CAPITOLO III
I sarti capracottesi e l'industria della moda
A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta il sistema moda italiano era attraversato da un profondo processo di ristrutturazione e in esso già iniziavano ad intravedersi quei fattori che avrebbero, qualche anno più tardi, caratterizzato l'esplosione dell'industria del tessile-abbigliamento: ad esempio, la collaborazione tra stilisti ed imprenditori, il cui primo episodio viene fatto risalire al 1969 ed alla sfilata a Palazzo Pitti della collezione Misterfox, ideata appositamente dallo stilista Albini per la produzione in serie da parte dell'industriale Papini.
Gli anni in questione furono tuttavia caratterizzati anche da significativi stravolgimenti sociali. L'abbigliamento, da sempre specchio dei valori, degli stili di vita, dei costumi di una popolazione, ne uscì radicalmente trasformato. Le proteste operaie, le rivendicazioni giovanili, la crescente emancipazione della donna ed il conseguente nuovo rapporto tra i sessi, segnarono infatti l'avvento, in particolar modo tra i giovani, dell'abbigliamento informale, in particolar modo del jeans e della maglieria, spesso unisex.
L'alta moda, che poneva invece in primo piano i concetti di femminilità ed ostentazione, espressi da un abbigliamento elegante che da alcuni stilisti (come Valentino) veniva addirittura concepito come un'opera d'arte, segnò il passo ed attraversò un momento di profonda crisi; lo stesso Valentino, ad esempio, iniziò una nuova esperienza all'interno di una delle principali aziende di confezioni italiane di qualità, il Gruppo Finanziario Tessile di Torino, dando vita peraltro ad uno dei più felici connubi tra alta moda e industria dell'abbigliamento.
Anche la sartoria maschile non uscì indenne dai cambiamenti indotti dall'autunno caldo del Sessantotto, subendo un profondo ridimensionamento della propria domanda, causato non soltanto da un progressivo abbandono del tradizionale completo costituito da pantalone e capospalla in favore di jeans e maglie, ma anche da altri fattori sociali, meno prevedibili: «I nostri clienti più facoltosi, intimoriti dalle rivendicazioni studentesche ed operaie e dai primi episodi di terrorismo, abbandonarono Milano per trasferirsi in località come Sanremo o St Moritz. Ciò voleva dire perdere commesse per decine di capi l'anno» racconta Alfio Paglione.
All'inizio degli anni Settanta, proprio il capoluogo lombardo divenne rapidamente il centro di gravità della moda europea e mondiale, costituendo terreno fertile per la nascita di una miriade di nuove industrie ed attirando l'attenzione dei compratori internazionali, attraverso le sue sempre più affollate manifestazioni.
Il Paglione, pertanto, intuì, a ragione, che la tradizionale sartoria artigianale aveva esaurito il suo corso e che il futuro sarebbe stato dominato dall'industria del prêt-à-porter. Nonostante le reticenze della moglie, Angela Mottadelli, anch'ella sarta di altissimo livello (era infatti première della prestigiosa sartoria Gandini di Milano), egli mise in piedi un'azienda che da quasi trent'anni realizza capi di elevata qualità artigianale, collaborando con marchi prestigiosi come Agnona, Mila Schön, Cerruti, Loro Piana e perfino Gucci e Prada, realizzando in particolare cappotti double-face. «Sono stato uno dei primi a produrre in serie questa tipologia di capo. Grazie a ciò, ho avuto il privilegio di conoscere il Prada degli anni d'oro. Patrizio Bertelli veniva, personalmente, nel mio laboratorio, oppure inviava gruppi di tecnici, poiché la sua azienda era estremamente interessata a conoscerne i processi produttivi e le tecnologie di lavorazione».
