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La strada d'erba (IV)


La strada d'erba

Eran chiare le notti, e già a ponente

la luna nuova s'inarcava rossa

a maggio, come sposa adorna d'astri.

E piamente mossero sui carri

verso Monte, e con essi alcune donne

i cui figli attendevan cavallucci

di cacio ed ostie piene. La vallata

dall'ombra verde di Stignano come

una culla li accolse nel suo grembo.

Scese la notte e il morbido suo fiume

azzurro schiuse, tremulo di stelle;

e un suon di canna agreste, dai silenti

faggi della campagna fatta scura

e dolorosa, a mescersi poi venne

alle piane lor preci. La prim'alba

ad altri li confuse che per altre

strade alla stessa valle Carbonara

eran giunti, sboccando ad una foce,

in un flutto di canti e di stendardi;

e avanti a loro messa fu l'insegna

cinta di veli e adorna di fioretti,

e, dietro, i pellegrini scalzi in coro

su per l'erta salita verso il Monte

alla cui cima, come un baluardo,

rosseggiava nel cielo il santuario.


Or avvilito e triste il pecoraio

con le pecore, i butteri e i pastori

abbandonava il pian di Puglia al suono

querulo dei campani. Alla pastura

estiva, dove fra i bacini eccelsi

l'acqua ricanta la sua gioia all'erbe,

or spingeva la torma tutta scarna

e senza lana il giovine d'Abruzzo;

ma il tratturo, sebbene asciutto al fondo,

le prode aveva ancora violette

di nuova malva; e l'avido suo gregge,

sostando ed indugiando lungo i fossi

e i margini, più lento andava; e dietro

non lo premeva assorto il mandriano,

ché il suo cuore lasciava alla pianura.


Già paghe alla promessa dell'addio,

or le donne più dentro nella casa

si ritrassero a far le tele e i lini,

perché fossero pronti al suo ritorno.

Poi la campagna s'ammantò di giallo:

favorita dai freschi venti occidui,

si strinse l'oro nelle dure spighe;

e grande fu l'offerta del frumento

fatta dal Tavoliere non mai esausto,

ove il ciel l'assecondi, di donare

al colono più provvido e tenace

il giusto premio delle sue fatiche.

Ed affacciato all'uscio del gran forno

or egli ansioso domandava, e fino

a lui giungeva l'eco del clamore

dall'aie vaste ed assolate, dove

già s'ammassava il grano. Una mattina

che alla porta sostarono i carretti,

più sacchi rotolarono nel forno,

stretti alla gola e pieni di frumento.

E quei, traendo in casa la dorata

messe, rendeva grazie: – Ancor permetti,

o Signore, ch'io faccia le provviste:

avrà nel verno il forno l'alimento,

né verrà meno ai poveri il buon pane.


Poi la campagna s'intristì nell'afa

della torrida estate, nel silenzio

dell'opre smesse e nell'urlante rabbia

dello scirocco, come un morto suolo

che la luce devasti coi corruschi

gorghi. Così ristora, nell'influsso

degli astri, e rifeconda le sue forze

il Tavoliere, scrigno ognor possente

dell'amore di Dio, che vi s'asconde

nell'infinito campo delle zolle.


II silenzio cresceva nella casa

come un'ombra notturna, con presagio

di tristi giorni. Disse allora l'uomo

alla donna: – Tu vedi che non vane

eran le mie parole: il pecoraio

più non s'è fatto vivo, e si capisce.

L'annata è stata grama e le speranze

più non sono pei greggi. Forse a mente

tiene il mio detto: fan carbone e legna

dei boschi, e seminati fan dei paschi.

E sai, anche il bel Parco della Notte,

tutto ombroso di querci, cerri e d'olmi,

presso lo Spino Santo che frescura

dava in estate e caldo nell'inverno

alle vacche per entro i rami folti,

pur quello è stato rotto con l'aratro,

perché il grano ci vuole per il pane,

e non il cacio, come già gli dissi.

E forse questo lui se lo ricorda.

Più non v'è qui pastura e lui non torna,

e tu la figlia avrai sempre nel pianto.

Son costoro del Sannio e dell'Abruzzo

come i lor carbonai di Capracotta,

che qui carbone e legna fanno, e soldi

rivendendoli a noi con la bilancia;

e poi, quand'è l'estate, alla Fontana

dell'Orso se ne vanno. Ma per questi

pure verrà la fine, ché la terra

di Puglia è nostra, e i nostri contadini

che la lavorano essa adunque sazi!


Umberto Fraccacreta




 

Fonte: U. Fraccacreta, Nuovi poemetti, Cappelli, Bologna 1934.

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