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I telai di Camilleri


Andrea Camilleri
Lo scrittore Andrea Camilleri (1925-2019).

Con un padre nato a Licata e una madre napoletana, io la duosicilianità ce l'ho nel sangue. È così: la sento pulsare al minimo accenno dialettale, mi prende a ogni scatto di memoria. Se vedo "Passione", il film di John Turturro sulla canzone napoletana e sulla Napoli dei vicoli e dei panni stesi, ad esempio, mi viene subito in mente una battuta di Alessandro Siani: «Ma 'sti panni nun s'asciugano mai?». Eppure, al cinema mi sono ritrovato anch'io preso dall'onda emotiva che ha portato tutti ad alzarsi e ad applaudire, perché ti sfido a resistere alle note di "Comme facette mammeta" e alla voce rugginosa e verace di Pietra Montecorvino.

Per la stessa ragione, se leggo "Prima la musica, poi le parole", l'autobiografia di Riccardo Muti, ho un soprassalto di infantile euforia quando arrivo all'episodio del cappello. Non dico poi se il maestro lo racconta in tv e per giunta in dialetto: il suo compiacimento diventa di colpo anche il mio. Siamo nella fredda Milano degli anni Sessanta. Un amico incontra il giovane Muti da poco trasferitosi per proseguire gli studi e lo sorprende con il Borsalino in testa.

– Ué, Riccà, ma ch'hai fatto?

Che ho fatto?

Ma come! Mi pari Barrièllo.

Barrièllo chi?

E l'amico:

'O cazzo c' 'o cappiello.

Chiunque, a questo punto, avrebbe riso solo per la parolaccia, ma la duosicilianità non è acqua fresca: è memoria, è condivisione. E allora ecco che un napoletano come me ride anche per l'effetto livella, perché è proprio vero, come diceva Totò nella poesia, che qui «ognuno comme a 'n ato è tale e quale». Muti, il grande maestro che ha diretto le migliori orchestre del mondo e incantato ogni tipo di pubblico, era stato sfottuto esattamente come poteva capitare a un comune mortale. Solo che a me e a quelli della mia generazione, che il Borsalino lo avevamo già messo da parte, la rima veniva di farla con quelli che portavano gli occhiali. Dicevamo: «Me pari Clemente, 'o cazzo cu e lente».

Sono duosiciliano, ancora, perché sono nato a Napoli, nell'ex capitale del Regno delle Due Siciilie, dove ho vissuto per anni in un angolo di Sicilia agrigentina, in una casa che odorava di zucchero a velo e di lino bagnato. Una sorella di mio padre usava lo zucchero per i cannoli e il lino per i corredi. Di sera, quando il sole non poteva più scolorirlo, zia Nina faceva portare il lino bagnato in terrazza a sgocciolare. Poi, ancora umido, ordinava di riportarlo giù. Il mattino seguente tutta la casa sapeva di fresco.

Questi profumi lontani, questi ricordi e queste atmosfere familiari sono la duosicilianità di cui sto parlando e che dunque esiste. Così come esiste la nordestità, o addirittura quella che un inviato speciale come Mariano Maugeri ha chiamato, traendone il titolo di un suo libro, la «Nordestraneità», vale a dire la duosicilianità allo specchio, la particolare attitudine dei veneti e dei friulani alla libertà e all'autonomia.

Fabio Fazio, intervistato su "Sette", il magazine del "Corriere della Sera", ha dichiarato di storcere il naso al solo sentir parlare di Padania: «Ma cos'è? Che confini ha? Sono di Savona e non l'ho mai vista». Capisco, perché in effetti ha ragione. Ma che la padanità esista ormai fo dicono in molti. L'hanno detto anche Sergio Cofferati, quando era sindaco di Bologna, e Riccardo Illy, quando era presidente della giunta friulana. Entrambi hanno ammesso che l'idea di Padania evoca comunque una comune appartenenza. Ed è un po' quello che pensa anche Nichi Vendola, governatore della Puglia, quando, in La fabbrica di Nichi, riconosce che «la Lega fa una straordinaria, seppur distorta, operazione di risarcimento simbolico», intendendo dire che la Lega ti dà ciò che il governo italiano ti toglie: il governo ti toglie con le tasse e i disservizi, la Lega ti accoglie nella sua grande famiglia politica.

A ragione, si obietta che la Padania è nient'altro che un espediente, un artificio geopolitico. E chi lo nega? Ma qualcuno saprebbe dire dove comincia e dove finisce il Meridione? Eppure, Meridione è un concetto corrente, nessuno sta lì a misurarne i confini, a chiedersi se Sant'Agapito sia dentro o fuori. O Capracotta e Castelpizzuto.