Il Paglione ha saputo, quindi, cogliere con successo le nuove, stimolanti opportunità offerte dal mercato della moda italiano, coniugando la propria abilità artigianale con lo spirito imprenditoriale e sfruttando un'ulteriore condizione che in quegli anni volgeva decisamente a favore della creazione in una piccola impresa nel settore dell'abbigliamento: l'elevata sindacalizzazione ed il conseguente aumento del costo del lavoro che seguirono all'autunno caldo del 1968 avevano infatti spinto molti titolari di aziende di grandi dimensioni ad attuare un sistematico decentramento produttivo, allo scopo di fronteggiare la perdita di competitività sui costi e ridurre la conflittualità interna. Questo processo di de-integrazione conobbe un notevole successo, poiché le piccole imprese, cui veniva commissionata buona parte della produzione, rivelarono una capacità di flessibilità operativa ed un grado di innovazione del prodotto decisamente inaspettati.
A ciò va aggiunto che il ruolo primario assunto dalla piccola impresa era reso possibile anche dal minor livello tecnologico incorporato nelle nuove produzioni e dalla più bassa soglia degli investimenti produttivi necessaria rispetto ai capispalla formali.
Alfio Paglione fu tuttavia uno dei pochi capracottesi a solcare l'onda dei cambiamenti in atto nel proprio settore ed a trasformarsi da artigiano ad imprenditore, specializzandosi, peraltro, in un prodotto di nicchia che pochi realizzavano, ancor meno rispettando elevati standard qualitativi. La maggior parte di loro proseguì infatti l'attività di sartoria, pur ottenendo eccellenti risultati, come ad esempio Alberto Sammarone (ed i suoi colleghi Fernando Giuliano e Giovanni Sanità), ma soprattutto Sebastiano Di Rienzo.
All'interno dell'atelier di Valentino, nel quale lavorava anche la sorella Lina, "Seby" (il diminutivo con cui è noto) aveva raggiunto a soli ventitré anni la qualifica di tagliatore, una delle massime cui potesse aspirare un sarto. Egli, tuttavia, era fermamente deciso a compiere il grande salto ed a mettersi in proprio.
Nel 1963, sempre in compagnia della sorella ed in seguito anche della moglie Angelica Di Lullo, la prima particolarmente abile nella realizzazione di abiti in tessuto leggero, la seconda specializzata in quelli più pesanti, lasciò così Valentino (con cui rimase sempre in ottimi rapporti) ed aprì la sua prima sartoria nei pressi di piazza Fiume, realizzando abiti per le sue prime clienti, in prevalenza frequentatrici dello stesso atelier di Valentino, rimaste affascinate dalla straordinaria perizia dimostrata da questi giovani capracottesi.
Da oltre quarant'anni, il laboratorio di alta moda dei Di Rienzo (la cui sede venne in un secondo momento trasferita in via Piana, nell'elegante quartiere Parioli, e di lì in via Calcinaia, dove si trova ancora oggi), realizza creazioni esclusive per le donne dell'alta borghesia romana, benché abbia annoverato, tra le sue clienti, anche celebri dive del cinema, come Britt Ekland (moglie di Peter Sellers) od Ingrid Thulin.
La classe e l'eleganza mai opulenta o volgare delle sue opere hanno procurato a Seby una pioggia di prestigiosi riconoscimenti a livello mondiale: nominato cavaliere della Repubblica già nel 1982 dall'allora presidente Sandro Pertini, insignito del prestigioso titolo di "Miglior sarto dell'anno" nel 1999, egli è attualmente segretario generale della Federazione mondiale dei Sartori, dopo avere rivestito negli ultimi anni la carica di presidente dell'Accademia nazionale, la stessa che fu di Ciro Giuliano.
Unico paese d'Italia, Capracotta può dunque vantarsi di aver donato ben due presidenti all'autorevole Istituzione, che dal 1575 rappresenta e tutela gli interessi della nobile categoria dei sarti.
