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Storie d'altri tempi: il lupo


Giuseppe Di Tella
L'attestato della Fondazione Carnegie per Giuseppe Di Tella.

I fatti principali di questa storia me li ha raccontati mia madre: lei, infatti, era solita raccontarmi di tutto, sia quello che ricordava in prima persona, sia quello che aveva a sua volta sentito raccontare. E sebbene pochi ormai in paese ricordino i fatti, i familiari dei protagonisti purtroppo li rammentano ancora molto bene: Felice Di Tella, nipote di Giuseppe, mi ha fornito i documenti che sono qui riportati e successivamente la signora Flora Antonelli, anche lei nipote delle protagoniste, mi ha raccontato l'intera storia di quel triste giorno, con precisione e dovizia di particolari, così come l'aveva appresa da suo padre Gennaro Alessandro Antonelli (conosciuto con il soprannome di Cellitt') testimone diretto dei fatti.

I fatti si svolsero il 18 agosto 1918 e vedono come protagonisti alcuni componenti della famiglia di Liborio Antonelli, Giuseppe Di Tella e suo figlio Pasquale, un giovane pastore ed un lupo. All'epoca molti compaesani combattevano al fronte, mentre quelli rimasti in paese si trovavano quotidianamente a dover affrontare la povertà e la fame. La povertà, la fame e le difficili condizioni di vita soprattutto nelle campagne erano ben note anche agli esponenti della politica e della cultura che si riferivano ad esse come "questione meridionale": l'unificazione dell'Italia del 1861, forzosa e mal riuscita, non aveva portato nessun miglioramento nelle condizioni di vita della popolazione: leggi inique e vessatorie, pressione fiscale esorbitante e non sostenibile, assenza o addirittura chiusura delle scuole avevano creato solo povertà, analfabetismo e brigantaggio.

Fu in quel periodo che fu coniato il motto: "O brigante o emigrante".

Oltre all'agricoltura la risorsa economica principale del paese era costituita dalla pastorizia: praticata con la tecnica della transumanza, che con lo spostamento del bestiame dalla montagna alla pianura durante l'inverno e viceversa durante l'estate, regolava la vita e le attività della popolazione come feste, matrimoni, e nascite. Durante l'estate il rientro dal Tavoliere delle Puglie delle mandrie comportava un restringimento degli spazi abitualmente occupati da animali predatori come il lupo che avevano campo libero ovunque durante l'inverno, aumentavano quindi le occasioni di contatto con il bestiame domestico che diventava facilmente preda di attacchi, sia notturni che diurni, da parte dei lupi.

Questa situazione è ben rappresentata nel film di Giuseppe De Santis del 1956 "Uomini e lupi" che descrive la vita dei lupari, ossia dei cacciatori che si guadagnavano da vivere uccidendo lupi per conto degli allevatori: anche nel nostro paese c'era l'usanza di portare il lupo ucciso per le strade mettendolo in mostra come un trofeo; ed il cacciatore, come riconoscimento per il servizio reso alla popolazione, riceveva sempre offerte non in denaro, che scarseggiava ovunque, ma con generi alimentari come pane, grano, mais.

Apparentemente un giorno come tanti il 18 agosto 1918, ma in un periodo importante: quello della mietitura, infatti quando il grano è maturo deve essere mietuto al più presto perché una giornata di sole in più o l'eventualità di un acquazzone o di una grandinata, sempre in agguato in zone montane, possono pregiudicare notevolmente il raccolto. Lo sapeva bene anche Liborio Antonelli che, avendo perso la moglie Florinda Bisciotti solo pochi giorni prima, era rimasto in casa con la sua famiglia per una intera settimana, come era usanza quando un lutto grave colpiva la famiglia, pur avendo il grano da mietere in località Muleta dove possedeva un terreno.

Florinda e Liborio avevano quattro figli: Doralice, la primogenita, sposatasi a novembre dell'anno prima, e già sola in quanto suo marito era emigrato in America in cerca di fortuna; Antonietta, nata nel 1900, nubile; Gennaro Alessandro, nato nel 1903, meglio conosciuto come Cellitt'; e la piccola Luisa nata nel 1906, quindi appena dodicenne.

Terminati quindi gli otto giorni di lutto voluti dalla tradizione, consapevole che il grano non poteva più aspettare, quella mattina Antonietta prepara il tascapane con quel poco che avevano e che sarebbe dovuto bastare per l'intera giornata di lavoro; prende l'occorrente per cucire: ago, filo e ditale, non perché debba cucire, ma perché così usavano le donne - n'z sa mié... pò sèmpre servì (non si sa mai può sempre servire) - ed insieme ad Alessandro si incammina per raggiungere le Muleta, dove avrebbero incontrato la sorella Doralice che portava con se anche il suo asino.

