CAPITOLO IV
I sarti capracottesi possono ancora lasciare un'eredità alle generazioni future?
Dell'epopea della sartoria capracottese descritta in queste pagine resta oggi, salvo i casi eccezionali di chi ancora prosegue la propria attività (come Sebastiano Di Rienzo, Alfio Paglione, Antonio Mosca) solo un mare di ricordi, talora già divenuti frammentari, a causa della scomparsa di alcuni tra i protagonisti di queste vicende.
D'altronde, lasciare che l'immenso patrimonio di conoscenze accumulato dai sarti capracottesi vada perduto insieme ai suoi ultimi esponenti sembra essere inevitabile, alla luce dell'attuale stato delle cose.
Al giorno d'oggi, in effetti, in paese non esistono sartorie; non è certo se i pochi laboratori od aziende, gestiti da emigrati, ancora attivi in Italia, sopravviveranno ai loro fondatori; nessuna istituzione locale ha avviato alcun progetto finalizzato all'incentivazione della nascita o dello sviluppo di attività artigianali od imprenditoriali nel settore dell'abbigliamento; le poche manifestazioni svoltesi in paese, perlopiù su iniziativa di Sebastiano Di Rienzo, come la rassegna "Moda ad alta quota", da lui organizzata nel mese di agosto del 1996, la "Sfilata delle toghe" (che egli ha ridisegnato, rinnovandone lo stile ed i colori) dell'anno seguente, oppure il convegno dell'Accademia dei Sartori tenuto nel 2002 (vale a dire nel periodo della presidenza di Seby), paiono purtroppo rimanere isolate ed in ogni caso in grado più di accendere i riflettori sulle attrattive turistiche del paese, che a proporla per l'insediamento e la rinascita di attività sartoriali, benché occorra dar merito a Di Rienzo di aver tenuto alto il nome di Capracotta in innumerevoli occasioni e di averlo sempre associato alla tradizione dei suoi sarti, cui il Comune dedicò, nel 2000, persino una via, denominata appunto "largo dei Sartori".
Anche nelle testimonianze raccolte nell'ambito dell'attività di ricerca in loco, finalizzata alla realizzazione del presente lavoro, si percepisce una quieta rassegnazione degli ultimi sarti viventi a veder scomparire ogni traccia di un fenomeno che ha caratterizzato la recente storia economica e sociale di Capracotta: del resto - è l'opinione comune - cosa potrebbe ormai fare ancora un gruppetto di pensionati, per di più sparpagliati prevalentemente tra Capracotta stessa, Roma e Pescara, per impedire tutto questo?
Eppure, analizzando le attuali direttrici del sistema moda italiano ed in particolar modo le tendenze del mercato del lavoro nel settore del tessile-abbigliamento, paiono comunque esistere le premesse ed i margini di iniziativa affinché si facciano strada almeno un paio di progetti.
Il made in Italy sta oggi vivendo una situazione di grave crisi economica ed occupazionale, che colpisce prevalentemente le piccole e medie imprese.
Le cause sono molteplici, ricollegabili a numerosi fattori: da un lato la competizione di Paesi emergenti (specialmente la Cina) sempre più aggressivi nelle politiche di prezzo, grazie al bassissimo costo della manodopera, ma capaci anche di registrare continui miglioramenti sul versante della qualità dei loro prodotti, dall'altro un sistema della moda italiana che stenta a reagire, ma che soprattutto non investe sistematicamente sulla ricerca e sviluppo dell'innovazione e della creatività e sul costante miglioramento della qualità, che nei decenni trascorsi hanno invece costituito i fattori determinanti per l'affermazione del made in Italy nell'abbigliamento su scala mondiale.
La delocalizzazione e la progressiva estinzione delle piccole e medie imprese e dei laboratori sta inoltre determinando una drammatica perdita delle competenze tecniche in ambito sartoriale. Già si muovono i primi appelli, affinché si verifichi un immediato cambiamento di rotta e si ritrovi l'identità culturale smarrita, fondata sul saper fare.