A cavallo tra gli anni Settanta ed Ottanta, Sebastiano Di Rienzo, così come Alfio Paglione, tentò di ritagliarsi un ruolo di prestigio anche nell'industria dell'abbigliamento; a differenza del suo compaesano, tuttavia, egli provò a chiudere il cerchio della sua avventura di emigrante, il quale, dopo aver lasciato il paese che gli aveva insegnato e trasmesso l'amore per l'arte sartoriale, cercava di resuscitarla quando essa aveva, purtroppo, già esalato l'ultimo respiro.
Nacque così l'esperimento di Coats Capra, la prima e finora unica azienda di abbigliamento con sede a Capracotta.
«Avevo concepito quest'azienda come un grande laboratorio di sartoria, nel quale avrebbero dovuto lavorare al massimo una trentina di addetti – racconta Seby, che in quel periodo continuò a curare anche l'attività del suo laboratorio romano – per alcuni anni l'azienda funzionò: potevamo contare su sette od otto sarte che confezionavano abiti di ottima qualità per una clientela facoltosa, anche straniera, visto che comprendeva anche alcune ricche famiglie arabe».
Tuttavia egli non fu in grado di consolidare l'iniziale sviluppo dell'impresa, non solo perché i continui trasferimenti tra Roma e Capracotta comportavano enormi sacrifici, ma in parte anche per l'assenza di una visione strategica di lungo termine.
«Mi sono sempre sentito un artigiano, non un imprenditore – confida lo stesso Di Rienzo, il quale, comunque, al momento di cessare l'attività di Coats Capra, nei primi anni Ottanta, provò a lanciare un nuovo progetto –. Proposi alle mie sarte di costituire con loro una cooperativa. Non avrei ricavato alcun guadagno da questa iniziativa, ma non se ne fece ugualmente nulla».
A Seby, che oggi si divide tra il suo storico atelier, l'insegnamento di modellistica presso l'Istituto Europeo del Design e di taglio all'omonima scuola costituita all'interno dell'Accademia nazionale dei Sartori, nonché gli incarichi di rappresentanza della Federazione mondiale, di cui ricopre, come detto, la carica di segretario generale , va senz'altro riconosciuto il merito di essere stato l'unico, tra i sarti capracottesi, ad aver progettato e realizzato un'azienda di abbigliamento nel suo paese natale, oltre ad essere uno dei rari casi di sarto che abbia tentato anche l'esperienza imprenditoriale (i soli altri esempi individuati a seguito dell'attività di ricerca preordinata alla realizzazione del presente lavoro sono quelli del già citato Pierino Campana e di Antonio Mosca, detto "Ciccone", che ha costituito ed è stato per qualche tempo titolare di un'azienda specializzata nel taglio con sede a Ciampino, in provincia di Roma e denominata M.G.M.).
In materia di modellistica, Di Rienzo ha anche pubblicato tre volumi particolarmente apprezzati: "La tecnica della moda" e "Professione moda", concepiti come manuali per studenti ed operatori della moda, e "La moda nell'industria", che testimonia il suo nuovo interesse per la modellistica applicata alla confezione industriale.
Da alcuni anni Seby partecipa anche a progetti di cooperazione italo-cinese, volti a realizzare corsi di formazione nella modellistica e nel cucito, sia maschile che femminile.
L'azienda è attualmente ancora attiva, ma Antonio Mosca ha ceduto la propria quota ad altri soci.
Non per questo è ammissibile biasimare i suoi colleghi e compaesani che non hanno manifestato lo stesso spirito d'iniziativa, poiché a mancare spesso non era il coraggio, ma i soldi; anche quando fosse stato possibile disporne, poi, abbandonare un'avviata sartoria per avventurarsi in un'impresa nata dal nulla poteva rappresentare un rischio fatale, soprattutto per chi, come il sarto, aveva consolidato una mentalità e (soprattutto) un'organizzazione del lavoro di stampo artigianale.
