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Storia dei sarti di Capracotta dal dopoguerra ad oggi (II)


CAPITOLO II

 

I primi anni dopo l'emigrazione

Sarti Capracotta
Giovani sarti capracottesi.

La vita di chi sceglieva la strada dell'emigrazione non era meno sofferta e carica di sacrifici di chi rimaneva a Capracotta: «Andai a Roma che avevo solo quattordici anni, nel 1949 ricorda Nicola D'Onofrio per risparmiare sul prezzo dell'affitto di un lettino, che costava 5.000 lire a testa, ci si dormiva talvolta in due o tre. Io ero fortunato, perché avevo a disposizione una stanzetta messami a disposizione dal titolare della sartoria. I pasti li consumavamo all'Ente comunale di Assistenza (ECA), dove pagavamo solo 30 lire».

Gli stipendi, per un apprendista, erano infatti piuttosto magri: si guadagnava, in media, tra le 300 e le 600 lire al giorno, che venivano corrisposte settimanalmente, in genere il sabato sera. Di questa somma, per giunta, una parte veniva inviata alla propria famiglia, per cui occorreva gestire ogni soldo con estrema parsimonia.

Perfino in seguito, quando si era già maturata una buona esperienza e si otteneva un incarico presso un'affermata sartoria, o si riusciva addirittura ad aprire una propria bottega, il mestiere del sarto era caratterizzato dalla fatica e da orari estenuanti: «Se lavoravi fino alle undici di sera il principale diceva agli altri lavoranti "Bravo questo ragazzo, insegnategli il mestiere", ma se tornavi a casa alle nove non c'era speranza di far carriera» racconta Alfio Paglione.

Non mancava persino qualche ingratitudine da parte dei clienti: «Ricordo perfettamente quando chiudemmo bottega una mezza giornata per andare al funerale di un nostro compaesano spiega Alberto Sammarone (detto "Catena"), che a Roma, dopo aver lavorato anche da Caraceni, in via Boncompagni, condusse per un quarto di secolo (dai primissimi anni Sessanta fino al 1985), un'attività sartoriale in via Alessandria insieme ad altri due capracottesi, Giovanni Sanità e Fernando Giuliano –. Quando tornammo trovammo ad attenderci dinanzi al laboratorio un cliente, che ci rimproverò aspramente, accusandoci di non essere mai presenti in laboratorio. Eppure rimanevamo ogni giorno lì dentro fino a tarda sera, anche quando non c'erano clienti».

Diventa così più comprensibile la ragione per cui, nel corso degli anni, tanti giovani trasferitisi a Roma abbandonarono le sartorie (ma non il mestiere appreso), in favore un impiego meno faticoso ed in grado di garantire un reddito più sicuro, in genere all'interno della Pubblica Amministrazione: «Potrei fare i nomi di almeno 15 sarti diventati bidelli» sostiene ancora Alberto Sammarone, che con le sue parole conferma un fenomeno che coinvolse non solo gli emigranti, ma anche chi rimase a Capracotta, dove le commesse per la realizzazione di abiti su misura erano sicuramente minori (e per un importo inferiore) rispetto a quelle che si potevano ottenere nella Capitale.

Si può anzi ritenere che la progressiva scomparsa dei sarti e dei laboratori colpì in misura maggiore proprio il paese, dove negli anni Settanta sopravvivevano pochissime botteghe, tra cui quella di Giovanni Borrelli, mentre erano sempre più numerosi i capracottesi che si "convertivano" ad un nuovo lavoro, anche in questo caso pubblico.

A Roma, al contrario, non mancò chi, per passione e capacità, scelse di continuare a dedicare la sua vita a svolgere il mestiere così faticosamente imparato in gioventù, arrivando spesso ad ottenere brillanti risultati.

D'altronde, ve ne erano tutte le premesse: «Quanti capracottesi avevano mani d'oro! sostiene Alfio Paglione Una volta provai a scucire un cappotto realizzato dal mio amico Alfredo Sanità, per vedere come era stato realizzato, ma non ci riuscii, nonostante tutti i miei sforzi. Fui costretto a telefonargli per chiedergli come avesse fatto quelle cuciture».

Volendo limitare l'elenco ai sarti che prestarono la propria opera per le sartorie di fama internazionale, senza ovviamente considerare Ciro Giuliano e Gaetano Terreri, basti pensare al già menzionato Alberto Sammarone, a Giangregorio Sammarone, Giuseppe Ciolfi, Carmine Di Tanna (che proveniva dalla sartoria di Ciro Giuliano), Mario Di Tella ed Antonio Paglione, che lavorarono per Caraceni, dove un altro compaesano, Ezechiele Di Lullo, era un apprezzatissimo specialista del frac, o ancora ad Alfio Paglione e Sebastiano Di Rienzo, che si specializzarono, unici tra tutti i sarti di Capracotta, nell'alta moda femminile, dapprima con una breve esperienza nella sartoria di Angelo Piccioni, frequentata da moltissime protagoniste del mondo del cinema e dell'alta borghesia romana (tra le altre, Sophia Loren, Rosanna Schiaffino, Sylva Koscina), in seguito nell'atelier appena inaugurato da un giovane stilista, che proprio in quegli anni iniziava ad imprimere indelebilmente la sua iniziale sui più begli abiti dell'alta moda italiana e mondiale: Valentino.