«Manca il maestro e, soprattutto, mancano i giovani desiderosi di andare a bottega. Non ci sono abbastanza scuole, né abbastanza iscritti. Gli istituti tecnici industriali sono stati chiusi e la scuola sta livellando verso il basso le competenze. Tutto ciò a fronte di un mercato del lavoro sempre più saturo di laureati senza una chiara focalizzazione e sempre più alla ricerca di manodopera specializzata. [...] Oggi la formazione, soprattutto quella dei tecnici di produzione e dei periti tessili, è scolastica e distante dalle reali esigenze delle imprese; il sistema formativo è incredibilmente frammentato, con competenze sovrapposte e fondi che transitano dall'Europa, dalle regioni, dalle associazioni, dal sindacato, dalle province. Per recuperare l'enorme ricchezza del patrimonio dei nostri mestieri è necessario pensare a politiche di formazione diverse rispetto a quelle attuali. Più mirate, maggiormente legate al territorio ed alle sue microeccellenze. Il territorio per primo deve partire dalla propria identità e sapere come valorizzarla e trasferirla ai giovani. La formazione tecnica deve essere fatta da chi sa fare, le aziende si devono impegnare accanto alle istituzioni fornendo il loro personale migliore».
Il contesto qui descritto costituisce l'ultimo stadio di un processo involutivo che affonda le sue radici nella progressiva scomparsa, quasi trent'anni addietro, dell'artigianato sartoriale, di cui costituisce evidente dimostrazione la chiusura di tutti i laboratori capracottesi. Eppure di sarti ve n'è stato e ve ne sarà ancora bisogno, considerato che anche le industrie dell'abbigliamento che realizzano capi di elevata qualità hanno avvertito questa esigenza e (nel caso delle aziende più illuminate e lungimiranti) attuato scelte concrete per farvi fronte.
È questo il caso della Brioni Roman Style e della sua Scuola interna di Sartoria, realizzata sin dalla metà degli anni Ottanta, quando divenne improcrastinabile l'esigenza di garantire il ricambio occupazionale della prima generazione di sarti, i quali, dopo aver contribuito in maniera decisiva alla crescita ed al successo della Brioni per oltre un quarto di secolo, si avviavano verso un pensionamento collettivo, rischiando di lasciare completamente sguarnite le posizioni di responsabilità nella linea produttiva; né costoro potevano essere integralmente sostituiti con operai specializzati, che avevano ben altra formazione e competenze.
Dopo oltre vent'anni, la Scuola sforna periodicamente giovani sarti in grado di realizzare capi interamente a mano, quindi secondo tecniche artigianali, ma che vengono interamente assorbiti dall'azienda, dove occupano immediatamente incarichi di rilievo nel ciclo produttivo, laddove sono richieste maggiori conoscenze di prodotto.
Proprio l'esigenza appena delineata può rappresentare l'ultima speranza di sopravvivenza per la tradizione sartoriale di Capracotta. Tale speranza deriva dall'immenso patrimonio di competenze tecniche dei sarti capracottesi e potrebbe concretizzarsi nella costituzione di una scuola di alta formazione tecnica, mirata alla creazione di nuove leve di artigiani, che sappiano però agire all'interno di un contesto produttivo di tipo industriale; insomma di sarti-operai specializzati in grado di coordinare il lavoro di altri operai all'interno di un settore o di un reparto, ponendosi come punto di riferimento per la soluzione di specifici problemi tecnici ed organizzativi, come la verifica del rispetto degli standard qualitativi del prodotto, ma anche l'attrezzaggio di una macchina e l'affiancamento di nuovo personale a quello già presente sulla linea produttiva. I corsi dovrebbero quindi presentare un approccio fortemente pratico, consentendo l'acquisizione di competenze relative al capo di abbigliamento, ma anche alle tecnologie industriali impiegate per confezionarlo e, da ultimo, alle problematiche legate all'organizzazione del ciclo produttivo.