Di ciò i capracottesi erano ben coscienti: «Non ci si improvvisa imprenditori da un giorno all'altro» afferma Alfio Paglione.
Per alcuni, anche la sorte avversa giocò un ruolo determinante: «Quando fummo informati che la Monti avrebbe chiuso i battenti, io ed alcuni miei colleghi ci accordammo per chiedere che, al posto della buonuscita che ci veniva offerta, ci venisse ceduto uno degli stabilimenti dell'azienda, nel quale avremmo avviato una nostra attività – confida Nicola D'Onofrio – ma la nostra proposta non venne accolta dai dirigenti».
Non si può comunque tacere del fatto che i sarti capracottesi fossero estremamente individualisti e gelosi delle proprie abilità, retaggio, questo, dei loro anni di apprendistato, quando l'elevato numero dei lavoranti nelle botteghe e le poche opportunità di lavoro, accompagnate ad una diffusa povertà, generavano un'accanita competizione.
Tale individualismo pregiudicò la costituzione di cooperative, ma anche la semplice conduzione collettiva di sartorie già avviate: una delle rare eccezioni che si ricordi, a tal proposito, è rappresentata dal laboratorio di Alberto Sammarone, Giovanni Sanità ed Alfredo Giuliano, i quali, tra l'altro, scelsero di cooperare per non perdere la clientela ereditata dal precedente titolare del laboratorio, Pasqualino De Renzis.
Sull'assenza di collaborazione pesò non solo la mentalità, ma anche le diversità nella tecnica sartoriale: la presenza di tante botteghe a Capracotta significava anche esistenza di tante diverse scuole di pensiero sartoriali, ognuna convinta depositaria di un particolare metodo di realizzazione di questo o quel capo.
Il rapporto tra i sarti capracottesi e l'industria dell'abbigliamento non è stato comunque caratterizzato solo da un totale rifiuto o dall'avvio, riuscito o meno, di esperienze imprenditoriali. Un piccolo gruppo, infatti, trovò lavoro e fece carriera all'interno importanti realtà del settore delle confezioni maschili, soprattutto in Abruzzo: ci si riferisce, in particolare, ai sei capracottesi che vissero l'esperienza delle Confezioni Monti. L'azienda deve il suo nome al fondatore e titolare, Vincenzo Monti, il quale, iniziando nel 1951 in un piccolo stabilimento situato nella zona nord di Pescara, in seguito dislocato a Roseto, aveva creato in pochi anni un gigante dell'industria delle confezioni, che arrivò a contare anche quattromila dipendenti all'inizio degli anni Settanta, quando la linea produttiva, dopo essere stata nuovamente trasferita a Pescara, in piazza Alessandrini (nell'edificio che ancora oggi viene definito "Palazzo Monti") era stata infine definitivamente insediata a Montesilvano.
Il rapido sviluppo produttivo dell'azienda avvenne in misura principale all'inizio degli anni Sessanta, quando la Monti, la Lubiam, la Sanremo, il Gruppo Finanziario Tessile di Torino con la sua linea Facis, si resero protagoniste dell'esplosione di una nuova metodologia produttiva nel settore dell'abbigliamento, la confezione, che ben rispondeva alle esigenze di una sempre più numerosa schiera di persone che, grazie al diffuso benessere indotto dal "boom" economico di quel periodo, si interessarono dell'estetica della propria immagine, ma prestando particolare attenzione al rapporto qualità - prezzo dei prodotti acquistati.
La realizzazione di abiti da parte di queste aziende era caratterizzata dalla serialità, dall'assenza di particolari connotati moda, da una lentissima velocità di mutazione modellistica, ma la qualità dei capi realizzati cresceva di giorno in giorno, grazie soprattutto all'uso di materiali, di origine italiana, continuamente migliorati e capaci di competere con quelli inglesi.
In tal modo la confezione aveva soppiantato, nel giro di pochi anni, la sartoria artigianale e la casa di alta moda, la prima destinata ad un pubblico sempre più ristretto ed anziano, la seconda ad una fascia d'élite.