Pur avendola nel sangue e nonostante tutto quello che ho fin qui detto, dunque, io spero che la duosicilianità non mi vada alla testa, che resti lì dov'è, buona buona, senza invadermi. Perché ci si può inorgoglire citando la storia di Renato Cacciopppoli e delle Quattro giornate, ci si può divertire con gli aneddoti e la filosofia pret-à-porter di De Crescenzo e ci si può commuovere ascoltando canzoni come "Malafemmena" o "Indifferentemente", che per certi versi la supera, perché è più assoluta, più tragicamente shakespeariana: «E damme stu veleno, nun aspetta' dimane, ca indifferentemente, si tu m accide, je nun te dico niente». Ma non vedo perché si debba dire: «Homo terronicus sum, et amo cumterronicos».

Questo lo lascio dire a Marcello Veneziani, autore di "Sud", libro scritto nel 2009 con lo stesso spirito con cui, nel 1941, Elio Vittorini scrisse "Conversazione in Sicilia": come un ritorno alle origini, con lo stesso amore per la terra, la famiglia, i luoghi dell'infanzia. Ma per Vittorini l'ebbrezza della nostalgia era un' ebbrezza senza speranza, tant'è che il protagonista del suo romanzo se ne torna deluso nella più moderna Milano, mentre per Veneziani la nostalgia del Sud è un'ebbrezza e basta, e tale rimane. Ora, so bene che a tutti possa scappare di rivendicare la propria napoletanità o sicilianità o pugliesità. Ma perché insistere su quel terronicus?

Sempre in "Sud", Veneziani dice che «amare le differenze» non vuol dire «armarle». Ma il fatto è che, gonfi di rancore, gli «armati» potrebbero alla fine prevalere sugli «amanti», perché c'è poco da fare: la Bassa Italia cammina, ma l'Alta Italia va più veloce. Del resto, ne ho sentite molte, raccontate in siciliano, di storie sull' acqua mancante, sulle autobotti in ritardo, sulle buttigghie riempite con santa rassegnazione. E ne ho sentite ancor di più sull'illegalità patita a Napoli e sul destino di questa città che sarebbe già segnato.

Insomma, loro potrebbero avere la meglio. E loro non sono, come scrive Veneziani, quelli che «dopo valanghe di istigazioni a liberare il Sud dagli incantesimi» vogliono a tutti i costi adeguarlo «alla nordica modernità, all'etica protestante e weberiana». Sarebbe poi cos1 sconveniente se ciò avvenisse, diciamo, in una certa misura? Loro non sono neanche quelli che si danno da fare per tenere in vita «il Sud di Pitagora e di Vico, il Sud greco e poderoso delle origini». Perché se cos1 fosse non ci sarebbe nulla di male, io credo. No. Loro sono i professionisti degli «amarcord» e degli anacronismi, i preraffaelliti del pensiero meridiano, i nostalgici della duosicilianità verginale che, nell'era dell'iPad e del BlackBerry e nell'Italia che non si incontra ma si briffa e che non scrive ma posta e logga, vorrebbero oggi un Sud «arcaico e perfino magico e superstizioso». Nonché borbonico.

Tra questi, e con tutto il rispetto dovuto al padre letterario del commissario Montalbano, io ci metto anche Andrea Camilleri, lo scrittore siciliano di cui mi ha sempre colpito una storia da lui raccontata come esempio della perfidia dei piemontesi vincitori. È la storia dei telai. La ricordo proprio perché nella mia vita c'è stata una zia, piccola, silenziosa e curva, che con ago e ditale ricamava fino a poco prima del tramonto, alla luce naturale di una grande finestra; e che ancora rivedo come in un quadro di Vermer.

La storia dei telai siciliani Camilleri la raccontò all'Unità nel 2008, quando Napoli, al tempo della prima emergenza rifiuti, era sepolta sotto cumuli nauseabondi e ognuno cercava una spiegazione a tanto scempio. Disse che al tempo dell'unificazione italiana i siciliani avevano ottomila telai che producevano stoffe di prim'ordine e che nel giro di due anni sparirono tutti, a esclusivo vantaggio di quelli di Biella, gli unici rimasti funzionanti. Capito? lo capii solo che i siciliani tessevano più e forse meglio dei biellesi. Mi lasciò invece basito il fatto che a Napoli noi si penasse tra cumuli di pattume e miasmi e Camilleri tentasse di spiegare tutto con i suoi telai. Non afferravo il nesso. Se a lui fossero rimasti i telai, a noi avrebbero tolto l'immondizia? In sostanza, non afferravo che al Sud «arcaico e perfino magico e superstizioso» avrei dovuto aggiungere, appunto, anche quello borbonico.