Una simile figura professionale, oggi sempre più rara e ricercata, godrebbe, a parere dell'autore del presente studio, di un sicuro sbocco occupazionale, specialmente nelle aziende che, per fronteggiare la crisi economica in atto del settore, puntano ad un prodotto di qualità sempre superiore.
Ancor maggiore sarebbe la richiesta da parte del mercato del lavoro se, accanto all'acquisizione di competenze di tipo pratico, il piano didattico fosse anche indirizzato a fornire una conoscenza teorica del settore moda, ad esempio relativamente alle peculiarità che esso presenta sul piano economico, oppure sotto il profilo della gestione dei sistemi di produzione.
Come testimoniato anche dall'esperienza della Scuola di Sartoria della Brioni Roman Style cui si è precedentemente accennato, l'idea qui esposta non rappresenta certamente una novità assoluta.
Che l'esigenza di garantire un ricambio generazionale alle vecchie schiere di sarti e di impedire l'abbandono dell'artigianato da parte dei giovani sia sentita da decenni lo prova un articolo di Giuseppe De Pascale pubblicato proprio sul numero della rivista "Il Maestro Sarto" dedicata alla scomparsa di Ciro Giuliano (risalente, come si ricorderà, alla fine del 1978), laddove si legge, a pag. 7: «L'occupazione giovanile è uno dei problemi più assillanti del momento. Se non si dovessero prendere urgenti e seri provvedimenti per ovviare a questa crisi, si potrebbero avere conseguenze non certo trascurabili per lo stato di disagio e di insofferenza da parte dei giovani bisognosi di lavorare. La dissennata politica fatta negli anni passati, [...] ci ha portato al brillante risultato che oggi possiamo constatare. Tanti diplomati - anche col sei politico - e pochissimi operai specializzati. La tecnologia prepara macchine altamente sofisticate e noi manchiamo di operatori capaci di farle funzionare. Si aggiunga l'assoluta indifferenza verso l'artigianato in generale e si ha il quadro completo della situazione che si è venuta a creare [...] Eppure in tutti questi anni non sono mancate voci di allarme e di appelli da parte delle associazioni e degli stessi artigiani che, al di là delle promesse di circostanza, vedevano ridursi sensibilmente la schiera dei loro addetti, che abbandonavano il lavoro artigianale per cercare un qualsiasi posto fisso con stipendio sicuro. La scelta dei nostri governanti è stata esclusivamente di carattere politico. Si è voluta la nazione industriale a tutti i costi, senza prevedere i difficili problemi che avrebbe comportato una scelta di questo genere. Si è continuato ingiustamente a trascurare l'artigianato che, in caso di difficoltà, sarebbe pur diventato la valvola di sicurezza per l'occupazione giovanile. Specialmente nel sud Italia, dove l'artigiano ha sempre avuto la sua collocazione naturale».
Anche gli operatori del settore ed i rappresentanti delle istituzioni locali più legati a Capracotta, inoltre, hanno avanzato da alcuni anni la medesima proposta. In occasione del meeting dell'Accademia nazionale dei Sartori tenutosi tra Isernia e Capracotta nel novembre 2002, infatti, sia Sebastiano Di Rienzo che un altro compaesano, Agostino Angelaccio, allora presidente della Camera di Commercio di Isernia, hanno proposto ufficialmente (ma già un paio di anni addietro Seby aveva discusso il progetto con alcuni esponenti politici), sebbene in termini diversi, la realizzazione di corsi di studio mirati a formare le nuove leve della sartoria. Il celebre sarto, infatti, sostenne in quella circostanza l'opportunità di costituire ad Isernia una "Facoltà della Moda", che, tuttavia, non ricalcasse corsi di laurea breve già istituiti in altre università italiane del Paese, ma mirasse ad una formazione tecnica dei suoi iscritti, mentre Agostino Angelaccio, pur condividendo nella sostanza la proposta, affermò: «Un buon risultato potrebbe essere già quello di organizzare, da subito, corsi di qualità di formazione professionale per i giovani che vogliono avvicinarsi al lavoro di sartoria su misura. La Facoltà di Moda, naturalmente, sarebbe il massimo per la nostra Regione». Volendo ipotizzare alcune caratteristiche di questa possibile futura scuola di formazione, l'eccellenza nell'offerta formativa dovrebbe essere garantita, in primo luogo, attraverso la collaborazione tra diverse Istituzioni, per cui sarebbe auspicabile il coinvolgimento non solo dei tradizionali enti locali presenti sul territorio, ma anche di università, fondazioni e aziende.
