Fra tutte le sorgenti esistenti sul suolo capracottese quella del Verrino è la più importante. Questo non toglie che anche le altre - la Spogna, il Cutruglio, la Fonte Fredda, la Fonte Nascosta, la Staccia, l'Acca Nera e l'Acca Solfa - abbiano soddisfatto, per decenni, le richieste delle 100 fonti sparse nell'abitato e sul territorio di Capracotta.
A cavallo tra XIX e XX secolo, purtroppo, i capracottesi non riuscirono a beneficiare di questo enorme quantitativo d'acqua, con evidenti problemi igienico-sanitari. L'acqua veniva infatti prelevata a caduta dalle sorgenti poste a monte del paese e, attraverso tubi di pino cavi, veniva immessa nel serbatoio, da dove era convogliata verso i fontanili pubblici all'interno del Comune.
Solo a partire dagli anni '50 le abitazioni cominciarono a dotarsi di tubazioni interne con acqua corrente, una svolta tecnica legata alle nuove pompe idrauliche che, dalla sorgente del Verrino, portavano l'acqua al serbatoio comunale.
Nel tempo passato uno degli stereotipi più diffusi voleva la donna come "angelo del focolare". A lei era infatti delegata non solo la cura della prole e la conduzione della casa, ma veniva richiesto anche l'accudimento continuo, la protezione, la dolcezza femminile, il calore umano, l'aiuto nei campi, il tutto sempre in subordinazione rispetto all'uomo, che deteneva illecitamente il primato della vita sociale.
Alla donna toccava pure di prelevare l'acqua dalla tina col maniére in rame o di trasportarla con la spàra sulla testa in perfetto equilibrio, come le attuali modelle da passerella. E alla donna era demandata l'educazione dei figli che, per l'insofferenza di uscire, magari a causa dell'inclemenza del tempo, a volte vedevano volteggiare nell'aria degli oggetti non identificati aventi le sembianze di zoccoli, manici di scopa o quant'altro! Era sempre la donna che doveva accudirli in caso di malattia e dei quali doveva valutare lo sviluppo psicofisico.
A tal proposito ricordo che prima di andare a letto mia madre preparava la borsa dell'acqua calda e, quando necessario, ci invitava, con le buone o con le cattive, a trangugiare l'olio di fegato di merluzzo, oppure, in caso di infortunio, spargeva penicillina in polvere a tutto spiano sulle ferite sanguinanti; in altri casi ancora, in particolare dopo la rasatura, la mamma disinfettava la cute col temutissimo flit, a base di DDT!
La cucina di montagna era molto povera ma non mancava mai la farina di grano o di granoturco, tanto che, per approntare un pasto, si impastavano in quattro e quattr'otto dei tagliolini o delle sagne con fagioli, lenticchie o semplice concentrato di pomodoro. A fine pranzo, data la mancanza di frutti di stagione, si mangiavano spesso le peràzze in salamoia, estratte dalla cosiddetta càndra, utilizzata anche come contenitore della salsiccia sotto sugna. Questo era ciò che si aveva a disposizione. Tuttavia mi vien da ridere a pensare che gli uomini di allora non sapevano cucinare nemmeno un uovo fritto mentre oggi sono tutti dei Masterchef!
La fortuna non esiste:
esiste il momento in cui
il talento incontra l'occasione.
[Seneca]
Filippo Di Tella