Un po' troppo, in verità. E non credo che il mio sia il tipico disagio illuministico di chi vive male la propria meridionalità. La vivo bene, anzi benissimo. A patto che non sia totalizzante, che non diventi l'espressione di una nuova ideologia. Già ho detto della storia di Caccioppoli usata come corpo contundente. Ma potrei raccontare anche di quando, a metà degli anni Settanta, a Napoli fu allestita un'imponente mostra sulla «civiltà del Settecento». A inaugurarla fu il sindaco comunista Maurizio Valenzi, di cui ero il cronista al seguito. Di fronte a quella mostra, che era in realtà un deferente omaggio ai Borbone, anch'io mi sentii riconciliato. Da una parte Enrico Berlinguer, l'allora segretario del Pci, dall'altra Carlo III, il migliore di quei re; da una parte l'austerità anticapitalistica, dall' altra i fasti impareggiabili della monarchia borbonica. Per quanto arduo, l'accostamento reggeva, perché c'era un equilibrio di toni e di misure. E non c'erano equivoci sui tempi. Quello messo in mostra, gli arazzi, le porcellane, le carrozze e perfino le macchine per il divertimento, era il passato. Punto.

Inoltre, non sono mai stato un novantanovino, uno di quelli che, nonostante il clamoroso falliimento, ancora coltivano il mito della Repubblica napoletana del 1799; il mito di Eleonora Pimentel Fonseca e di Gennaro Serra di Cassano, di Domenico Cirillo e di tutti gli intellettuali rivoluzionari che pagarono con la vita l'avversione alla monarchia, l'eccessiva dipendenza dai francesi e l'assoluta distanza dal popolo. Un vero novantanovino ha la fede antiborbonica di un napoletano come l'avvocato Gerardo Marotta, fondatore e presidente ad vitam dell'Istituto italiano per gli studi filosofici, che all'imperituro ricordo di quei martiri ha devoluto tutti i suoi averi. O la passione giacobina di un cilentano illustre come il procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, che ho visto piangere e immalinconirsi a ogni citazione di Francesco Mario Pagano, padre della Costituzione della Repubblica napoletana.

Ma se non è la fede giacobina, che cosa mi infastidisce nell' esaltazione borbonica? Ebbene, credo che mi stordisca tutto quell' eccesso di orgoglio che trasuda da ogni elencazione dei cosiddetti primati storici meridionali. A partire proprio dai telai siciliani, dalle sete di San Leucio, dalla prima ferrovia Napoli-Portici, e perfino dall'insuperabile ma imitatissimo San Carlo.

È vero, avevamo il più bel teatro del mondo, Stendhal ne andava pazzo; producevamo stoffe pregiate, si esportavano in tutti i continenti; potevamo andar fieri per una strada ferrata già nel 1839 (la Torino-Moncalieri è di nove anni dopo). E si sa, avevamo anche il primo telegrafo elettrico e il primo faro lenti colare, il primo ponte sospeso in ferro, quello sul Garigliano, lungo 287 palmi, pari a 76 metri, realizzato in soli quattro anni e così ben fatto da reggere il peso dei carri armati tedeschi in ritiraata. Senza contare il bacino di carenaggio più grande, ma tra quelli in muratura, e la prima nave a vapore del Mediterraneo o la prima a elica in Italia. Mentre nelle piazze e lungo i vichi c'erano già, a rischiarare le notti napoletane, i primi lumini a gas. Ne sono stati contati più di 350. Dimenticavo: e la prima cattedra di Astronomia in Italia, affidata a Pietro De Martino? E la prima cattedra di Economia politica nel mondo affidata ad Antonio Genovesi? E il primo orto botanico o il primo museo mineralogico al mondo? Avevamo anche il maggior numero di tipografie, più di cento solo a Napoli, il minor carico fiscale e la più consistente riserva aurea di tutta la penisola.