La professionalità dell'insegnamento, poi, dovrebbe discendere principalmente dall'esperienza maturata dai docenti nella loro carriera lavorativa; il nucleo principale di costoro, anzi, non dovrebbe essere formato da professori di formazione prettamente accademica (ai quali dovrebbe comunque essere riservato l'insegnamento di materie a carattere teorico), ma proprio da tecnici esperti. In tale contesto, i capracottesi potrebbero recitare un ruolo estremamente significativo, dato che le ultime generazioni di sarti di questo piccolo grande paese molisano hanno acquisito infinite specializzazioni: tra di loro sono infatti presenti esperti di modellistica, ma anche responsabili dei tempi e metodi di produzione o del controllo di qualità, stiratori e tagliatori: uomini che, nati tutti artigiani e non operai, hanno comunque, in alcuni casi, vissuto per decenni l'esperienza del ciclo produttivo industriale. Tra di loro non manca neppure chi, sebbene in differenti contesti, ha già istruito le nuove leve dell'industria della moda: Sebastiano Di Rienzo è infatti attualmente docente di modellistica presso l'Istituto Europeo del Design e presso la Scuola di taglio dell'Accademia nazionale dei Sartori, Eutimio Mosca è stato per diversi anni responsabile dell'addestramento del personale all'interno della Sangro Moda.
Senza dubbio, il rigido clima e l'isolamento geografico (il centro abitato di rilievo più vicino a Capracotta è Agnone, distante una ventina di chilometri) non favorirebbero l'insediamento di un simile centro, ma nulla impedirebbe di localizzarlo, con il contributo delle istituzioni locali molisane, nella stessa Agnone, oppure in un altro centro della provincia di Isernia, o magari ancora proprio nel capoluogo, insomma in città più sviluppate sul piano infrastrutturale e soprattutto più vicine ad importanti direttrici di viabilità, come ad esempio la Trignina e la Bifernina, strade statali che collegano la costiera adriatica al Lazio ed alla Campania, attraversando tutto il territorio molisano. La cooperazione tra diversi centri urbani non è sempre agevole; ragioni campanilistiche, interessi economici o politici generano spesso la volontà di assumere individualmente il comando di un simile progetto per dare risonanza e far affluire finanziamenti al proprio Comune, impedendo una visione strategica collegialmente elaborata e condivisa e quindi l'attuazione dell'idea in linea con l'iniziale concezione.
La collocazione di questo ente formativo proprio nella provincia di Isernia è comunque resa necessaria da due ragioni: in primo luogo, la possibilità per tutti i sarti capracottesi di raggiungere agevolmente la scuola per tenervi lezioni o, più in generale, di seguirne l'attività, posto che tutti possiedono un'abitazione a Capracotta (e vi tornerebbero volentieri); fissare la sede a Roma od Pescara, invece, creerebbe notevoli problemi logistici e disincentiverebbe tutti gli emigrati che vivono sul versante dell'Appennino non interessato dall'iniziativa. Va inoltre evidenziata anche la sempre più incalzante esigenza di valorizzare un'area nella quale, al giorno d'oggi, non è stato attuato alcun progetto concreto allo scopo di promuovere la nascita e lo sviluppo di iniziative imprenditoriali nel settore dell'abbigliamento, nonostante la presenza di un polo industriale di produttori di moda, dominato dalla presenza della Ittierre. Ovviamente, l'istituzione di una struttura di questo tipo deve essere supportata attraverso una campagna di comunicazione che evidenzi la sua specializzazione e l'alta qualità della sua offerta formativa. A tal proposito, l'ipotesi di una scuola di alta formazione tecnica in ambito sartoriale, che richiederebbe sicuramente almeno due o tre anni per la sua realizzazione, potrebbe beneficiare di un progetto di minore portata, ma di più rapida attuazione (un anno circa) e in grado di calamitare un notevole interesse in ambito nazionale e, forse, perfino internazionale, in modo da trainare l'attività della scuola prima della sua inaugurazione e di costituirne uno strumento di costante promozione in seguito.