Racconta di quegli anni Alfio Paglione: «Ricordo che la Schiaffino (moglie del noto industriale Giorgio Falck, N.d.A.), non si svestiva mai davanti al principale. Lo faceva in disparte in un piccolo spogliatoio riservato, che era vicino al magazzino dove noi avevamo gli accessori. Io, mascalzoncello, quando vedevo che c'era la Schiaffino mi recavo nel magazzino e vi rimanevo fino a quando non sentivo il rumore degli abiti che spogliavano il corpo dell'attrice. Niente di eccezionale, ma immaginare quella famosa donna svestita era esaltante!».

Roma, come già più volte ricordato, rappresentava di norma la prima ed unica destinazione per quasi tutti i sarti capracottesi emigrati, ma talora accadeva che, per alterne vicende, ci si trasferisse dalla capitale verso una nuova destinazione, oppure che ci si recasse direttamente in altre città.

I fratelli Italo ed Eutimio Mosca, ad esempio, acquisirono presso la sartoria Marinaro di Firenze una notevole esperienza, che il secondo continuò poi a mettere a frutto nelle migliori aziende di confezioni abruzzesi, mentre il primo tornò in paese, dove rimase tra gli ultimi a gestire un piccolo laboratorio. Da Marinaro prestò la sua opera agli inizi degli anni Cinquanta un altro Mosca, Giuseppe, che poi continuò a tagliare e cucire fino al giorno della pensione in una prestigiosa sartoria della centralissima via Zamboni di Bologna, gestita da un abruzzese originario della provincia di Chieti, Ferrari.

Alfio Paglione, invece, dopo la breve esperienza presso Valentino, si trasferì nel 1962 a Milano, che doveva ancora trasformarsi nella capitale della moda europea e mondiale che sarebbe diventata alcuni anni più tardi.

«Quando andai a Milano mi sembrava di stare all'estero. A Roma guadagnavo 1.200 lire al giorno, lì 3.500. A Roma noi sarti venivamo considerati un po' come gli extracomunitari di oggi, perché ne eravamo tanti. Al confronto, persino i falegnami facevano una vita da signori. Ne conoscevo alcuni che prendevano almeno un terzo in più del mio stipendio».

Lo stesso Sebastiano Di Rienzo si trasferì per circa un anno a Como, insieme ad un altro compaesano, Franco Evangelista, per lavorare presso la sartoria di Angelo Casale, nativo di Bojano (paese situato in provincia di Campobasso).

Per alcuni, la strada dell'emigrazione varcò addirittura i confini nazionali. Anche all'estero, comunque, i capracottesi ebbero modo di distinguersi, come nel caso di Claudio Del Castello, che servì lo Scià di Persia, prima che questi fosse costretto all'esilio, a seguito della rivoluzione islamica guidata da Khomeini, nel 1979.

Pierino Campana, allievo di Giovanni Borrelli, riscosse invece un buon successo in Argentina con un'impresa specializzata nella produzione di maglieria, mentre Carmine Di Tanna, dopo aver chiuso la bottega che possedeva a Lucera (in provincia di Foggia), si trasferì negli Stati Uniti. Qui lavorò dapprima per la Hickey Freeman di Rochester, la più importante azienda di abbigliamento statunitense, che si caratterizzava per un procedimento di confezione basato principalmente sulla lavorazione a mano, in seguito per un'importante sartoria della medesima cittadina, denominata "The Street of Shops".

«Realizzò anche un vestito per la caccia alla volpe per Cary Grant, grande amico della famiglia Eastman, che proprio a Rochester aveva fondato la Kodak» racconta Giuliano Di Tanna, figlio di Carmine.

A metà degli anni Sessanta, tuttavia, Di Tanna fu convinto da un bravissimo sarto di Castel Di Sangro, Luigi Zulli, a tornare in Abruzzo ed a gestire la produzione di abiti su misura all'interno di una delle più importanti realtà italiane del settore delle confezioni: la Monti, di cui lo stesso Zulli era capo modellista.

«I loro padri si conoscevano confida ancora Giuliano poiché avevano lavorato insieme, nella stessa sartoria. Ciò influì molto sulla scelta di Zulli».

Anche Carmine Di Tanna, così, si inserì in un'azienda, nella quale, come meglio si spiegherà successivamente, ricoprirono incarichi di responsabilità altri cinque capracottesi. Le destinazioni prescelte da chi emigrava all'estero riguardavano anche l'Europa: l'Olanda (come nel caso di Nicola D'Onofrio) e soprattutto la Francia erano i Paesi preferiti. Oltralpe, ad esempio, si recarono Mario Mosca (fratello di Giuseppe), Mario e Giovanni Di Tanna (che lavorò anche per Guy Laroche) e Mario De Renzis, che realizzò gli abiti di Jean Gabin per il film "Il marsigliese".

Tante mete, ma un unico comune denominatore: ovunque si recarono, i sarti capracottesi furono sempre ammirati per la maestria con cui realizzavano abiti eleganti, dalle linee pulite, curati in ogni dettaglio in maniera certosina.


Luigi D'Onofrio




 

Fonte: L. D'Onofrio, Storia dei sarti di Capracotta dal dopoguerra ad oggi, tesi di master, Università degli Studi di Teramo, Penne 2004.

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