utilizzato la sua ricchezza per realizzare quanto chiesto. Mucce, invece, non sarà punito, quasi come se Gesù, parlando attraverso un umile, avesse mandato un messaggio e con esso un ordine che necessariamente doveva essere realizzato con l'approvazione della Chiesa ufficiale e con i mezzi economici di chi li possedeva in abbondanza. A Mucce il compito di comunicare e diffondere ciò che gli era stato ordinato e lui questo lo aveva fatto. Lui sì, ebbe fede. Ma c'è dell'altro circa questo nonno Mucce che il nipote Giacomo mi ha raccontato e che me lo fa apparire come un piccolo-grande vecchio, saggiamente legato ed in contatto con una memoria antica ed ancestrale. Giacomo mi raccontava che questo nonno, amante e fiero del suo essere contadino e che viveva nella masseria appena sotto Capracotta, dove io stesso sono stato da piccolo con Giacomo, ebbene questo nonno dimostrava ammirazione e rispetto per i rospi tanto che quando li trovava li prendeva e li portava in masseria per tenerli in camera da letto e in caso gli procurava del cibo. Gli animali si collocavano sotto il letto e nonno Mucce era molto attento a che nessuno li disturbasse: se il nipote si fosse permesso di toccarli o scacciarli, egli sarebbe stato capace persino di... alzargli le mani... e anche i piedi!
Da dove questa usanza con i rospi? Mi vengono in mente reminiscenze di antichi culti matriarcali, probabilmente anche del popolo osco, che vedevano nelle rane e nei rospi manifestazioni del divino. Perché gli anfibi sono animali della metamorfosi che si trasformano da girini viventi in acqua a rane-rospi che abitano anche sulla terra; simboli, quindi, dell'eterno mutare, divenire, morire e rinascere e quindi monito a saper accettare e vivere le stagioni della natura e della vita. Saper accettare e vivere la ciclicità degli eventi, evidente e presente nelle esistenze delle donne, legate alle ciclicità lunari del ciclo mestruale.
Un'altra simbologia legata alle rane e ai rospi ce la indica la mitoantropologa Marja Gimbutas. Dalle sue rigorose ricerche nota che fin dall'antichità rane e rospi, per la loro somiglianza con l'utero, erano considerati uteri vaganti e perciò simboli di dispensatori di vita, di rigenerazione e trasformazione
Anche i serpenti in quella cultura erano sacri sia perché cambiavano pelle sia perché vivevano tra il sottosuolo e la superficie e quindi simboleggiavano la potenza dell'umidità della terra, terra a cui dovremmo essere grati e che dovremmo curare e conoscere con la massima apertura. Purtroppo l'avvento delle arroganti società patriarcali, guerriere e maschiliste, riterrà tutto ciò immondo e peccaminoso: le donne, gli animali, il ciclo mestruale, la sessualità. Mucce, contadino in simbiosi con la terra, nonostante uomo, evidentemente sentiva profondamente ancora il senso di quei segni e la sacralità della natura e ne era ancora incantato e attratto...
Maria, una cugina o parente stretta di Giacomo, infine, non so se figlia o nipote di Mucce, mi ha raccontato che lo stesso Mucce dedicava un intero giorno all'anno per la seguente pratica di prevenzione e potenziamento salutare. Prendeva una grande coperta di pura lana locale e di colore rosso e, senza vestiti, vi si avvolgeva come fosse una mummia o un bruco nella crisalide e per tutto il giorno restava così disteso sul letto, digiunando, sudando e bevendo solo dell'acqua o infusi. Con questa forma di "sauna a secco" egli sosteneva di disintossicarsi e rinforzare, diremmo oggi, le sue difese immunitarie. Fatto sta che non si ammalava mai o quasi mai.
Una donna di oltre novant'anni di Pescopennataro mi ha raccontato che anche il suo nonno faceva la stessa pratica, probabilmente non sapendo di Capracotta e di nonno Mucce. Mi chiedo se si conoscessero e si fossero trasmessi questa pratica.
Anche in questo caso abbiamo segni inequivocabili: il digiuno come morte e rinascita, l'immobilità volontaria (è noto che i contadini non sono mai fermi, tranne in caso di malattia), la nudità, la coperta di lana rossa simbolo del sangue; colore che la moderna cromoterapia legge come energetico e rivitalizzante. Importante, infine, la figura simbolo del bruco-farfalla, altro animale sacro, che muore bruco per rinascere farfalla e volare, anche se solo per un giorno.
Quando Mucce morì, nella sua masseria, suo figlio Vincenzo - è sempre Giacomo, il mio amico, che me lo ha raccontato - lo prese e lo sdraiò sul cavallo così caro e prezioso e lo portò così a Capracotta per la veglia funebre e il funerale.
Scrivere questi racconti mi ha dato qualche brivido e mi ha tanto emozionato. Sento perciò di dover dire grazie a Mucce e a Giacomo e Maria per avermi messo a parte di queste storie. Magari possono essere considerate di poco conto, inattuali, vane e sciocche ma io le ritengo ricche di insegnamenti stimolanti per continuare una ricerca incessante sulle mie radici e sul popolo osco, pacifico e riconoscente verso le dee Kerres e le altre dee simbolo della generosità e della potenza della natura. Storie cariche di vita e di preziosi spunti di riflessioni su cui investire per recuperare una dimensione più sana e più profonda della nostra presenza sulla terra.
Antonio D'Andrea e Anna Montaruli
Fonte: A. D'Andrea e A. Montaruli, Il sogno di Mucc'. Ode e lode a un contadino di Capracotta custode della sacralità della natura e quindi vero erede del popolo osco, in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. III, Proforma, Isernia 2013.