Ci si riferisce all'idea di realizzare un Museo della sartoria capracottese. Tale iniziativa, che non avrebbe eguali in Italia, potrebbe, questa sì, trovare la sua sede a Capracotta, che offrirebbe così un ulteriore motivo di visita o di permanenza ai tanti turisti che oggi vi si recano solo per la sua aria pura e le bellezze naturali, ma non certo per le sue attrattive culturali. L'allestimento espositivo potrebbe essere magari ospitato in ambienti arredati in modo tale da riprodurre fedelmente i laboratori sartoriali, per ricreare così quella stessa atmosfera nella quale sono cresciute intere generazioni di sarti capracottesi. Il Museo, oltre a contenere una ricca mostra di fotografie e documenti di ogni sorta (come bozzetti e disegni), ma anche di attrezzature tecniche (come le macchine da cucire), godrebbe di una sicura forza attrattiva, se al suo interno fosse allestita un'esposizione permanente degli abiti della tradizione popolare molisana e centroappenninica (ad esempio il celebre cappotto a ruota, di cui era specialista, ad esempio, Giovanni Borrelli), ma anche delle migliori creazioni mai realizzate dai sarti capracottesi. Capo tipico della tradizione popolare molisana ed appenninica, il cappotto a ruota, detto anche mantella o tabarro, era particolarmente apprezzato per la sua estrema funzionalità negli ambienti montani, essendo stato progettato in ogni minimo particolare per proteggere il corpo dal freddo e dalle intemperie di ogni sorta. In primo luogo, infatti, il tessuto, che generalmente era di lana cardata o pettinata, ma che negli esemplari più elaborati e preziosi poteva anche essere di castorino, veniva disegnato e tagliato in due ampi semicerchi (o semiruote, da cui la denominazione) che venivano poi cuciti insieme, in modo da formare un mantello estremamente lungo, che scendeva giù lungo il corpo fin oltre le ginocchia. Il tessuto presentava poi un duplice verso sui due lati della pezza; a capo finito, infatti, la fitta peluria del tessuto avrebbe dovuto presentare, nella parte che ricopriva la schiena, un verso discendente (cioè dall'alto verso il basso), in modo da lasciar scivolare pioggia e neve senza bagnare il mantello; la parte anteriore del cappotto (cioè quella che proteggeva il petto) doveva essere invece "contropelo". Il bavero, irrigidito con tele e variamente foderato, era alto anche una decina di centimetri e sollevabile, in modo da riparare il viso da acqua e vento.