Avevamo tutto questo. Ma sempre eccezioni erano. E con le eccezioni borboniche tutto, ancora oggi, si giustifica; poco o nulla si risolve. Del resto, nel suo "Voyages en Italie", Stendhal magnificava il teatro San Carlo, ma dei napoletani parlava come di barbari, gente «rozza e seminuda che neanche nei caffè ti si toglie di torno». E l'Abate Galiani, che pure a Napoli era di casa, scriveva in continuazione alle sue amiche Madame Necker e Madame d'Épinay per confessare che viveva «in un deserto spaventoso» e che temeva di finire «napoletano come gli altri». E poi, non vorrei dire: ma anche l'Urss aveva le sue Soyuz e i suoi laboratori spaziali, le sue prime cagnette spedite in orbita e le sue prime sonde lunari. E il lavoro per tutti? E l'assistenza garantita? E l'uguaglianza e l'internazionalismo? Eppure è finita come è finita. O sbaglio?

Forse ora è più chiaro il perché del mio disagio quando ho letto "Terroni", il libro di Pino Aprile uscito nel marzo del 2010 e dedicato all'altra faccia del Risorgimento, al Mezzogiorno occupato e depredato. Ho pensato: ecco, ci risiamo con la voluttà della malinconia, con l'antagonismo meridionale, con la favola del Borbone liberale e garantista e la tesi del risarcimento per i danni subiti, con la furia rancorosa, con i coltelli tra i denti per le ferite ancora sanguinanti, con il Sud colonizzato dai piemontesi spietati.

Siamo precipitati, infatti, in quello che per me è il paradosso del giorno confuso con la notte. Che consiste nel temere le luci dell'alba e non le oscurità profonde, lo scampato pericolo e non il pericolo incombente. Mi spiego. Nel caso di "Terroni", qual è la notte? Il regno borbonico o l'Italia unita? Non c'è dubbio: per Pino Aprile l'oscurità è venuta con le camicie rosse e con i bersaglieri, con il ribaltamento delle classi dirigenti infeudate e con le riforme sabaude. Così come in "Napoli milionaria" di Eduardo De Filippo la nuttata non è quella delle rappresaglie e dei rastrellamenti nazisti, ma viene con le am-lire e il boogie-woogie portati dagli americani. «Adda passa' a nuttata» dice Eduardo. E lo dice all'inizio del 1944, in una città appena liberata, quando i tedeschi sono stati già messi in fuga e a Napoli cominciano a sventolare le prime bandiere a stelle e strisce.

In ogni caso, la vera chiave di lettura di "Terroni" me l'ha suggerita un take d'agenzia apparso un pomeriggio sul computer di redazione. Riferiva di un singolare gioco della torre e di una insolita domanda. Vittorio Emanuele II o Giuseppe Musolino? L'ultimo re di Sardegna e primo re d'Italia, il cavaliere a spada tesa dell'incontro di Teano, l'artefice dell'Unificazione insieme con Garibaldi e Cavour; o u rre dill'Asprumunti, il taglialegna diventato brigante, l'autore di almeno una dozzina di omicidi, tra cui quello di una donna? Era questa, nell' estate del 2010, la domanda posta a Roberto Maroni, ministro leghista con l'incarico preciso di acchiappare i fuorilegge.

Il gioco della torre è la specialità di Atreju, la kermesse dei giovani berlusconiani che si tiene ogni anno a Roma e i cui partecipanti, per come è congegnata, non se la possono cavare con una battuta di comodo o sufficientemente ambigua. Tipo «abbatto entrambi» o «vada per il re dei briganti», che può valere, volendo e alludendo, tanto per il monarca, quanto per il ribelle armato. No. Bisogna letteralmente buttare giù uno dei due. Il ministro degli Interni Maroni, il volto istituzionale del Carroccio, chi avrebbe buttato giù? Il re o il brigante?

Quando poco prima gli hanno chiesto di scegliere tra la canotta bossiana e la camicia d'ordinanza leghista, Maroni se l'è cavata tradendo il capo in nome dei sacri simboli. Per ironia della sorte, Atreju, il bambino-guerriero protagonista della "Storia infinita" che ha rinunciato a vendicare la morte dei genitori per dedicarsi alla Grande Ricerca, è un cucciolo della tribù dei Pelleverde. E Maroni è un camiciaverde, perché è il verde il colore d'ordinanza del suo partito. Ragione in più per non deludere. Ma adesso?

«Giù il Savoia!» è la risposta. Una scelta antitaliana, avrebbe detto Francesco Cossiga, che all'antitalianità ha dedicato un bel libro. Ma è inutile farne un dramma, tanto più, mi dice lo storico Giuseppe Galasso, che «Maroni gioca a fare il leghista estremo ma è un buon ministro degli Interni e persegue i briganti, i nuovi briganti».