Di questo settore, la Monti non costituiva una delle massime realtà italiane solo per le dimensioni, ma anche per la sua produzione di elevata qualità (come quella contrassegnata dal marchio VM), e per l'eleganza del suo stile, che le consentì di ottenere importanti riconoscimenti in ambito internazionale, come il premio conferitole per la realizzazione delle divise della delegazione italiana partecipante alle Olimpiadi estive di Montreal, nel 1976; per un breve lasso di tempo, l'azienda realizzò anche le prime collezioni di Versace.
Il suo slogan "Monti: abiti belli, abiti pronti" era così noto che perfino papa Paolo VI lo pronunciò in occasione di un incontro con le maestranze, avvenuto a metà degli anni Sessanta, mentre alle inaugurazioni delle sue nuove sedi produttive o dei punti vendita presenziavano anche gli uomini politici (ed autorità istituzionali) più importanti, come Emilio Colombo o Giulio Andreotti.
Non era comunque facile, per le aziende di confezioni, convincere dei sarti a lavorarvi, neppure per quelle che, come la Brioni Roman Style, sorta nel 1959, scelsero di posizionarsi sin dall'inizio al vertice strategico del mercato, combinando il sistema su misura con il meccanismo seriale, all'interno di quella concezione del fare abbigliamento che lo stesso Versace, alla fine degli anni Novanta, chiamerà prêt-couture (alta moda pronta firmata).
I sarti, infatti, erano diffidenti verso il lavoro in fabbrica, temendo uno snaturamento della loro professione; d'altra parte, essi risentivano già del calo di clientela causato dalla confezione che, in quegli anni, proponeva capi a costi più bassi di quelli dell'artigiano.
Un nutrito gruppo di sarti capracottesi, spinti dalla fama acquisita dalla Monti, scelse tuttavia, sin dai primissimi anni Sessanta, di inserirsi nella struttura produttiva dell'azienda.
Trasformarsi in operaio specializzato, d'altronde, garantiva minore fatica ed uno stipendio fisso rispetto al lavoro in sartoria; proprio l'esperienza accumulata in laboratorio, inoltre, apriva ampie prospettive di carriera.
L'unica eccezione è rappresentata da Antonio "Ciccone" Mosca, tuttora responsabile del taglio presso lo stabilimento dell'azienda di abbigliamento femminile romana Le Group.
In effetti, tutti i sarti capracottesi impiegati nelle Confezioni Monti occuparono presto posizioni di responsabilità: Pasqualina Carnevale, Nicola Di Luozzo, Nicola D'Onofrio, Antonio Di Nucci, Eutimio Mosca erano inquadrati come caposezione o caporeparto, mentre Carmine Di Tanna, come si è precedentemente accennato, era stato invece incaricato della supervisione della linea di abiti su misura dal responsabile della produzione, Luigi Zulli, che lo aveva convinto personalmente a tornare in Abruzzo dagli Stati Uniti, dove era emigrato.
La fortuna delle Confezioni Monti, comunque, non durò a lungo. Episodio chiave, chiaro sintomo dei primi segnali di crisi, fu l'occupazione della fabbrica nel 1971, che segnò l'inizio di una lunghissima agonia, contrassegnata da continui ridimensionamenti e riduzioni di personale.
A partire dal 1973, l'azienda passò sotto il controllo dell'Eni e venne smembrata in due tronconi: il nucleo della Monti rimase a Montesilvano, mentre altre maestranze furono assorbite da un'altra realtà produttiva, la "Vela", che produceva abbigliamento per bambini a Roseto.
Essa conservò comunque per un certo periodo una buona fama ed una clientela importante, formata da ministri, parlamentari, notabili vari e manager delle aziende statali od a partecipazione statale, come la stessa Eni.