Così congegnato, il cappotto a ruota, che si indossava ruotando una metà del mantello sulla spalla opposta, offriva la massima protezione, a tal punto che, molto spesso, non veniva neppure foderato internamente, se non all'altezza del colletto. Per tale ragione, alcuni anziani capracottesi ancora lo indossano d'inverno. A tal proposito, basti pensare che nel solo laboratorio di Sebastiano Di Rienzo sono presenti decine e decine di opere preziose ed uniche, alcune delle quali risalenti agli anni Sessanta. Per evitare il rischio (reale) che l'esposizione venga considerata da alcuni come una celebrazione della carriera del solo Di Rienzo, sarebbe comunque necessario collocarvi le creazioni originali (magari donate gratuitamente) o, quantomeno, le fedeli riproduzioni dei capi con cui tutti i più famosi sarti capracottesi hanno conseguito i principali riconoscimenti, sia a livello accademico che commerciale: tra i tanti, si possono citare i cappotti double-face di Alfio Paglione, oppure i frac di Ezechiele Di Lullo per Caraceni. Alla realizzazione delle riproduzioni potrebbe collaborare chiunque si offrisse volontario, allo scopo di sottolineare e di esaltare il contributo collettivo all'attuazione di un progetto che deve essere avvertito dalla comunità capracottese, sia quella residente in paese che quella emigrata, come una celebrazione ed un racconto, a futura memoria, di se stessa e di una vicenda che ne ha segnato la storia e l'identità rispetto ad ogni altro paese d'Italia. Proprio la partecipazione spontanea all'allestimento museale consentirebbe di contenere sensibilmente i costi per la realizzazione del progetto, che in ogni caso non presenta significative difficoltà, nemmeno nella gestione dei rapporti con le istituzioni, poiché il principale partner dell'iniziativa sarebbe il Comune di Capracotta, il quale dovrebbe incaricarsi principalmente di fornire uno spazio espositivo di dimensioni adeguate (magari individuandolo al pianterreno di un edificio già esistente). Anzi per agevolare le varie fasi di progettazione e realizzazione del progetto, si può ipotizzare la costituzione di struttura che riunisca soggetti privati (imprenditori locali) e pubblici (come la Pro Loco ed il Comune di Capracotta). Tale alleanza potrebbe sorgere nella forma della fondazione, la quale si preoccuperebbe anche di amministrare il museo dopo la sua inaugurazione. Grazie alle economie previste, dunque, una richiesta di finanziamento ad un ente locale (come lo stesso Comune, la Provincia di Isernia, o addirittura la Regione Molise), in buona sostanza, ammonterebbe a poche decine di migliaia di euro e sarebbe finalizzata esclusivamente a reperire i fondi per l'acquisto di materiali e di attrezzature da impiegare nell'arredamento dei locali della mostra, per la retribuzione di un'impresa e di consulenti incaricati di realizzare l'allestimento espositivo. A tal riguardo, va sottolineato che Capracotta è anche patria di valenti falegnami ed arredatori, che, dopo essere anch'essi emigrati, come i sarti, un po' in tutta Italia ed in particolare a Roma, hanno in molti casi conseguito una buona fama e notevoli apprezzamenti. Esiste dunque la concreta possibilità di realizzare ulteriori e consistenti economie negli investimenti necessari alla realizzazione dell'arredamento di questo ipotetico museo, grazie alla fitta rete di rapporti di parentela, amicizia ed in generale di "paesanità" che legano falegnami e sarti capracottesi. Anche per l'organizzazione di un servizio di sorveglianza e manutenzione del museo non dovrebbe essere difficile convincere un gruppo di capracottesi di tutte le età a prestarsi, in cambio di un rimborso spese o di un piccolo compenso, alla custodia ed alla cura del museo, magari sulla base di una periodica turnazione. Da ultimo, gli incassi derivanti dalle visite al museo potrebbero essere gestiti dalla fondazione non solo per il suo autofinanziamento, ma anche, per l'appunto, per la manutenzione e custodia del museo medesimo. Eventuali eccedenze potrebbero infine essere impiegate per dar vita al più ambizioso progetto della scuola di alta formazione tecnica. In prospettiva, entrambe le iniziative qui presentate dovrebbero ricevere un'accoglienza entusiastica e registrare una consistente partecipazione, sia da parte dei sarti capracottesi (ancora in attività od in pensione non importa), ma anche da parte del resto della popolazione del paese, poiché tali progetti non sono meramente protesi alla valorizzazione del territorio ed all'incremento occupazionale, ma si accompagnano alla riscoperta di una parte assai rilevante dell'identità culturale di Capracotta. Chi non presterebbe la sua collaborazione per far sì che venga raccontata una storia che ha coinvolto familiari ed amici, quando non se ne è stati addirittura protagonisti in prima persona?