La battuta di Maroni, che come è giusto che sia è scivolata senza lasciar tracce sui giornali, tranne che in un trafiletto sul "Corriere della Sera", era però importante, almeno per me, perché confermava una vecchia legge, valida sia in politica che in amore. E cioè che così come ci sono uguali che si respingono, ci sono anche estremi che si toccano. Anche gli estremi di cui si parla in questo libro: nordismo e sudismo. O meglio: turboleghismo e ultrasudismo, i quali possono specchiarsi, avvicinarsi e sovrapporsi molto più di quanto si possa immaginare.

Se così non fosse, se certi opposti non si toccassero, sarebbe difficile spiegare il successo editoriale di Terroni, un volume che è uno sbuffo liberatorio di umori sudisti. Un libro antigaribaldino e antirisorgimentale in cui i piemontesi di Vittorio Emanuele II vengono paragonati, in ordine sparso, agli sterminatori di Marzabotto, ai Lanzichenecchi di Roma, ai carcerieri americani di Abu Ghraib, ai soldati marocchini in Ciociaria, ai francesi in Algeria, alle truppe di Tamerlano e di Gengis Khan, di Attila e di Pinochet. E solo dopo molte pagine, e in modo indiretto, anche ai Khmer rossi di Pol Poto Un libro così concepito e dichiaratamente di parte («Ho stabilito una personale moratoria: centocinquant'anni bastano, ora voglio sentir parlare solo dei difetti dei settentrionali») è stato letto ed è piaciuto sia nell'ex Regno delle Due Sicilie sia in quello di Sardegna. E non credo che ciò sia avvenuto solo perché al Nord ci sono molti immigrati meridionali.

Quando nell'ottobre del 2010 "Terroni" viene presentato insieme con "Cuor di Veneto", di Stefano Lorenzetto, orgogliosa raccolta di testimonianze del Nord-Est, a far da «padrini» di un ipotetico duello geopolitico ed editoriale ci sono Raffaele Lombardo, governatore autonomista della Sicilia, e Flavio Tosi, sindaco leghista di Verona. Sul Giornale Lorenzetto annota: «Chi si aspettava di veder scorrere il sangue a las cinco de la tardes, in realtà è rimasto deluso, perché Lombardo e Tosi si sono trovati d'accordo praticamente su tutto». Lo stesso giorno, Francesco Merlo, sulla Repubblica, parla di terroni e razzisti uniti nella lotta contro l'Italia. E rimpiange i tempi di Quelli della notte, programma Rai che spopolò nell'estate del 1985, quando con ironia e leggerezza Renzo Arbore metteva insieme Miss Nord e Miss Sud, il romagnolo comunista Maurizio Ferrini e il siciliano Nino Frassica di ritorno dalla sua mitica Scasazza.

Con quale termine indicare questi opposti che si incontrano? Che cosa tiene insieme illeghista filobrigantista e il sudista antipiemontese? È il «terronismo», con la enne. Un termine che nei dizionari ancora non esiste. Dovrebbe stare prima di terrore, ma ancora non si trova. Nella Treccani c'è terrone, che è tratto dalle espressioni «terre matte» o «terre ballerine» con cui talvolta si indicavano le regioni dell'Italia meridionale. Ma non c'è terronismo. Se si interrogano Google e altri motori di ricerca, scatta automatica la correzione in terrorismo. Se però si insiste, come ha fatto Pietro Trifone in Storia linguistica dell’Italia disunita, a partire dalla base «terrone» può venir fuori di tutto. Dai diminutivi terroncino, terrunciello e terronetto, agli accrescitivi terronone e terroncione. Dai peggiorativi terronaccio, terronazzo e terronastro, ai sostantivi terronata, terrronità, terroneria, nonché terronizzazione, terronico, meridio-terronale, terronistico. E non mancano il verbo terronare, utilizzabile al posto di taroccare, e la parlata terronese. Che poi sarebbe quella di Diego Abatantuono ai tempi di "Eccezzziunale veramente" e "Viuuulentemente mia", quando chiamava la moglie Babbara e non Carmela, che era il suo vero nome, «pecché fa più settentrionale»; e quando da buon figlio di padre pugliese, a ogni occasione ripeteva: «I' so' milanese ciento pe' ciento».


Marco Demarco

 

Fonte: M. Demarco, Terronismo. Perché l'orgoglio (sudista) e il pregiudizio (nordista) stanno spaccando l'Italia in due, Rizzoli, Milano 2011.

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