Loro padre Liborio non va con loro perché quella mattina aveva altre faccende da sbrigare; neanche la piccola Luisa va a mietere, non per capriccio, mancanza di volontà, o per la sua giovane età, ma perché priva di scarpe per poter andare in campagna. Non tutto il male viene per nuocere, recita un proverbio, infatti la mancanza di scarpe, apparentemente penalizzante per Luisa, le salverà la vita.

Le Muleta è una contrada situata proprio alle falde di Monte Cavallerizzo (sotto alla Furcatùra), pianeggiante e soleggiata, ottima posizione per la coltivazione del grano.

Raggiungere oggi le Muleta significa fare una passeggiata solitaria ed in assoluto silenzio, rotto solo dal fruscio degli alberi o dal volo di qualche uccello, ma allora non era così: sicuramente Doralice, Alessandro ed Antonietta lungo il loro percorso incontrarono altra gente che andava a mietere con le quali scambiare qualche parola, o pastori con i loro greggi o mandrie di mucche; e sentirono ogni tipo di rumore tipico della campagna: il belare delle pecore, l'abbaiare dei cani, le urla dei pastori, i canti dei contadini già intenti al lavoro: la campagna di quel tempo, quella che anche io ricordo con nostalgia ancora oggi, era proprio così: viva e meravigliosa.

Durante la mietitura le giornate non finivano mai, il lavoro iniziava molto presto al mattino e terminava al calar del sole, ed anche oltre, forse proprio in una di queste giornate calde e faticose che una donna del paese rivolgendosi al sole, per rimprovero o per esortalo a tramontare esclamò la frase:

Ess' si armast' – volendo dire: lì sei rimasto, perché oggi non tramonti?


Uomini e lupi
La locandina di "Uomini e lupi", con Silvana Mangano e Yves Montand.

La giornata per i componenti la famiglia Antonelli trascorre regolarmente: Antonietta e Doralice mietono e dietro di loro Alessandro lega i covoni, ad una certa ora del pomeriggio tranquille ed ignare di ciò che le aspetta si fermano per fare l'armrènna (una breve sosta con spuntino pomeridiano, tipico dei lavori in campagna, che si faceva attorno alle 15:30-16:00). Durante la pausa Doralice si accorge di non vedere più la sua somara e chiede al fratello Alessandro di andare a cercarla, ma poiché lui ha ancora qualche covone da legare manda Antonietta alla ricerca dell'animale.

Superata una collinetta poco distante Antonietta si accorge che la somara è stata aggredita da un animale che apparentemente sembra essere un cane: la ragazza si avvicina urlando in direzione dell'animale, per cercare di farlo allontanare, ma questo si rivela essere un lupo, per di più idrofobo, e non appena sente la voce della ragazza lascia la somara e si avventa su di essa: senza che Antonietta possa rendersi conto di ciò che accade il lupo la strattona, la butta a terra e con estrema violenza si accanisce contro di lei.

Doralice, preoccupata dalla lunga assenza della sorella, prova a chiamarla ma, non ottenendo risposta, si mette alla sua ricerca: appena superata la collinetta vede la terribile scena del lupo, reso cieco della malattia, che si accanisce su Antonietta, anche lei prova ad urlare nella speranza di spaventare e allontanare l'animale, ma questo sentendo la voce di Doralice si avventa su di lei. Le urla di Doralice richiamano l'attenzione di Alessandro che corre a vedere cosa stia succedendo, ma Doralice cerca di avvertire il fratello:

Vattinne, vattinne! (scappa, scappa!) – urla ad Alessandro, ma il lupo ha ormai avvertito la presenza di un'altra persona e corre verso il ragazzo, questi prova a scappare, anche se in aperta campagna non ci sono molti posti in cui rifugiarsi, fortunatamente vede un solco nel terreno e vi si butta a pancia in giù, il lupo prova ad aggredirlo e con gli artigli ferisce lievemente la testa di Alessandro che fortunatamente era protetta, come si usava a quei tempi, da un fazzoletto annodato ai quattro angoli in modo da formare una sorta di basco.

Il lupo che, come si è scoperto in seguito, proveniva da Capracotta dove aveva già fatto altre vittime, prosegue la sua corsa verso il paese e si imbatte in un gregge di pecore appartenente alla famiglia di Teresa Patete, conosciuta come "la Pupa" - che in dialetto significa bambola. Il gregge era custodito da un pastorello di 16 anni di Pietrabbondante, il quale inizialmente prova a difendere il gregge, ma quando vede che il lupo si dirige verso di lui, tenta la fuga e si rifugia in una casella (le caselle erano piccole costruzioni in pietre a secco che si trovano ancora oggi sparse per la campagna e che servivano da riparo per i contadini e i pastori) ma il lupo lo segue fin dentro al rifugio e lo aggredisce con estrema violenza, non solo sfigurandolo ma causandone la morte.