Per le generazioni di sarti che, con il loro lavoro, i loro sacrifici e l'arte espressa nelle creazioni realizzate dalle loro mani d'oro, tanto hanno contribuito alla notorietà di questo paese, vi sarebbe una ragione ulteriore per contribuire attivamente al buon esito del progetto inerente al museo od a quello relativo alla scuola di alta formazione tecnica. Chiunque giunga al termine della sua carriera professionale avverte infatti il desiderio di essere circondato da giovani che apprendano la nobile arte che ha forgiato la loro manualità ed il loro spirito.
Scrisse Luigi Barzini, nel già citato elzeviro su Ciro Giuliano: «Si lamentava, in vecchiaia, di una cosa sola, di non avere quasi più clienti esigenti e conoscitori che insegnassero il mestiere a lui. – È finita – diceva. – Sono io ora che devo insegnare a loro. Devo consigliare le stoffe e inventargli l'abito. E quelli accettano tutto. È finita –. Non aveva capito che, in una società aperta in cui l'élite si rinnova tumultuosamente di continuo, l'artigiano ed il mercante hanno il compito di tramandare le regole del saper vivere agli uomini nuovi». Questa possibilità, vale a dire trasmettere alle nuove generazioni la propria esperienza e le proprie abilità, non l'hanno mai avuta, purtroppo, i sarti capracottesi, che nel tempo hanno assistito alla progressiva desertificazione delle sartorie, a differenza di quanto avvenuto per altri mestieri, come la falegnameria, che in paese conta ancora diversi laboratori, gestiti da giovani artigiani, che garantiscono la giusta continuità per il futuro di questa professione a Capracotta.
A tal proposito, è interessante notare come tra la storia dei falegnami e quella dei sarti si possano individuare numerosissimi punti di contatto (anch'essi emigrarono in massa per raggiungere Roma, che costituiva la meta privilegiata) e parallelismi: identica la tradizione secolare, che ha consentito di acquisire un immenso patrimonio di conoscenze; identica la maestria nella realizzazione di lavori, che hanno procurato anche ai falegnami, così come ai sarti, infiniti riconoscimenti professionali, tanto da far definire Capracotta la "capitale dei falegnami"; identico, infine, anche il desiderio, espresso dagli artigiani più celebri ed apprezzati, come Vincenzo Di Tella, arredatore e realizzatore di scenografie per importanti opere teatrali, di costituire una scuola di formazione tecnica nel settore dell'arredamento, che rappresenti un punto di riferimento formativo per le nuove leve di giovani falegnami . L'unica differenza tra l'epopea dei sarti e quella dei falegnami, dunque, sta nel suo epilogo, poiché in paese l'arte della lavorazione del legno è ancora viva, mentre quella del taglio e cucito sta per dissolversi e diventare semplice memoria storica.
Non tutto è perduto; occorrono, tuttavia, determinazione, capacità organizzativa e soprattutto spirito di collaborazione tra persone ed enti, partendo magari da piccoli progetti concreti per realizzare poi iniziative di più ampio respiro e creare quell'humus culturale necessario alla proliferazione di nuove attività imprenditoriali.
L'Italia, infatti non sta dimenticando solo la capacità di fare, di realizzare prodotti artigianali belli come opere d'arte. Sta dimenticando anche le ragioni per cui sa fare queste cose e in che modo.
Bisogna perciò iniziare ad ascoltare ed attuare le proposte e le richieste dei nostri più valenti artigiani, che di giorno in giorno assumono sempre più il tono di invocazioni, se non addirittura di preghiere disperate.
Il futuro di un settore industriale, come quello del tessile-abbigliamento, che costituisce ancora una colonna portante dell'economia del Paese, sta, paradossalmente, nella riscoperta della propria identità culturale, nel riesumare prima e nel valorizzare e rifondare poi patrimoni comuni di conoscenze ed abilità artigianali come quello che ha consentito ai sarti capracottesi di eccellere.
È ora di rinfrescare la nostra memoria, per rinverdire il nostro futuro.
Luigi D'Onofrio
Fonte: L. D'Onofrio, Storia dei sarti di Capracotta dal dopoguerra ad oggi, tesi di master, Università degli Studi di Teramo, Penne 2004.