«Ricordo perfettamente quando io e Carmine di Tanna realizzammo un cappotto per il presidente dell'Eni – racconta Antonio Di Nucci –. Venne fuori un autentico capolavoro, che suscitò l'ammirazione di tutti i dipendenti dell'azienda».
Al termine degli anni Ottanta, tuttavia, l'Eni annunciò l'intenzione di cedere la sua partecipazione nell'azienda alla Gepi S.p.A., holding parastatale (che ha recente assunto la denominazione di Sviluppo Italia) e che all'epoca svolgeva il compito di acquisire partecipazioni di controllo in grandi aziende in crisi, al fine di tentarne il risanamento.
Quello della Monti, tuttavia, sembrava impossibile: prima della chiusura della fabbrica, alle maestranze venne offerta una liquidazione od una ricollocazione in altri contesti produttivi. Iniziò così la piccola diaspora dei capracottesi, che con il loro prezioso lavoro avevano contribuito alla fama ed al successo che la Monti aveva riscontrato per alcuni decenni.
Alcuni di loro, come Eutimio Mosca ed Antonio Di Nucci, peregrinarono negli anni seguenti in molte realtà dell'industria dell'abbigliamento abruzzese: il primo, ad esempio, rimase per cinque anni, dal 1989 al 1994, presso la Sangro Moda di Castel Di Sangro (azienda licenziataria di note marche di confezioni maschili, tra cui la Tombolini), che fu prematuramente costretta a chiudere a causa delle vicende giudiziarie che travolsero il suo titolare, Gargano, all'epoca sindaco della cittadina sangritana. Successivamente il Mosca lavorò o prestò la sua preziosa consulenza per altre importanti imprese abruzzesi e non, come la "Confezioni Stella" di Villanova di Cepagatti (PE), che operava come façonista per Loro Piana od Escada, oppure la M.B.M. di Francesco Marcotullio, fratello di quel Lucio che, oltre ad essere tra i soci fondatori, da sempre riveste l'incarico di amministratore delegato della Brioni.
Antonio Di Nucci, invece, operò, sempre negli anni Ottanta, come responsabile del controllo di qualità per la Radar di Ortona, all'epoca licenziataria delle linee 012 di Benetton e Laura Biagiotti Junior, mentre in seguito visse altre esperienze di lavoro in importanti aziende terziste, quali l'Eurostyle di Pianella, produttrice per il noto marchio tedesco Hugo Boss, oppure la Aerre di Montesilvano, dove ha poi concluso la sua carriera.
Per un breve periodo, egli ricoprì anche l'incarico di responsabile del controllo di qualità per la linea Ferré Sport, all'interno della Ittierre, importantissimo complesso industriale fondato ad Isernia dal vulcanico imprenditore locale Tonino Perna, che attualmente si può considerare come una delle prime aziende terziste del mondo nel settore dell'abbigliamento, essendo licenziataria della produzione di stilisti di fama mondiale, come Dolce&Gabbana, Versace (per cui realizza rispettivamente le collezioni contrassegnate dai marchi D&G e Versus), o Romeo Gigli e che da diversi anni ha iniziato a lanciare proprie collezioni, già divenute famose con il marchio Exté.
Ovunque si recarono, quindi, i sarti capracottesi ricoprirono sempre incarichi di rilievo. Ciò fu merito della straordinaria esperienza acquisita sin da ragazzi, che i giovani tecnici d'oggi non possono vantare quasi mai: «I nuovi responsabili del controllo di qualità sanno solo prendere le misure dei capi, peraltro in base a tabelle che vengono loro consegnate dall'azienda, ma non sono assolutamente in grado di tagliare e cucire un abito» confida Antonio Di Nucci.
Luigi D'Onofrio
Fonte: L. D'Onofrio, Storia dei sarti di Capracotta dal dopoguerra ad oggi, tesi di master, Università degli Studi di Teramo, Penne 2004.