Ormai nelle vicinanze del paese, in zona Pantano, si trovano Giuseppe Di Tella e suo figlio Pasquale, di quindici anni, i due hanno appena terminato di arare, hanno liberato i buoi dal giogo lasciandoli liberi di rifocillarsi, ed hanno caricato sul mulo l'aratro, il giogo e tutta l'attrezzatura per l'aratura. Giuseppe, sentendo le urla, fa appena in tempo ad intuire l'accaduto quando si accorge che il lupo si sta dirigendo verso di loro e comprende che lui e suo figlio sono in grave pericolo: così tira giù dal mulo il giogo, si fascia un braccio con la giacca ed affronta il lupo infilandogli il braccio fasciato in bocca, e cercando di mantenerlo fermo esorta il figlio a prendere il giogo per colpire in testa l'animale. Pasquale ubbidisce, ma non è facile colpire solo il lupo in quanto il padre e l'animale lottano furiosamente: sia per Giuseppe che per il lupo la posta è alta: per loro si tratta di vita o di morte. Nonostante la tensione Pasquale fa del suo meglio per essere preciso, purtroppo però, per sbaglio, colpisce anche il padre che per un momento sembra avere la peggio, ma subito si riprende, riesce ad immobilizzare il lupo in modo che Pasquale possa finalmente terminare l'opera uccidendo il lupo. Nella colluttazione Giuseppe è stato morso sul braccio, ma inizialmente non sembra nulla di grave.

La giornata si chiude con un triste bilancio: un morto e tre feriti dei quali due in modo grave. Sin dalla stessa sera l'Arma dei Carabinieri, coadiuvata dalle autorità locali, inizia le indagini e gli opportuni rilievi. Al lupo viene tagliata la testa ed analizzata: il risultato delle analisi conferma le supposizioni e i timori iniziali: il lupo era affetto dal virus della rabbia.

Il giorno seguente Giuseppe e le povere sorelle Doralice ed Antonietta vengono portati a Napoli e ricoverati in ospedale. Le ferite al seno vengono ricucite, le sorelle Antonelli reagiscono bene alle cure ma il pericolo ed il timore dell'infezione da rabbia rimangono; e benché le ferite di Giuseppe siano soltanto superficiali, anche per lui resta alto il pericolo del contagio. Infatti, dopo quaranta giorni esatti da quel terribile 18 agosto Doralice ed Antonietta Antonelli muoiono ad un giorno di distanza l'una dall'altra. Vengono seppellite nel cimitero vicino all'ospedale dove periodicamente il fratello Alessandro va a visitarle. Alessandro prende l'abitudine di recarsi alle Muleta nei momenti liberi e di fermarsi a pensare ai piedi di una pianta di noccioline: il luogo dove per l'ultima volta aveva fatto merenda con le sue sorelle. Un giorno, assorto nei suoi pensieri, smuovendo il terreno con un rametto, vede spuntare dal terreno un ditale: forse era quello che aveva portato con sé Antonietta quel maledetto 18 agosto 1918.

Il destino di Giuseppe sembra diverso, viene presto dimesso dall'ospedale e torna a Vastogirardi, per un breve periodo non mostra i sintomi della malattia, ma poi inizia ad avere i primi disturbi specialmente durante la notte: al sopraggiungere delle crisi, insieme alla moglie toglie tutto ciò che si trova nella camera, poi lei esce rinchiudendolo e resta in attesa che cessi la rabbia furiosa che lo ha assalito. Nei momenti di calma Giuseppe, rendendosi conto della situazione, si sente sempre più frustrato e quasi si vergogna al cospetto dei figli e della moglie. Intanto la malattia diventa sempre più aggressiva e le crisi si ripetono sempre più spesso: Giuseppe deve essere sorvegliato giorno e notte, pertanto ad aiutare la moglie intervengono i parenti e le autorità del Comune, finché il 12 ottobre 1918, cinquantaquattro giorni da quel fatidico 18 agosto, la malattia ha il sopravvento e Giuseppe, distrutto nel fisico e nel morale, muore.

Alla sua morte, all'età di 55 anni, Giuseppe Maria Di Tella lascia 6 figli: cinque avuti da una prima moglie e l'ultimo, Pasquale, avuto da Sabatina Stizza di Carovilli, sposata dopo la morte della prima moglie.

Merenda Vastogirardi
L'armrènna a Vastogirardi (foto: V. Marracino).

Il 24 novembre 1919 la Fondazione Carnegie, conferisce la medaglia d'argento al valor civile a Giuseppe Di Tella.

Il 31 dicembre dello stesso anno il Consiglio comunale di Vastogirardi delibera che la medaglia d'argento riconosciuta dalla Fondazione Carnegie debba essere consegnata in forma solenne alla vedova Sabatina Stizza e le assegna altresì un contributo annuo di £ 1.200 rinnovabile di anno in anno secondo le necessità della famiglia.

Il 31 maggio 1921 il Ministero dell'Interno conferisce la medaglia d'argento al valore civile per atto di eroismo al consigliere comunale Giuseppe Di Tella.


Domenico Marchione

 
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